6. Cronache da L’eterno ritorno dell’uguale. Lettera ad un amico.

Mi hai chiesto cos’è “L’eterno ritorno dell’uguale”, o “dello stesso”, o “del medesimo”. Ti rispondo.
È il risultato raggiunto dalla filosofia (e dalla cultura dell’Occidente in generale) quando è giunta alla fine del suo ciclo, dopo venticinque secoli di cammino e di sviluppo.
Cominciamo da “eterno ritorno” escludendo per ora “dell’uguale”. Si sa cos’è: è il ritorno d’ogni cosa in cielo e in terra.
In cielo, il ritorno del sole ogni mattina, della luna ogni mese, dei pianeti, delle costellazioni ogni venticinquemilaottocento anni.
In terra, il ritorno delle stagioni ogni anno, dei fiori a primavera, degli animali ad ogni nascita, e dell’uomo nel modo degli animali per la sua parte corporea. Poi c’è la cultura nella quale si accede all’età della ragione.
E fin qui, mi sembra, non c’è nulla da aggiungere a quanto è già stato detto non solo dall’Occidente ma anche dalle altre civiltà presenti ancora oggi sulla scena o passate.
Però nel nostro caso non si tratta soltanto di “eterno ritorno”, ma “eterno ritorno dell’uguale”.
Ora questo è evidente per i corpi celesti: il sole che riappare ogni giorno è sempre lo stesso – anche se fino a qualche millennio fa non c’era certezza e quelle genti gli offrivano ogni notte sacrifici  perché tornasse -, così per la luna, i pianeti, le stelle, le costellazioni.
Non altrettanto evidente che si tratti degli stessi sono invece i ritorni delle piante e degli animali dei quali anzi si dichiara normalmente che sono nuovi, anche se intuizioni di poeti e idee di filosofi affermano il contrario. Ne cito alcuni.
Nella sua Ode ad un usignolo John Keats ha scritto che l’uccello che ha udito in un giardino di Hamstead, all’età di ventitré anni, in una notte del mese d’aprile del 1919, è lo stesso che nei campi d’Israele, un’antica sera, udì Ruth la moabita. Non un altro usignolo, dunque, ma lo stesso dopo migliaia d’anni: l’eterno ritorno dell’usignolo, uguale all’eterno ritorno del giorno, delle stagioni, delle costellazioni.
Non diversamente da Keats, Schopenhauer, nel secondo volume del Il mondo come volontà e rappresentazione, al capitolo 41, ha espresso l’identica intuizione: “Chiediamoci con sincerità se la rondine di quest’estate è un’altra da quella dell’estate passata e se realmente fra le due il miracolo di trarre qualcosa dal nulla si è verificato milioni di volte per essere smentito altrettanto dall’annientamento assoluto. Chi mi oda affermare che il gatto che sta giocando lì è lo stesso che saltava e scherzava in quel luogo trecento anni fa, penserà di me quel che vorrà, ma la pazzia più strana è immaginare che fondamentalmente sia un altro”.
La stessa cosa per Hegel, che ha ripreso gli esempi citati e ha aggiunto ad essi la mitica Fenice, l’uccello che ogni cinquecento anni si costruiva un rogo per immolarsi nel fuoco e poi risorgere dalle sue ceneri: se la morte viene dalla vita che finisce, a sua volta la vita nasce dalla morte ed è sempre la stessa.
Seguito da Leibniz, che ha formulato così quel pensiero comune a tanti veggenti: “Gli animali, al contrario di quanto crede il popolo, propriamente non hanno nascita” — perciò nemmeno morte com’è comunemente intesa.
Dunque ritornano “gli stessi” in cielo e in terra, ma per la terra non è certo. Allora per dimostrarlo c’era un solo modo: uscire dal giro e andarlo a vedere. Percorrerlo, con le proprie gambe e ad occhi aperti a mente sveglia per tutto il tragitto – anche la parte dove s’inabissa e scompare -, anziché portati prevalentemente dalla natura come finora è accaduto. Quel nuovo modo è la via filosofica inaugurata venticinque secoli fa da Socrate, anche se le sue finalità sono diventate chiare e distinte solo all’arrivo, quando esso ha coinciso con la partenza.
Nel punto di coincidenza c’è una “Porta”. Un “portone carraio” ha detto Nietzsche. L’uscita l’ha intuita e incominciata lui. Poi io ho aperto decisamente quei battenti e ho seguito la freccia che indicava il “Centro” e l’ho raggiunto. Esso si chiama anche
“Sé” e sul trono più alto è Dio: è l’osservatorio eterno, immutabile, immobile, da cui si vede ogni cosa in cielo e in terra e il se stesso che ritorna. Così chi vede sa da dove viene, chi è, dove va.
L’eterno ritorno dell’uguale è perciò il ritorno di chi dal Centro vede se stesso nella ruota delle apparenze, come da fuori si vedono i giri degli astri in cielo e si conoscono di essi i cammini, le lunghezze, i tempi e i luoghi dei ritorni.
Ecco cos’è l’eterno ritorno dell’uguale, ora in poche parole. Ma non è stato semplice, né breve. Per arrivare a tanto, seguendo la via filosofica e completandola nella parte finale, io ho impiegato più di cinquant’anni, ma tutta l’opera ha richiesto il tempo che va dal suo inizio nella Grecia antica ad oggi.
A tua disposizione per eventuali chiarimenti o aggiunte.

Cordiali saluti

5 Risposte to “6. Cronache da L’eterno ritorno dell’uguale. Lettera ad un amico.”

  1. luca ormelli Says:

    «senza riesumare le diatribe che portarono alla spaccatura tra pelagiani e agostiniani – spaccatura che venne “sanata” dal sinodo di Orange del 529, si può dire che la vita se osservata da una prospettiva “divina” appare come perfettamente giustificata, tutto vi trova un senso e questo senso è l’eterno ritorno dell’uguale (un uguale che tale è perché nessun osservatore può rilevarne le infinitesimali variazioni; diremmo dunque che in ossequio al principio della conservazione dell’energia tutto si trasforma affinché niente si distrugga). Il dramma (o la tragedia se ad essa si guarda con occhi non cristiani in cui cioè tutto il disegno non abbia una cornice provvidenzialistica) si consuma quando la prospettiva si fa umana, troppo umana. Ecco che allora nell’eterno ritorno dell’uguale di questa natura che paganamente è Madre e Matrigna qualcosa sempre si perde, qualcosa non torna: le singole esistenze quando non percepite su scala, per dir così, macro.» estraggo dalla mia recensione di “The Tree of Life di Terrence Malick”. Qualora vi fossero interessati la potete trovare qui: http://portodellescimmie.wordpress.com/2011/05/27/filmare-la-grazia-the-tree-of-life-di-terrence-malick/

    Grazie dell’ospitalità, Luca

  2. wilmo e franco boraso Says:

    Caro. Luca.
    Bentornato dopo la lunga parentesi estiva.
    Ora la risposta.
    Luca e noi abbiamo in comune la partenza: la coscienza della condizione misera e precaria in cui si trova “l’animale razionale” che ha nome uomo. Lo distingue dalle altre specie la ragione, che gli ha dato la supremazia: infatti dispone di esse a suo uso e consumo e a suo piacimento. Però la ragione gli è anche matrigna: gli mostra la morte in modo chiaro e distinto e lo tiene sospeso in essa continuamente, finché non cade dentro da solo come un frutto maturo dall’albero.
    Se questa è la partenza comune, poi però le nostre strade divergono. Luca ha preso quella del più cupo pessimismo e scetticismo – alla Cioran per intenderci -, mentre noi abbiamo raccolto l’eredità filosofica che a tutt’oggi per i più è impantanata nel nichilismo diventato condizione normale. Massime espressioni di quell’eredità, l’ “Io” della filosofia moderna e il “Sé” della psicanalisi.
    Raccolta quest’eredità, aiutati nel frattempo anche da altri (vedi, per esempio, Nietzsche e l’uscita dal cerchio dell’eterno ritorno), l’abbiamo investita, portandola allo splendore dell’ “Eterno ritorno dell’uguale”.
    Chi ritorna eternamente è il Sé, non l’apparenza (il corpo) di cui il Sé si veste a nuovo per tornare (vedi il recente Cronache da L’eterno ritorno dell’uguale. Dalle apparenze all’Essere e dall’Essere alle apparenze).
    Neppure chi scrive vorrebbe tornare a ripetere tale e quale la vita già fatta, con i difetti noti che non si possono eliminare, per essere gettato e tolto a piacimento altrui, per essere costretto a guadagnarsi la vita con il sudore e la fatica.
    Perciò sarà tutta un’altra cosa tornare conoscendo la strada e il luogo, e si potrà forse farne a meno se non si vuole.
    Morale: dal momento che ci siamo, vale la pena di esserci per qualcosa. Dal momento che siamo miseri e soli, vale la pena di tentare il riscatto e la sortita.

    Cordiali saluti.

    P.S. La prospettiva divina o umana, le diatribe tra pelagiani e agostiniani, il sinodo do Orange del 529, a questo punto e dopo i risultati ottenuti appartengono per noi soltanto alla letteratura d’evasione.

  3. luca ormelli Says:

    Grazie del bentornato. E’ sempre un piacere leggervi. Pur da sponde diverse [ma lo sono autenticamente?] del fiume. Luca

  4. luca ormelli Says:

    PS: registro nella vostra conclusione una sorprendente [?] affinità con l’affermazione di Borges secondo cui: «la teologia è un ramo della letteratura fantastica». Uno dei più floridi peraltro. Un saluto.

  5. wilmo e franco boraso Says:

    Quando l’Abisso si chiama Fiume che scorre nel profondo e appare insuperabile, c’è un modo per passare: aspettando l’occasione propizia. “Il ghiaccio:/ ecco come lo sormonti/ nel lungo inverno/ il fiume della vita”.

    Quando invece il suo nome è Morte, lo superi continuando la strada della cultura con un Ponte: Il Ponte sull’Abisso. Ciò che è stato possibile a noi che abbiamo portato la Storia dell’Occidente fino a l’ Eterno ritrono dell’uguale.

    Borges ha anche detto: “La vita è troppo povera cosa per non essere anche immortale”.

    Un cordialissimo saluto

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