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Le candele di Kavafis

19 aprile 2009

Kostantinos Kavafis, Candele

Stanno i giorni futuri innanzi a noi
come una fila di candele accese
dorate, calde e vivide.

Restano indietro i giorni del passato,
penosa riga di candele spente:
le più vicine danno fumo ancora,
fredde, disfatte, e storte.

Non le voglio vedere: m’accora il loro aspetto,
la memoria m’accora il loro antico lume.
E guardo avanti le candele accese.

Non mi voglio voltare, ch’io non scorga, in un brivido,
come s’allunga presto la tenebrosa riga,
come crescono presto le mie candele spente.

Kostantinos Kavafis

Kostantinos Kavafis

Kavafis espone in questa sua poesia, in modo mirabile, l’idea del tempo lineare.
Cos’è il tempo lineare? È una linea, anzi un segmento più o meno lungo, che molto bene si adatta a ciò che fisicamente siamo: un corpo fra gli innumerevoli altri che costituiscono il mondo, che si muove nello spazio e nel tempo per un po’. Adattata a noi, quest’idea del tempo, più che ad un segno diritto assomiglia ad uno curvo, perché per noi c’è un inizio – la nascita –, una crescita fino ad un punto che possiamo chiamare zenit e poi un declino fino alla scomparsa. Gli antichi chiamavano il punto più alto “l’età del fiorire” e lo collocavano attorno ai quarant’anni. Dante si è trovato nella selva oscura “nel mezzo del cammin di nostra vita”, ed aveva trentacinque anni quando gli è accaduto.
Questo tempo lineare richiede, dunque, che ci sia un inizio, uno svolgimento, e poi una fine improvvisa, o anche differita ma ineluttabile. La fine ha un nome noto a tutti: morte.

Ecco perciò il tempo della vita, com’è vissuto e conosciuto dalla stragrande maggioranza degli uomini: non si sa da dove si viene, si ignora dove si va, e se non si conosce di noi stessi l’inizio e la fine, incomprensibile è anche il tratto dove s’accende la vita e la coscienza, sia pure in modo intermittente anch’esse, perché la veglia, per esempio, è interrotta dal sonno e la coscienza dall’inconscio.
A questo punto, tutto ciò è espresso dalla poesia di Kavafis. “I giorni futuri stanno innanzi a noi/ come una fila di candele accese/ dorate, calde e vivide./ restano indietro i giorni del passato,/ penosa riga di candele spente.”
C’è la vita e la coscienza del poeta in questa visione, e da questa precarietà e indigenza prorompono le parole nei modi del sentimento. C’è l’angoscia, il suo accorarsi ripetuto: per l’aspetto delle candele appena superate, “fredde, disfatte e storte”; per quelle ancora più indietro di cui ricorda “il loro antico lume”. E non vuole voltarsi per non vedere, per non scorgere, “in un brivido,/ come s’allunga presto la tenebrosa riga,/ come crescono presto le candele spente”.

Ma davvero questo è il tempo, o solo così: vale a dire un segmento o arco fatto di minuti, ore, giorni, mesi, anni, che si srotola sulla vita e misura la sua lunghezza?
A guardar fuori di noi non è così. Fuori non ci sono segmenti e archi di tempo, ma cerchi completi. Quello della terra attorno al sole, le fasi della luna, i cicli delle stagioni. Inoltre tutto va e torna indietro e riprende da capo dal punto dove aveva incominciato: il seme dell’albero che cade sulla terra in autunno ed entra in essa, germoglia in primavera, diventa pianta, ritorna seme.
Sembra facciano eccezione gli animali. Il gatto amato e coccolato non c’è più, dice la sua proprietaria con le lacrime agli occhi. È morto, ed è come se fosse sparito un essere umano per sempre. Ma ci sono poeti e filosofi che non condividono l’idea della scomparsa eterna.

Nell’Ode ad un usignolo John Keats ha scritto che l’uccello che ha udito in un giardino di Hamstead, all’età di ventitré anni, in una notte del mese d’aprile del 1919, è lo stesso che nei campi d’Israele, un’antica sera, udì Ruth la moabita. Non un altro usignolo, dunque, ma lo stesso dopo migliaia d’anni: l’eterno ritorno dell’usignolo, uguale all’eterno ritorno del giorno, delle stagioni, delle costellazioni.

Non diversamente da Keats, Schopenhauer, nel secondo volume di Il mondo come volontà e rappresentazione, al capitolo 41, ha espresso l’identica intuizione: “Chiediamoci con sincerità se la rondine di quest’estate è un’altra da quella dell’estate passata e se realmente fra le due il miracolo di trarre qualcosa dal nulla si è verificato milioni di volte per essere smentito altrettanto dall’annientamento assoluto. Chi mi oda affermare che il gatto che sta giocando lì è lo stesso che saltava e scherzava in quel luogo trecento anni fa, penserà di me quel che vorrà, ma la pazzia più strana è immaginare che fondamentalmente sia un altro”.

La stessa cosa per Hegel, che ha ripreso quegli esempi e ha aggiunto la mitica Fenice, l’uccello che ogni cinquecento anni si costruiva un rogo per immolarsi nel fuoco e poi risorgere dalle sue ceneri: se la morte viene dalla vita che finisce, a sua volta la vita nasce dalla morte ed è sempre la stessa.

Seguito da Leibniz, che così ha formulato quel pensiero comune a tanti veggenti: “Gli animali, al contrario di quanto crede il popolo, propriamente non hanno nascita” – perciò nemmeno morte com’è comunemente intesa –, e ha fatto il caso del baco da seta dove appare chiaramente che c’è solo un passaggio rapido dalla vita di bruco a quella di farfalla. In questo caso i confini della vita e della morte sono così vicini che in certi casi basta un salto per attraversare l’Abisso. Similmente trascorre la notte e sorge il giorno, ma la notte non muore lascia il passo nella sfera di ciò che appare ai mortali.
Se le cose stanno così, allora nulla davvero segue un cammino somigliante ad un segmento o ad un arco. Nulla davvero è nuovo di quando arriva in questo mondo, né precipita e scompare per sempre alla fine del cammino. Eppure è ciò che appare e che si afferma che avviene. Cos’è, allora, che non torna, che non va?

La nostra conoscenza non va. Perché i suoi aspetti parziali e i suoi limiti, vale a dire inizio e fine e lo svolgimento lungo un arco, non appartengono alla vita ma alla conoscenza che abbiamo di essa. Vediamo, conosciamo, solo ciò che si riesce ad illuminare in modo chiaro e distinto con la luce della ragione. Allora è lei la limitata e difettosa: nella veste di candele accese nella poesia di Kavafis, ma una fila che comincia e finisce.
Invece la filosofia è continuata. Dopo il suo corso diurno, che va da Socrate a Hegel, è cominciato quello del tramonto e notturno. Il primo a partire è stato Schopenhauer e dopo circa due secoli di cammino nell’inconscio con la lampada del logos nella mano, come fanno i viandanti nella notte oscura, l’arrivo. Ma per ora solo di un’avanguardia. E l’esercito si trova ancora nella notte, anzi nel nichilismo diventato condizione normale.

Con l’arrivo, il segmento o arco diventa un cerchio.
Ed ora che il cerchio si è chiuso e la fine coincide con l’inizio? Non sembra più di perdersi: che il passato s’allontani e non ritorni più e d’esser spinti nel futuro ignoto. Inoltre, colta in un solo sguardo la rotondità della vita si può portarsi al centro, anzi ci si trova in esso. Non è la prima volta che un posto d’osservazione così viene raggiunto.
Boezio l’ha chiamato il luogo eterno e l’ha definito come il possesso totale, istantaneo e perfetto di una vita interminabile.
Da quel presente eterno, Marco Aurelio “ha visto tutte le cose: quelle che furono nell’insondabile passato, quelle che saranno nel futuro” (Marco Aurelio, Pensieri, libro VI, 37).
Thomas Eliot ha scritto di esso così: “Io posso solo dire, là siamo stati (nel punto fermo del mondo che ruota): ma non posso dire dove./ E non posso dire per quanto tempo, perché questo significa/ Collocarlo nel tempo” (Thomas Steam Eliot, Burnt Norton).
Nietzsche, raggiunta il portone carraio che ha nome attimo, ha visto dipartirsi da esso i due sentieri del tempo, il futuro e il passato: uno sempre più avanti e sempre più lontano, lungo un’eternità; l’altro all’indietro, sempre più indietro, un’altra eternità. I due sbattevano la testa l’un contro l’altro dov’era il portone, cioè nell’attimo dove s’è trovato; e ha visto, saldamente annodate l’una all’altra, arrivare e partire le cose, continuamente, eternamente (Nietzsche, Così parlò Zarathustra, “La visione e l’enigma” Adelphi).
Esso è poi il punto caro alle dottrine esoteriche che lo considerano il centro dell’equilibrio e della stabilità, perché punto mediano tra i due poli opposti. Perciò nel cuore della tempesta c’è pace, e tutto gira attorno e tutto appare.
Ma cos’è quel centro? Per la conoscenza è l’insondabile Io, ciò che ognuno dice di se stesso, continuamente, ripetutamente: Io sono, Io credo, Io vado, Io voglio, ciò che tante dottrine chiamano anche Sé, pronome che ora poteva essere usato a pieno titolo anche dalla filosofia. Perché ora l’Io aveva conquistato il centro della circonferenza che comprendeva anche il semicerchio d’inconscio che era stato annesso con il superamento dell’Abisso. Coincidenza di conscio e inconscio perciò il Sé così raggiunto dopo la conclusione dell’avventura più grande.

In tale posizione l’ha posto anche Jung a conclusione della sua ricerca della totalità dell’uomo, e il risultato cui è pervenuto l’ha chiamato, appunto, Selbst (Sé): il quale – ha detto – non va assolutamente confuso con l’Io, perché è unità di conscio e inconscio (Vedo continuamente che il processo d’individuazione viene confuso con la presa di coscienza dell’io, e in questo modo l’io viene identificato con Sé, ciò che naturalmente provoca una disastrosa confusione di concetti. Poiché in tal modo l’individuazione diventa null’altro che egocentrismo e autoerotismo. Ma il Sé comprende infinitamente di più che il semplice io… Esso è tanto l’uno o gli altri che l’io. L’individuazione non esclude il mondo, ma lo include: C. G. Jung, Von den Wurrzeln des Bewusstseins, 1954, p. 595). “Se s’immagina la coscienza, con l’Io al centro, come contrapposta all’inconscio, e se ci si rappresenta il processo d’assimilazione dell’inconscio, quest’assimilazione può essere pensata come una specie d’accostamento fra la coscienza e l’inconscio, dove il centro della personalità totale non coincide più con l’Io, ma è un punto situato in mezzo fra la coscienza e l’inconscio. Questo sarebbe il punto del nuovo equilibrio, una nuova centratura della personalità complessiva, un centro forze virtuale, che offre alla personalità, per la sua posizione centrale fra coscienza ed inconscio, una nuova sicura base” (Ibidem, pag. 133).

Non diversamente da Jung, Freud ha nutrito la speranza di riuscire a prosciugare una parte dell’inconscio, come hanno fatto gli olandesi con il mare interno, lo Zuiderzee, che invadeva le terre della loro patria. Così egli ha descritto quel proposito in parte realizzato, mi sembra: “L’intenzione degli sforzi terapeutici della psicanalisi è in definitiva di rafforzare l’Io, di renderlo più indipendente dal Super-io, di ampliare il suo campo percettivo e perfezionare la sua organizzazione, così che possa annettersi nuove zone dell’Es (in psicanalisi il termine che indica la parte non organizzata e perciò non personale dell’apparato psichico, che costituisce una riserva d’energie riguardante l’istinto e coincide con l’inconscio della psicologia dinamica e descrittiva).
Dov’era l’Es, deve subentrare l’Io. È un’opera della civiltà, come ad esempio il prosciugamento dello Zuiderzee”.
Dopo l’attraversamento della Notte, tutto ciò non è più una previsione, ma visione chiara e distinta. Il centro della personalità appare anche agli occhi guardando la figura che risulta, quella disegnata in copertina: è al centro del cerchio sulla linea di separazione fra il giallo e il grigio, che rappresentano il conscio e inconscio; e le due metà dell’intero si sostengono una con l’altra e si completano e si avvicendano. In tal modo allontanarsi significa tornare, come fa il sole quando tramonta e sembra lasciare la terra, invece si rivolge; come fa la vita che scompare e ricompare ed è sempre la stessa, e come farà il singolo quando conoscerà il suo cammino nella Notte.

In quanto a me, ora tutto il cerchio del sapere mi sta attorno perché mi trovo nel suo centro intatto dopo che ho percorso la circonferenza, e mi tengo fermo su quel punto. Dall’altro capo girano gli astri in cielo, i giorni e le stagioni sulla terra, e si ripetono ininterrotte le faccende umane.
Ma è soprattutto l’ultimo giro che m’attira, quello che ho da poco finito di percorrere, dopo cinquant’anni dalla partenza. Vedo la lunga via circolare che è stata cammino tortuoso nel labirinto, uscita da esso, attraversamento dell’Abisso, arrivo all’altra sponda, coincidenza degli opposti e poi la Porta che si è spalancata dopo che sono riuscito a svelare il segreto che la teneva chiusa, e perciò i precedenti tentativi della conoscenza sono falliti.
Ma potrebbero la giovinezza, la bellezza, l’avventura, l’amicizia, l’amore, far da esca e riportarmi in circolo. Ciò che è capitato anche agli dèi: infatti, molti non sono ritornati? Si sono incarnati, si suole dire, si sono fatti uomini, per vari motivi. Io per rivedere e riconoscere. Perciò anche senza sapere all’inizio, o dimenticando di sapere. La dotta ignoranza, direbbero ancora una volta i filosofi. M’attendo soltanto che i ricordi che troverò alla partenza siano meno enigmatici di quelli che mi sono toccati questa volta, per riuscire a far prima a percorrere l’intera circonferenza e a superare tutti gli ostacoli. Perché, dopo tutto il tempo che ho dedicato alla ricerca in questa vita, ne rimanga di più nella prossima per viverla.
E m’accorgo all’improvviso che questo è il desiderio che sta in cima.

Il cerchio e la riga

1 marzo 2009

Novella Cantarutti, Senza titolo

Novella Cantarutti

Novella Cantarutti

Rotolo indietro
Nelle braccia che mi hanno sorretto
Come incavi di alberi grandi,
da madre in ava,
indietro
nel tempo senza storia
fino alla cuna d’acqua.
Avanti invece
sono soltanto righe
di muro, di ferro, d’asfalto
senza appoggio.

Può la poesia dire cose che altrimenti non arrivano alla parola, che altri linguaggi – quelli della prosa, per esempio, o della filosofia o della scienza – non sanno sollevare fino alla percezione? Sembra proprio di sì, e di tal natura è la breve poesia di Novella Cantarutti, che non ha titolo, ma che io chiamerei Il cerchio e la riga.
Non tutta la poesia però ha queste caratteristiche. Non le filastrocche, o quella delle sagre e delle cerimonie che suona familiare alle orecchie della maggior parte, e neppure la poesia che occupa posti importanti nella scala delle altezze perché canta sentimenti profondi, imprese mitiche, avvenimenti eccezionali.

Io anzi ne conosco poca di anticipatrice di mondi nuovi o di nuovi aspetti del medesimo. Quella di Hölderlin e Novalis, per esempio. Il primo ha visto e seguito gli Dèi in fuga nella notte santa, fino a smarrirsi; il secondo ha affrontato e indagato il regno della notte e morte per ritrovare la fidanzata Sophie, “dove quel petalo era volato” in giovanissima età. Oppure la poesia dei presocratici, da cui il pensiero filosofico è nato. Sapienza che ha preceduto il sapere razionale quel loro dire in versi.

Collocata la poesia di Novella nel posto che le spetta, vale a dire nel tempo e luogo che è il crinale fra passato e futuro in questo caso, provo ora a sviluppare quel che essa dice in modo molto breve ed enigmatico. Me lo consente, io credo, una lunga pratica in questo campo e poi quel mio accanirmi, durato una vita, su quelle righe diritte che stanno davanti, soprattutto su quella della vita. Quella che comincia, si sviluppa per un breve tratto o arco, e poi finisce e dopo non si sa. Con questa io ho combattuto fino a ridurla a un cerchio anch’essa. È la linea che ha un verso solo su cui, come si vedrà, la poesia s’appunta, forse per additare come la sibilla delfica che essa è il problema del nostro tempo, che ora dobbiamo risolvere per salvarci.

La poesia comincia, dunque, nel punto dove, come scia di nave che avanza, il passato si scioglie e scompare e dopo c’è il futuro. Ma “Rotolo indietro”, dice il primo verso, e pare che ci sia in esso anche una nota di rifiuto ad andare avanti. Chi può rotolare è cerchio o cosa rotonda ed è tale tutto ciò che in noi è natura: vale a dire il corpo e tante sue manifestazioni; e rotola, recita la poesia, in altre rotondità. Nelle braccia della madre, e da madre in ava sempre più indietro. Più indietro di ciò che è apparso come Storia più di venticinque secoli fa, prima di Erodoto, di Tucidide. Quanto prima?
Dove diceva Pitagora, che ricordava molte delle sue precedenti esistenze, e in una di esse anche il suo nome di allora: Euforbo, milite nella guerra di Troia e ucciso in battaglia sotto le mura di quella città da Menelao, re di Sparta.
Dove diceva Buddha, che la notte precedente l’illuminazione ha richiamato alla memoria “migliaia di vite come rivivendole e le ha collegate fra loro”.
Dove ha detto Ermete Trismegisto, nato tre volte in Egitto dove si è dedicato alla conoscenza, finché nell’ultima vita terrena si è illuminato, ha ricordato le sue precedenti esistenze, ha ricuperato il suo vero nome, e poi è salito al mondo superiore dov’è l’origine.
Fin dove Empedocle ricordava d’esser stato: “Un tempo io fui già fanciullo e fanciulla, arbusto, uccello e muto pesce che salta fuori del mare”.
O ancora più in giù? Forse si, “nel tempo senza storia”, afferma la poesia. Forse essa attinge anche alla profondità più grande, alla “cuna d’acqua” che è il grembo della madre, dell’ava, ma anche il fondo primordiale dove la vita sulla terra è cominciata quattro miliardi d’anni fa. Perché, come il sonno, il sogno, l’inconscio da cui arriva, non ha limiti di tempo e di spazio la poesia. Inoltre c’è somiglianza fra una “cuna” e l’altra, fra il primordiale grembo del mare e quello della donna. Il secondo è una specialità del primo.

Ed ora l’altra parte che chiamiamo futuro, quella delle “righe”, che ci appare come davanti e che stiamo conducendo fra pianti e canti. Non più il tondo ma il dritto. Ma cos’è questo dritto che viene dopo se dietro di noi tutto rotola; anche il sole, la terra, la luna, le stagioni, e tutto appare tondo e circolare? Cos’è quel dritto innaturale? Lo dice la poesia cos’è: “Righe/ di muro, di ferro, d’asfalto/ senza appoggio”. Cioè tecnica. E se grattiamo un po’ su quelle dure scorze, ecco che appare quel che sta prima di esse: la conoscenza umana, quella scientifica che ha dato numeri, ordine, misure. Poi, se s’insiste e si va più a fondo, appare la filosofia, appare la sapienza da cui la filosofia è nata e infine l’autore di questo mondo di conoscenza e tecnica. Si chiama Io. Ciò che s’è staccato in tanta parte dalla natura e mira ad aumentare la distanza; quello che è libero, si dice, che si conduce da sé. l’Io penso di Cartesio, ma anche quello di Kant, e poi l’Io assoluto di Fichte, Schelling, Hegel, che per loro è anche Dio.
Ma è pure la nostra povertà più grande; ce ne siamo accorti soprattutto nel secolo appena trascorso, funestato da due guerre mondiali e da campi di sterminio. Un Io che ci fa intendere la morte e ce la pone sempre davanti, ma non arriva a darci la vita oltre i limiti concessi dalla natura; un Io che ci apre all’immortalità ma essa è come un miraggio nel deserto.
Le “righe”, dunque, sono le opere dell’uomo, le conoscenze che le hanno prodotte, la concezione lineare del tempo che le accompagna, dritta come un fuso, ma “senza appoggio”. Nessun sostegno per loro come invece l’hanno i corpi celesti che circolano, ritornano al punto da dove sono partiti, coincide la fine con l’inizio e mai non cadono.
La riga è la conoscenza che abbiamo di noi stessi, che è limitata al tempo della vita, alla parte diurna di essa. Può andare anche oltre, anche a ciò che hanno escogitato gli altri in pensieri ed opere e al cammino comune compiuto in un luogo e tempo determinati. Per esempio quello degli italiani nella loro patria o assieme ad altri popoli in Occidente. Ma sempre riga rimane.

La conclusione la poesia non la dice, ma l’addita. Perché deriva dalle altre due. Se il futuro è “riga”, basta piegarla. Affinché, come dice il TAO, “allontanarsi significhi tornare”; simile a quel che ha detto Hegel: “L’andare innanzi è un tornare indietro, al fondamento, all’originario e al vero, dal quale ciò con cui si è cominciato dipende ed è, di fatto, prodotto”. Perché, come ha detto Goethe, “Più si conosce e più si sa/ tanto più si riconosce che tutto in circolo ruoterà”.
Dietro, infatti, solo così sono le righe: piegate, arcuate, a tornanti. Il cielo è concavo, i corpi celesti sono tondi, la donna è curve e circonferenze innumerevoli. E la stessa cosa sarà davanti.

Piegare la riga, torcerla, finché non ritorna dove è cominciata, questa è la soluzione del problema: cosa più facile da dire, però, che da fare. Io ci ho messo cinquant’anni per riuscirci e ho dovuto superare prove immani: uscire la Labirinto, attraversare l’Abisso, scoprire il segreto della Porta per poterla aprire, e attraversare quella soglia, e mi ha aiutato il Cielo. Ma non sarei ugualmente riuscito nel mio intento se non c’era la filosofia, tutta quanta, dalla sua Aurora avvenuta venticinque secoli fa nell’antica Grecia Fino al Tramonto del secolo scorso e alla Notte e Mezzanotte degli ultimi decenni. Fino a tal punto mi ha accompagnato la filosofia, e le ultime orme che ho seguito sono state quelle di Schopenhauer, Nietzsche, Heidegger, Freud, Jung, Jünger. Poi per il superamento dell’ultima parte, dalla Mezzanotte in poi, dove provando a scendere per poi risalire non si trova il fondo, ho fatto tutto da solo usando lo stratagemma che mi ha dato la filosofia, ponendo la traccia di quel Ponte sospeso sull’Abisso che potrebbe diventare un capolavoro della conoscenza umana.
In tal modo la riga si è incurvata, è diventata un arco e un cerchio, e “in una circonferenza fine e principio stanno assieme, sono lo stesso”.
Ma questa è una lunga storia ed io mi fermo. Dico soltanto che anche la via della conoscenza che appariva diritta, ora non lo è più. Ma questa è ancora cosa segreta e nascosta, quasi nessuno ancora la sa.