Terza e ultima parte
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L
Alcune interpretazioni, insufficienti o fallaci, dell’eterno ritorno di Nietzsche e loro confutazione. Dopo La visione e l’enigma e le risposte che qui abbiamo dato alle domande di Nietzsche, quindi dopo che i suoi sogni, seguendo quel cammino filosofico, sono diventati idee chiare e distinte perché il portone carraio è stato aperto e il passaggio è avvenuto, si può capire quanto risultino incomplete e a volte puerili le interpretazioni finora date all’eterno ritorno di Nietzsche. Vediamone alcune.
› Quella di Salomé, cui anche Nietzsche può aver dato peso quando ancora non aveva ben chiare le novità contenute nel suo “pensiero abissale” e per il sentimento che lo legava a quella donna meravigliosa. “L’antica dottrina indiana di un’eterna rinascita nella trasmigrazione delle anime, come maledizione che si abbatte su chi non sia giunto sino alla negazione di se stesso, viene addirittura rovesciata da Nietzsche. Non la liberazione dalla costrizione del ritorno, ma la felice conversione ad essa è infatti per lui la meta della suprema aspirazione morale; non il nirvana, ma il samsâra è il nome dell’ideale supremo. Questa correzione dell’elemento pessimistico in uno ottimistico è la vera differenza tra il primo pensiero di Nietzsche e quello della maturità, e rappresenta nell’evoluzione di questo solitario dolente un’eroica vittoria del superamento di sé” (Così parlò Zarathustra, cit., pag. 28). Perciò soltanto un cambiamento di indirizzo l’eterno ritorno di Nietzsche!
› Quella data da Vattimo, che legge e spiega La visione e l’enigma, momento culminante di Così parlò Zarathustra e perciò del pensiero di Nietzsche, come insanabile contraddizione fra l’amor fati, vale a dire l’eterno ritorno classico, e la “redenzione” da lui perseguita. Egli poi così continua: Nietzsche “non vuole semplicemente l’accettazione rassegnata delle cose come sono; vuole un mondo in cui sia possibile volere il ritorno eterno dell’uguale”. Ma questa connessione che lui “stabilisce, senza mai venirne in chiaro totalmente”, causa nella sua mente una “azione destrutturante” così forte da “produrre una sorta di vertigine del pensiero”. Perciò Nietzsche, per Vattimo, è stato soltanto vittima di un’insanabile contraddizione e non il filosofo del superamento dell’eterno ritorno, o il primo artefice di quel tentativo immane: ecco come uno dei maggiori filosofi post moderni ha interpretato il più completo e temerario tentativo di oltrepassare i limiti umani e dell’Occidente, vale a dire di questa nostra civiltà altrimenti votata allo sfacelo.
› Oppure Vattimo si è così sbizzarrito. “Se esiste una ‘storia delle idee’, la ripetizione nietzschiana di quell’idea classica dopo duemila anni di tradizione cristiana ne rappresenta un considerevole esempio. È l’avversione per il cristianesimo contemporaneo che lo ha indotto a riprendere un’idea che aveva costituito la base del pensiero pagano. Vivendo nello stadio finale di un cristianesimo illanguidito, egli dovette cercare ‘nuove fonti del futuro’ e le trovò nell’antichità classica. La morte del dio cristiano destò in lui l’intelligenza del mondo antico. È di secondaria importanza il fatto che questo mondo gli fosse già noto attraverso i suoi studi di filologia classica. A molti studiosi la teoria dell’eterno ritorno – quale appare in Eraclito e in Empedocle, in Platone e in Aristotele, in Eudemo e negli stoici – era familiare, ma soltanto Nietzsche vide in essa delle possibilità creative per il futuro, in opposizione ad un cristianesimo ridotto a disciplina morale. Riprendendo l’idea dell’eterno ritorno, egli confermava la sua intuizione che la storia del pensiero realizza sempre di nuovo uno schema fondamentale di filosofie possibili e ritorna necessariamente ad un’antichissima ‘economia totale dell’anima’”. Insomma, soltanto beghe nell’immensa famiglia umana l’immane l’avventura di Nietzsche, e uno sbattere la testa contro il muro finché non è rimasto tramortito e morto.
› Severino, eterno ed instancabile camminatore di cerchi chiusi e insuperabili, impossibilitato perfino di immaginarla un’evasione − perché tutto è dato da sempre e per sempre, perciò anche l’eterno roteare in cerchi chiusi e immutabili −, e quindi di interpretare la scena del pastore che stacca con un morso la testa del serpente, ha optato per una soluzione perfino assurda. Ha affermato che il serpente che s’è infilato in gola del pastore non era l’animale preferito da Zarathustra ma un altro. Per cui il pastore, che è Zarathustra, che è Nietzsche − come lui stesso chiarisce più avanti e in opere successive −, sarebbe stato aggredito non dal compagno fidato, simbolo dell’eterno ritorno, ma da un nemico avente lo stesso aspetto. Davvero innumerevoli le risorse della fantasia, quando non si riesce a cogliere l’essenziale, a svelare l’enigma!
› Ha detto Löwith: “L’eternità com’eterna affermazione dell’essere, che si ripete in un perenne ciclo, rimane il motivo fondamentale del pensiero di Nietzsche. In una lettera a Burckhardt, scritta dopo l’inizio della malattia, egli confessa che avrebbe preferito rimanere un semplice professore a Basilea, ma che non aveva avuto altra scelta se non sacrificarsi come ‘il giullare della nuova eternità’. La nuova eternità, riscoperta da Nietzsche in quanto Anticristo, è poi l’antica eternità del ciclo cosmico dei pagani. Tanto rumore per nulla, insomma, solo per rivalsa e per dispetto”.
Löwith però s’avvicina molto alla soluzione dell’enigma quando rileva che per Nietzsche l’eterno ritorno è il pensiero “più terribile” e il “peso più gravoso” (Karl Löwith, Die fröbliche Wissenschaft, pag. 41) perché in contraddizione con la volontà di una futura redenzione. Si è cioè ben avvicinato all’essenza di quel pensiero, che consiste nella “volontà di eternare l’esistenza accidentale, propria dell’io moderno”. Ma tale volontà – egli continua − “non si accorda con l’intuizione di un eterno ciclo del mondo naturale” (Karl Löwith, Significato e fine della storia, Edizioni di Comunità, pag. 254). Due potenze che perciò si scontrano volontà e destino: ambedue di portata immensa. Da ciò il contrasto insanabile, il ridimensionamento, il fallimento. Il “cortocircuito”, l’ha chiamato Vattimo.
Ben però se quelle due forze possenti si trovano sullo stesso piano e si fanno la guerra, e in tal caso contro il destino hanno sempre perso gli uomini e perfino gli dei. Ma non se si trovano in dimensioni diverse e si “vuole” il passato per usarlo, (il circolo della natura, che comprende anche quella umana, è sempre e soltanto passato e ripetizione continua e instancabile di essa). Ma Nietzsche non era ancor fuori, era vicino all’uscita ma non era aperta e tanto è bastato, e quel disaccordo è diventato la sua croce.
Ancora un po’ e quell’ostacolo che appariva insormontabile avrebbe mostrato la sua crepa. Ma quello era “il pensiero abissale” da cui invece anche Löwith è rimasto lontano: e non ha colto l’essenza. “Volere eternare il passato” è stato per Nietzsche solo una tappa d’avvicinamento all’altro ben più grande volere: voler eternare l’esistenza accidentale dell’uomo moderno sulle ali dell’eterno ritorno, vale a dire l’esistenza di quel Io che fin dall’inizio della filosofia moderna è stato il protagonista assoluto di essa. E il suo diventare perenne l’ha mutato in Sé.
› Perfino a Heidegger sembra che manchino le parole di soluzione dell’enigma: si ritorna ai mitici tempi in cui chi non riusciva a scioglierlo era sbranato dalla Sfinge, e questa volta, se la risposta continuerà a non essere data o rimarrà nascosta e segreta, causerà lo smarrimento completo e la fine non soltanto di chi è chiamato a rispondere ma dell’Occidente intero. Una sorte che anche il filosofo di Essere e tempo ha presentito e che poco prima della morte ha espresso con queste parole: “ormai solo un Dio ci può salvare”. Heidegger riconosce che l’eterno ritorno è per Nietzsche “la vetta della contemplazione”, il culmine cui il pensiero deve giungere. E così commenta: “Ma questa vetta non s’innalza con contorni chiari e definiti”, bensì “rimane avvolta in dense nuvole: non soltanto per noi, ma anche per il pensiero più grave di Nietzsche… La cosa stessa che prende il nome di “eterno ritorno delle stesse cose” è avvolta in un’oscurità di fronte a cui lo stesso Nietzsche dovette indietreggiare spaventato” (Martin Heidegger, Che cosa significa pensare, SugarCo, 1996). Invece no, non è tornato indietro. Ha affrontato la prova immane, ha camminato sulla “corda tesa fra l’animale e l’oltreuomo, una corda sopra un abisso” ed è precipitato, come ben si sa. Ma qualcosa d’essenziale ha visto prima della sua scomparsa nella pazzia e nella morte e l’ha lasciata in eredità.
Però Heidegger non si può limitarlo alla sua incompleta lettura di La visione e l’enigma: anch’egli è giunto sulla linea di Mezzanotte e su quel confine con davanti l’Abisso ha capito bene che il modo in cui si era arrivati fin lì, quello seguito dalla filosofia del Giorno, non bastava più. Occorreva una “trasmutazione”, una “trasformazione dell’uomo in Da-sein”, una discesa nel proprio abisso attraverso un salto nella sorgente originaria.
› Ultimo di questa breve rassegna degli interpreti del “pensiero abissale” di Nietzsche, Hans-Georg Gadamer. Anche per lui Nietzsche ha voluto contemporaneamente il superuomo, la cui caratteristica principale è la volontà di potenza, e l’eterno ritorno dell’uguale, governato invece dalla necessità, vale a dire due grandi forze contrarie che si respingono o si annullano. E non era possibile. Perché, dunque, la volontà di potenza si scontra con gli eterni e immutabili cicli della natura che l’assorbono e la svuotano, oppure l’inverso: la liberazione assoluta da questa necessità togliendola di mezzo, ma in tal caso non c’è più l’eterno ritorno e perciò più nulla da volere. Chi, infatti, dopo Nietzsche, ha usato la sua idea di superuomo per fini politici e di potere, ha eliminato come erronea la teoria dell’eterno ritorno ma alla fine di una breve parabola è scomparso (cosa che ha fatto il nazismo, che ha liberato la volontà di potenza dal suo legame con l’eterno ritorno e ha posto sé stesso “come vera e propria realtà”). Quest’inconciliabilità voluta da Nietzsche Gadamer l’ha chiamata “pensiero appellativo”. Esso è, continua Gadamer, “Un pensiero che invoca se stesso, e che, per così dire, persuade se medesimo della necessità di dire e osare qualcosa” (si veda Il cammino della filosofia − Schopenhauer e Nietzsche).
Ma davvero Nietzsche ha voluto mettere insieme due cose inconciliabili e osare l’impossibile?
No. Le ha volute entrambe assieme perché ha “visto”, sia pure come in sogno, che non c’era contraddizione, ma che erano anzi destinate una all’altra. Ha intuito questa possibilità e l’ha espressa nel capitolo intitolato La visione e l’enigma di Così parlò Zarathustra, e l’ha manifestata. Ma non in modo chiaro e distinto e, oltre a lui, a subire le conseguenze sono stati poi i suoi commentatori ed interpreti, che si sono lambiccati il cervello in quell’enigma. Quelli appena nominati, ora anche Gadamer.
Perché il pensiero di Nietzsche appoggia su quei due pilastri, vale a dire eterno ritorno e volontà di potenza, e non si può toglierne uno senza che la costruzione precipiti: di questo i suoi critici n’erano ben consci. Perciò per poterli mantenere entrambi e assieme si è aperto il gioco delle bocce a chi andava più vicino. Ultimo tiro quello di Gadamer: il suo pensiero appellativo, simile al cortocircuito di Vattimo. Nietzsche secondo quest’interpretazione ha osato l’impossibile: uno che dà di matto.
E matto egli è diventato davvero, non per quest’insanabile contraddizione che non c’era, ma per non aver sciolto l’enigma del pastore. Quella la vera causa, com’è accaduto in occasioni simili al pensiero filosofico quando ha cominciato a formarsi. Quando, per esempio, i sapienti antichi non hanno saputo rispondere agli enigmi che gli venivano posti e hanno perso la vita o la pace (come quello che, in una sfida fra divinatori, Calcante mosse a Mopso, che rispose giustamente, e perciò “il sonno della morte ottenebrò Calcante”. O quello che Omero, “che fu più sapiente di tutti i Greci”, in una sfida casuale non riuscì a risolvere, e morì di scoramento).
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Perciò ecco cosa l’Eterno ritorno di Nietzsche non è.
C’è, dunque, qualcosa d’essenziale che è sfuggito a questi studiosi e interpreti del “pensiero abissale” di Nietzsche. I quali hanno ben letto i segni sulla carta che egli ci ha lasciato, ma non hanno potuto seguirlo anche nella carne, sangue e mente che li hanno generati.
Non sono entrati nella mano troppo lenta a seguire il pensiero che incombeva e dirompeva, da cui l’uso continuo dell’aforisma, della metafora, del ditirambo – il modo più adatto per starci dietro, per trasformare gli impulsi in parole.
Non hanno bagnato di lacrime quelle carte, riducendo tante parole a macchie indistinte.
Non hanno abbandonato il mondo e le sue pompe, vagando da soli per monti e spiagge.
Non si sono lasciati alle spalle i sentieri battuti, come ha fatto anche Parmenide ventiquattro secoli prima.
Perché la filosofia, quella nuova s’intende, sgorga dalla vita, e chi non la vive non ha parole nuove, e si industria allora a ripensare e rimuginare quelle vecchie e usate. Perché la filosofia è trasmutare, meglio ancora, come ha detto Dante, trasumanare o la via che là conduce, cosa accaduta poche volte nella storia del pensiero.
Perciò ecco cosa l’Eterno ritorno di Nietzsche non è.
› Non è il rovesciamento dell’antica dottrina indiana di trasmigrazione delle anime. Se tutto consistesse in questo voltafaccia, vale a dire nell’accettazione felice del samsâra e della sua instancabile ripetizione, mentre la vera conquista per i Buddhisti e gli Orfici è stato il Risveglio e l’Uscita, Nietzsche non occuperebbe il posto eccelso che gli è stato assegnato nel pensiero occidentale. Perciò Lou Salomé non ha colto la parte più alta della dottrina di Nietzsche, perché una cima nascosta fra le nubi, irraggiungibile dagli occhi della carne e da quelli della ragione; come d’altronde è poi capitato ai più grandi interpreti maschi. Per davvero Nietzsche ha dovuto reintrodurre l’eterno ritorno e l’ha subito in vista di qualcosa che si stava preparando: il sogno della porta e la possibilità di uscire dalla prigione circolare.
› Non è un mondo in cui sia possibile volere il ritorno eterno dell’uguale – come dicono Vattimo e Gadamer −, semplicemente perché esso appartiene al destino, che non si lascia certamente influenzare, modificare, o manipolare dalla volontà umana. Si ricordi a proposito che il destino è sempre stato superiore agli stessi dei, contro cui non avevano potere. È ben altro, allora, quel che vuole Nietzsche: vuole uscire dalla cieca necessità. Richiamarla, volerla, per vincerla ed uscire. La porta vista da Nietzsche è la stessa da cui Parmenide è entrato nel Giorno. Semmai, una volta usciti, l’eterno ritorno diventerà disponibile, come lo sono ora i cieli per gli astronauti, e i giorni e i cicli stagionali per tutti gli uomini, che dispongono di essi e li usano per i loro progetti e le loro avventure. Anche nel giorno del sole, infatti, entriamo dopo la notte e il sonno, ma per usarlo spesso a nostro piacimento.
› Non è una reazione ed opposizione al cristianesimo: perché tanta fatica e pena se era solo per questo, perché tante sofferenze? Perché viandante senza casa, senza patria, senza donne, con pochi amici, senza discepoli ossequienti, senza fama, senza onori?
› Non è neppure “l’antica eternità del ciclo cosmico dei pagani”, da porre in campo per far dispetto, lui Anticristo, al tempo lineare del cristianesimo.
› Ancor meno è il circolo dell’uomo Superdio di Emanuele Severino, portato in giro a sua insaputa, o senza che possa dir di no, che nulla deve fare per meritarsi quella giostra o per scendere da essa. Perché l’oltreuomo di Nietzsche, per arrivare a quella meta ed essere insignito di quel titolo, deve invece liberarsi del peso più grande e svelare l’enigma.
› Non è assolutamente l’eterno ritorno nei modi della ripetizione sempre uguale, perché “eternamente ritorna (solo) l’uomo di cui sei stanco, il piccolo uomo. […] L’uomo piccolo ritorna eternamente”.
› Non è nessuna delle interpretazioni che lo calano nelle antiche vesti e significati. Perché egli ha intuito non il generico ritorno d’ogni cosa e di se stessi a propria insaputa a ripetere fatiche, dolori, malattie, vecchiaia, morte, ma l’uscita dalla cieca ripetizione dopo che ha cominciato ad apparire quella possibilità.
› Non è, perciò, nessuna delle interpretazioni date da chi non ha raggiunto la Mezzanotte, superato l’Abisso, conosciuto la coincidenza degli opposti, visto e attraversato la Porta, uscendo dal ciclo degli eterni ritorni inconsapevoli. Da ciò deriva che chi ha più seguito la via della Notte e di più si è portato avanti, in maggior misura può intendere Nietzsche ed esporre la sua odissea. Chi, in altre parole, per una via che è anche temporale, secondo l’ordine del tempo è venuto dopo di lui e ha completato quel cammino.
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Uno sguardo su ciò che invece è.
Ci sono state altre illuminazioni del cerchio eterno che, come ormai si sa, si svolge in diversi ambiti della natura e della cultura e con vari aspetti. Fra le illuminazioni, quelle della scienza, per esempio, volte al campo della natura. Ad esse si è arrivati guardando, indagando, svelando ciò che non appariva o che non era chiaro e distinto. Così è stato per la terra che gira attorno al sole, di cui si conosce tutto il tragitto nei minimi particolari, per le fasi della luna, per i pianeti del sistema solare, per i giri delle stelle nelle galassie, per i cicli delle stagioni, per gli eterni ritorni delle piante e degli animali. Alcuni di questi giri siamo anche riusciti a compierli per intero, fisicamente: quello attorno alla terra, per esempio, prima lungo la sua circonferenza, poi anche da fuori con gli aerei, oggi con i satelliti artificiali.
Perché questo preambolo? Per affermare ora, in un’estensione di giudizio, che dello stesso giro sempre si tratta, che esso è uno solo anche quando sono in gioco gli uomini; e anche quest’ultimo aspetto è ora tutto percorribile ad occhi aperti e mente sveglia alla quota della conoscenza filosofica, o è visto da essa tutto intero. Ciò richiede però che ci sia chi guarda e chi è guardato, vale a dire l’eterno roteare, che comprende, dunque, anche la natura umana, e a questo punto non solo la specie, ma anche il singolo e distinto. Ed è questo che Nietzsche ha voluto che ritorni. Questo è l’“eterno ritorno dello stesso”, che è portato dall’eterno ritorno della natura e della cultura.
Chi appare in tal modo vedendo il suo ritorno è il Sé, quel che anche Jung ha chiamato Selbst (Sé), il quale − egli ha detto − non va assolutamente confuso con l’Io, perché è unità di conscio e inconscio. “Se s’immagina la coscienza, con l’Io al centro, come contrapposta all’inconscio, e se ci si rappresenta il processo di assimilazione dell’inconscio, quest’assimilazione può essere pensata come una specie d’accostamento fra la coscienza e l’inconscio, dove il centro della personalità totale non coincide più con l’Io, ma è un punto situato in mezzo fra la coscienza e l’inconscio. Questo sarebbe il punto del nuovo equilibrio, una nuova centratura della personalità complessiva, un centro forze virtuale, che offre alla personalità, per la sua posizione centrale fra coscienza ed inconscio, una nuova sicura base” (C.G. Jung, Von den Wurrzeln des Bewusstseins, 1954, pag. 133). Il centro della personalità appare anche agli occhi guardando il simbolo del nostro blog: è sulla linea di separazione fra conscio e inconscio al centro del cerchio; e le due metà dell’intero si danno origine fra loro, si sostengono una con l’altra, si avvicendano e si completano. Questo totale autosufficiente è il Sé.
Si riappare, dunque, dagli eterni cicli e c’è chi vede: questa è “la vetta della contemplazione” non più avvolta dalla nebbia.
Insomma, come un taxi perché chiamato o un treno che si aspetta perché si conosce l’orario, è l’eterno ritorno, e si sale per un altro giro se si vuole, o se c’è bisogno, o se ci coglie il desiderio di rientrare per rivedere e ritrovare.
P.S.
Dopo Nietzsche, le pietre miliari del cammino nella Notte sono state rintracciate, raggiunte, confermate e superate. Fra esse, i capisaldi: il portone carraio, inizio e fine dei due sentieri, che nel frattempo sono stati percorsi all’indietro e in avanti; e si è costatato che ritornando si arriva al portone e continuando lo stesso. I due portano dove l’uno e l’altro hanno origine e conclusione, vale a dire allo stesso punto, perché − come ha detto Eraclito − “comune infatti è il principio e la fine nella circonferenza del cerchio” (I Presocratici. Testimonianze e frammenti, “Eraclito”, framm. 103, Biblioteca Universale Laterza ) e perciò “Allontanarsi significa tornare” (Tao Tê Ching, capitoli XL e XXV). Ciò vuol dire che la via è una sola, che la vita continua nella morte e viceversa.
Nel frattempo la “corda tesa fra l’animale e l’oltreuomo, una corda sopra un abisso” è diventata un ponte. Ancora precario, ma ci penseranno poi i tecnici a dargli stabilità e sicurezza. Io credo che si troverà il modo di tirarla e rafforzarla l’esile arcata attuale. Credo che diventerà alla fine un passaggio indistruttibile che attraversa la Notte, come l’asse terrestre, come la Via lattea: aperta e illuminata strada di frontiera che collega le sponde vita-morte.
A questo punto, tutta la via c’è, da inizio a fine, ed è, dunque, quella percorsa in venticinque secoli dalla filosofia e di cui Nietzsche ha superato l’ultimo tratto, che arriva fino al punto da dove è partita, vale a dire alla Porta. Essa è la strada che congiunge le esistenze fra di loro, che prima apparivano come perle sciolte di una collana: e cadevano, rimbalzavano, rotolavano lontano, sparivano. Ora un filo le collega; e come il sonno interrompe ma non cancella i giorni di veglia, simile ad esso sarà la morte per le esistenze.
Ha detto Saramago che “seccano e muoiono le piante, poi rinascono e vivono, solo l’uomo non ha imparato ancora come si ripetono i cicli, per lui c’è una volta e mai più”.
Ora ha cominciato a conoscere.