Indice completo
A. Eterno ritorno.
B. Origini storiche dell’eterno ritorno di Nietzsche.
C. Dove e quando l’eterno ritorno si è ripresentato a Nietzsche.
D. I sentimenti che ha manifestato, intensi, numerosi, mutevoli, quanto l’idea dell’eterno ritorno lo ha colto, ci dicono che esso non è stato soltanto il ripresentarsi casuale di una dottrina nei modi in cui è stata formulata nell’antichità, ma “davvero” un ritorno che è arrivato alla memoria e al sentimento in quel momento e in quel luogo.
E. Come dottrina dell’eterno ritorno ripescata dalla natura e dalla cultura, sarebbe stata altrimenti soltanto un’ennesima ripetizione di cicli chiusi ed immutabili, vale a dire nulla di nuovo, e Nietzsche stesso n’era conscio.
F. In questa veste, vale a dire nei modi della natura e della pura e semplice ripetizione eterna, i cicli erano avversati da molti e dallo stesso Nietzsche.
G. C’è da dire però che non era la prima volta che qualcosa di nuovo accadeva nell’eterno roteare che porta uomini alla ribalta, a loro insaputa, e nello stesso modo li toglie. Ci sono state uscite e risvegli anche prima del tentativo di Nietzsche, ma non era nota la via, non erano calcolati quei percorsi, e perciò apparivano eccezionali o casuali i ritorni.
H. Affidiamoci ora al racconto di Nietzsche esposto nel capitolo “la visione e l’enigma” del libro Così parlò Zarathustra. È il racconto dell’ultima parte del cammino nella notte, da cui arriva fino alla “Mezzanotte”, al “portone carraio”, alla “visione” del pastore che con un morso stacca la testa del serpente che gli si era infilato in bocca. E così “liberato” balza in piedi “circonfuso di luce”.
I. Fino a quel punto (prima che il nano gli saltasse giù dalle spalle dov’era accoccolato e prima dell’apparizione del portone carraio), il cammino è quello di sempre: un eterno e cieco riandare. Poi l’improvviso alleggerimento dal “peso più grande”, e la “visione”. E incomincia la parte mai recitata prima dell’ “eterno ritorno dello stesso”.
J. Alleggerimento e apparizione del portone carraio non sarebbero però bastati per uscire. Era necessario aprirlo e ciò avvenne in una “visione” simile ad un sogno: la visione del “pastore” che si libera dal serpente che lo stava soffocando staccandogli la testa con un morso e balza in piedi “non più pastore, non più uomo”. È la nascita dell’oltreuomo.
K. Nietzsche racconta la “visione” ai suoi animali: il serpente e l’aquila, che impersonano i circoli eterni ed immutabili della natura. Ma essi, come già il nano, si rivoltano contro e lo minacciano.
L. Alcune interpretazioni insufficienti o fallaci, dell’eterno ritorno di Nietzsche.
M. Perciò ecco cosa l’eterno ritorno di Nietzsche non è.
N. Uno sguardo su ciò che invece è.
P.S.
Prima Parte
A
Eterno ritorno
Ritorno: tornare di nuovo nel luogo in cui si è già stati o da cui si era partiti.
Perciò esso implica che lo si riconosca quando all’improvviso riappare. Altrimenti non c’è ritorno, ma si è “gettati” a nostra insaputa in un posto sconosciuto, mai visto prima; ciò che capita normalmente e comunemente quando si nasce. Poi, durante il soggiorno obbligato, qualche dubbio sorge davanti a certi luoghi, aspetti, persone, perché a volte si esclama sorpresi e meravigliati: questo l’ho già visto, non è un’immagine nuova, quella persona l’ho già conosciuta. Cosa comune, persino ovvia, quando ciò succede nel corso di una vita, anche se il fatto si ripete dopo lungo tempo, ma nell’eterno ritorno in gioco non c’è più soltanto un’esistenza con i suoi limiti, perché ad una sola non spetta l’eternità.
L’eterno ritorno allora è molto di più di una comune e limitata ripetizione, come i compleanni, gli anniversari o altre feste periodiche. Va ben oltre i casi che accadono in una vita quando si vogliono rivedere luoghi, cose, persone: non si torna un’altra volta o poche volte, ma da sempre e per sempre.
Così il ritorno di Nietzsche, vale a dire eterno.
B
Origini storiche dell’eterno ritorno di Nietzsche
Dobbiamo andare molto indietro nel tempo per trovare l’origine dell’eterno ritorno di Nietzsche, perché non è uno nuovo ma quello di sempre. Nuovo è ora il modo di vederlo: con gli occhi della filosofia. Anche con queste sembianze esso ha tanti anni: è cominciato nel quinto secolo a. C. Un po’ prima che la filosofia apparisse perciò, se, come ormai è noto a tutti, si considera Socrate il primo filosofo.
Coloro che hanno ideato e poi dato il via a questo giro sono stati i sapienti che hanno preceduto di pochi decenni i filosofi: Parmenide ed Eraclito soprattutto, come Nietzsche stesso ha riconosciuto. “La dottrina dell’eterno ritorno − egli ha detto − cioè del movimento circolare, assoluto e ripetuto all’infinito di tutte le cose – questa dottrina di Zarathustra potrebbe in fondo essere già stata insegnata anche da Eraclito. Perlomeno ne reca tracce la Stoa, che ha ereditato da Eraclito quasi tutte le sue concezioni fondamentali” (Nietzsche, Ecce Homo, Newton & Compton, 1978, pag. 61). Ed è proprio così: là sta l’inizio del circolo filosofico e poi la filosofia si è mossa seguendo quelle indicazioni che segnavano una direzione e una meta.
Una breve parentesi: Nietzsche ha posto Eraclito come precursore del suo eterno ritorno. Io, che non riesco a separare i due, gli ho messo accanto Parmenide. Perché, se lui non parla di giro eterno? Ma è lui che ha cominciato proprio quello della filosofia e ha percorso di esso la prima parte e il resto l’ha indicato. Questo ci dice il suo poemetto Sulla natura. Chiusa la parentesi, perché chi ci segue su queste pagine, queste cose le sa già e per gli altri sono un invito a cercarle o a chiederle.
La prima metà dell’immenso cerchio, quella diurna, ha richiesto ventitré secoli di cammino, da Socrate fino a Hegel, e dopo è cominciato il tratto nella Notte. È stato Schopenhauer il primo di questa nuova fase e Nietzsche che viene dopo di lui si trovava perciò sulla metà tenebrosa quando ha scritto Così parlò Zarathustra, presso una pietra miliare di essa, la Mezzanotte, che segna la fine del cammino, il confine dove fine e inizio coincidono.
Senza quella vicinanza, non ci sarebbe stato l’improvviso e prorompente sorgere del sentimento dell’eterno ritorno, io credo; la quale, se per Nietzsche ha avuto l’aspetto di maligno e solitario sentiero della notte, che ha dovuto percorrere prima di giungere fino al confine e al “portone carraio”, per l’Occidente è fine della Storia, Tramonto e Notte di una civiltà. L’eterno ritorno nei modi della filosofia appare nel suo sviluppo e in tutte le sue implicazioni solo in quel momento, ed esso coincide con quello dell’antica partenza, anzi è lo stesso. Arrivando, Nietzsche ha chiuso e il cerchio intero è apparso. Poi c’è il pensiero dell’oltreuomo.
Ciò significa anche che Nietzsche ha trascorso la sua vita nella posizione dove Fine, Principio, Uscita sono lo stesso: in quella zona o presso ad essa. Un punto ignoto alla filosofia prima di lui ma noto nella dimensione della sapienza. Ben noto a Parmenide che quel giro, come ho detto prima, l’ha iniziato.
C
Dove e quando l’eterno ritorno si è ripresentato a Nietzsche
Il sentimento di quest’eterno ritorno di seconda specie, vale a dire con prospettive che quelli del mito, dei misteri, delle religioni, non avevano, è giunto a Nietzsche durante una passeggiata sui monti dell’Engadina, davanti ad un enorme masso erratico. Così ha raccontato quel momento. “Quel giorno andavo attraverso i boschi, costeggiando il lago di Silvaplana; mi fermai presso un poderoso e torreggiante blocco piramidale non lontano da Sulei. Quel pensiero mi venne allora” (Ivi, pag. 74).
Fu un ispirazione nel senso che egli ha poi così spiegato: “C’è qualcuno, che alla fine del XIX secolo abbia un’idea chiara di ciò che i poeti delle epoche forti chiamavano ispirazione? Se non è così voglio descriverla io. – Per quanto minimo sia il residuo di superstizione che si conserva in sé, non si riesce, in realtà, ad evitare la convinzione di essere semplici incarnazioni, semplici strumenti di voci altrui, semplici medium di forze superiori. Il concetto di rivelazione, nel senso che all’improvviso, con indicibile sicurezza e finezza, un qualcosa si fa visibile, udibile, un qualcosa che sconvolge e travolge, fin nel profondo, questo concetto descrive semplicemente il dato di fatto. Si ode, non si cerca; si prende, non si chiede chi offre; come una folgore si accende un pensiero, per necessità, in una forma priva di tentennamenti, − io non ho mai avuto scelta. Un entusiasmo la cui mostruosa tensione si scioglie in un fiume di lacrime nel quale il passo si fa involontariamente ora precipitoso, ora lento; un totale esser-fuori-di-sé con la coscienza più chiara di un numero infinito di brividi sottili e d’irrigazioni fino alla punta dei piedi; una profondità di gioia nella quale il colmo del dolore e delle tenebre non agisce come contrasto, ma come voluto, come provocato, come un colore necessario all’interno di una sovrabbondanza di luce; un istinto di rapporti ritmici che si distende in ampi spazi di forme – la durata, il bisogno di un ritmo ampio e teso è quasi la misura della violenza dell’ispirazione, una sorta di elemento equilibratore rispetto alla sua pressione e tensione… Tutto avviene in modo assolutamente involontario, ma come in una tempesta di sentimenti di libertà, di indeterminatezza, di potenza, di divinità… L’involontarietà dell’immagine, della metafora è il dato più notevole; non ci si rende conto di che cosa sia un’immagine, che cosa una metafora, tutto si offre come la più prossima, la più giusta, la più semplice espressione. Sembra veramente, per ricordare le parole di Zarathustra, che le cose stesse si avvicinino e si offrano alla metafora. “Qui tutte le cose giungono carezzevoli al tuo discorso e ti blandiscono: poiché vogliono galoppare sulle tue spalle. Qui, ad ogni metafora, tu galoppi verso una verità. Qui tutte le parole dell’essere e gli scrigni delle parole si spalancano per te; qui ogni essere vuole diventare parola, ogni divenire vuol imparare a parlare da te. Questa è la mia esperienza dell’ispirazione; non dubito che bisogna ripercorrere secoli all’indietro per trovare qualcuno che possa dirmi ‘è anche la mia’” (Ivi, pag. 76-77).
Almeno venticinque secoli all’indietro, fino ad Eraclito, Parmenide e gli altri presocratici, dunque.
Poi, lo stato d’animo di quella rivelazione l’ha esposto anche in una lettera inviata all’amico Peter Gast: “Sul mio orizzonte salgono pensieri quali ancora io non conobbi mai, (aveva avuto fulminea e allucinante l’idea madre dello Zarathustra, la concezione dell’eterno ritorno. Il fatto si trovò annotato su un foglietto: “Al principio dell’agosto 1881, a Sils-Maria, a 6000 piedi sopra il livello del mare, e ancora molto più alto su tutte le cose umane”) ma di ciò per adesso non voglio che nulla trapeli; voglio tenere me stesso in una quiete inalterabile. Bisogna che io viva ancora qualche anno. Oh amico, talora mi passa per la testa che io vivo una vita pericolosissima, e che appartengo a quella specie di macchine che possono esplodere! L’intensità dei miei sentimenti mi fa rabbrividire e ridere – già un paio di volte non potei lasciare la camera per la ridicola ragione che i miei occhi erano tutti arrossati – e perché? Tutte e due le volte, la vigilia, durante i miei vagabondaggi, avevo troppo pianto, e non già lacrime sentimentali, ma lacrime di giubilo; e piangendo cantavo, dicevo follie, pieno della nuova visione che si è manifestata a me prima che a tutti gli altri mortali” (Lettera a Peter Gast da Sils-Maria del 14 agosto 1881. Vedi Epistolario, a cura di Barbara Allason, Einaudi).
Dopo la “rivelazione” è cominciata la stesura di Così parlò Zarathustra.
D
I sentimenti che ha manifestato, intensi, numerosi, mutevoli, quanto l’idea dell’eterno ritorno lo ha colto, ci dicono che esso non è stato soltanto il ripresentarsi casuale di una dottrina nei modi in cui gli antichi l’hanno formulata, ma invece “davvero” un ritorno che è arrivato alla memoria e al sentimento in quel momento e in quel luogo
Anche in seguito, nell’esporla a Lou Salomé, che del filosofo è stata compagna d’interminabili scambi d’idee e confidenze, quella che lui amò senza misura ma senza speranza, c’erano sofferenza, passione, viva commozione, entusiasmo, che non andavano d’accordo con il puro e semplice ripresentarsi di un’antica dottrina. Così lei riferisce uno di quei momenti: “Non potrò mai dimenticare le ore in cui me lo confidò per la prima volta come un segreto, come qualcosa di fronte alla cui dimostrazione e conferma egli provava un orrore indicibile: ne parlava soltanto con voce sommessa e con tutti i segni del più profondo sgomento. E Nietzsche, in effetti, soffriva così profondamente della vita che la certezza del suo eterno ritorno doveva avere per lui qualcosa di raccapricciante” (Lou Andreas-Salomé, Vita di Nietzsche, Editori Riuniti, pag. 27). Ma c’erano anche, come abbiamo visto, “lacrime di giubilo”, che anche Salomé ha visto e annotato. Pena e spavento, perciò, per un’esistenza ritornante senza senso e scopo; ma anche segreto gaudio per la fine del “peso più grande” e per la “visione” che si andavano delineando, vicino ormai com’era all’uscita dal cerchio.
Perché, prima del suo arrivo davanti al portone carraio, c’è stata una lunga oscillazione in Nietzsche fra l’eterno ritorno classico e quello che sarebbe diventato visibile di lì a poco.
E
Come dottrina dell’eterno ritorno ripescata dalla natura e dalla cultura, sarebbe stata altrimenti soltanto un’ennesima ripetizione di cicli chiusi ed immutabili, vale a dire nulla di nuovo, e Nietzsche stesso ne era conscio
Per prima cosa, l’eterno ritorno è nella natura, è la natura. Tutto ritorna: il sole dopo la notte, la primavera dopo l’inverno, la veglia dopo il sonno.
In un ritorno eterno delle cose, in periodi esattamente misurati, le costellazioni riappaiono sulla loro orbita, e un giorno – molto, molto tempo dopo – si ritroveranno tutte assieme al punto dal quale erano partite. La moderna astronomia ha stabilmente assegnato a questo ciclo la dimensione di venticinquemilaottocento anni. Dopo questo gran giro dei pianeti e delle stelle, i cieli ritorneranno al punto di partenza e tutto riprenderà nuovamente. Questo ciclo Platone l’ha chiamato Anno perfetto.
Poi, nella cultura, l’eterno ritorno è dottrina antichissima presente nelle religioni, nei miti, nei misteri, nella sapienza, nella poesia, nella filosofia del Giorno. Dappertutto, insomma.
Faceva parte delle dottrine segrete degli antichi Egizi.
L’Induismo e le altre religioni d’Oriente si basano su di essa, così pure i Misteri dell’antica Grecia, quelli d’Eleusi, di Dioniso, poi i Misteri romani del tempio, le dottrine cabalistiche segrete degli Ebrei, ed era presente anche nel Cristianesimo delle origini.
Nel Bhagavad Gita, l’incoraggiamento dato da Krishna ad Argiuna prima della battaglia suona così: “Come un uomo, gettando via indumenti usati, ne prende di nuovi, così l’abitatore del corpo, liberandosi dei corpi usati, entra in altri che sono nuovi. Le armi non l’offendono, né il fuoco lo brucia, né le acque lo bagnano, né il vento lo disseca. Intaccabile, incombustibile e non suscettibile di essere bagnato né disseccato; perpetuo, onnipervadente, stabile, inamovibile, antico, non manifesto, impensabile, immutabile: così è chiamato; perciò, conoscendolo come tale, tu non dovresti affliggerti”.
Anche la chiesa cattolica non ha mai condannato ufficialmente questa dottrina. Non l’approva, non ne parla, perché afferma che la vita terrena è unica come prova sulla terra, ma ci sono molti passi del Nuovo Testamento che la presentano e l’affermano. Per esempio dove Giovanni Battista è considerato come una reincarnazione di Elia, o come quando i discepoli chiedono a Gesù se il nato-cieco soffra per il peccato dei suoi genitori o per qualche suo peccato precedente. Essa era inoltre insegnata da eminenti Padri della Chiesa, e Ruffino (lettera ad Attanasio) dice che la credenza in essa era comune fra i primi Padri. Erigena e Bonaventura, la sostenevano anche nel Medioevo.
Lo Zhoar parla delle anime come soggette a trasmigrazione: “Tutte le anime sono soggette a evoluzione, ma gli uomini non conoscono le vie del Santissimo, − che sia benedetto! – essi sono ignoranti del modo in cui furono giudicati in tutti i tempi, sia prima di venire in questo mondo sia quando l’hanno lasciato” (Zohar II, foll 99. Citato nella Qabbalah di Myer, pag. 198).
È la teoria delle alternanze di Empedocle.
L’eterno ritorno dei Pitagorici.
Dopo la nascita della filosofia, Platone l’ha così espressa: “conoscere e ricordare”, la qual cosa implica che si sia già stati.
Riteneva inoltre che come l’Anno perfetto era la Storia universale, perché se i periodi planetari sono ciclici, non si può escludere che lo sia anche tale Storia – un’estensione che non si può escludere.
E con la Storia ritornano gli uomini e le cose. Ognuno sarà di nuovo sulla scena, ognuno farà e penserà e soffrirà nuovamente ciò che ha fatto, pensato e sofferto nella sua prima vita, migliaia e milioni di anni addietro. Edipo ucciderà ancora una volta suo padre e si unirà con sua madre. I grandi imperi torneranno a fiorire e decadere in eterno.
Dopo Platone, per una numerosa schiera di filosofi la metempsicosi, legata all’eterno ritorno, è diventata la più razionale teoria dell’immortalità personale. Ne cito alcuni: Plotino, Swedenborg, Böhme, Giordano Bruno, Campanella, Lucilio Vanini, Schopenhauer, Lessing, Hume, Hegel, Leibniz, Herder, Fichte, Kant, Schelling, Lessing, Cudsworth, Mazzini, Severino. Fra i pensatori inglesi, i Platonici di Cambridge, la difendevano con molta scienza e acume.
Ha detto David Hume: “Non immaginiamo la materia infinita come fece Epicuro; immaginiamola finita. Un numero finito di particelle non è suscettibile d’infinite trasposizioni; in una durata eterna, tutti gli ordini e posizioni possibili avverranno un numero infinito di volte. Questo mondo, con tutti i suoi particolari, perfino i più minuscoli, è stato elaborato e annichilato: infinitamente” (David Hume, Dialogues concerning natural religion, VIII).
Ha detto Lucilio Vanini: “Di nuovo Achille andrà a Troia, rinasceranno le cerimonie e le religioni, la storia umana si ripete; nulla c’è adesso che non sia stato; ciò che è stato sarò; ma tutto questo in generale; non (come determina Platone) in particolare”.
Come Platone anche Nietzsche, nel suo andirivieni fra l’eterno ritorno classico e quello che stava bussando alla sua porta: “Uomo, tutta la tua vita è una clessidra che viene girata e rigirata, il cui contenuto scorrerà un numero infinito di volte, separate dall’intervallo di un lungo minuto di tempo, fino a quando il corso ciclico dell’universo non raccolta tutte le condizioni dalle quali sei nato. Ritroverai allora ciascuno dei tuoi dolori e delle tue gioie, i tuoi amici e nemici, le tue speranze e i tuoi errori, il più piccolo filo d’erba e il più piccolo raggio di sole, e tutto l’insieme di tutte le cose. Questo anello, di cui sei solo un granellino, brillerà perpetuamente. E in ciascuno dei cicli successivi della storia umana vi è sempre un’ora in cui, per un uomo isolato, poi per molti, infine per tutti sorge il pensiero più potente di tutti, quello dell’Eterno Ritorno di ogni cosa: ogni volta suona allora per l’umanità l’ora del “mezzogiorno” (Nietzsche, La volontà di potenza, 323).
Per Emanuele Severino ogni ente (stella, fiore, animale, uomo…), ogni suo aspetto e ogni suo atto, sono eterni e nell’eterno ciclo dell’apparire e scomparire, se scompaiono riappariranno, se appaiono scompariranno, in un ininterrotto su e giù.
Poi i poeti e scrittori antichi e nuovi: Virgilio, Ovidio, Walter Scott, Goethe, Poe, Charles Dickens, Walt Whitman, Borges.
Queste però sono solo alcune punte degli iceberg. Sotto di esse le innumerevoli esperienze e i ricordi di tanti meno celebri e vicini di casa, perché quasi tutti hanno incontrato persone o cose che hanno risvegliato ricordi di un passato che non credevano esistesse e che esprimono con le parole: ho già vissuto questo momento, ho già visto questo luogo, ho già incontrato questa persona; soltanto che i ricordi che s’accendono nel sentimento durano poco o dopo tanto non sai più se son tuoi o strani segni che affiorano da abissi.
Cosa significa perciò eterno ritorno: significa che le morti non spezzano la catena della memoria, come non la spezzano i sonni della nostra vita presente.
[Continua]
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A Eterno ritorno.
Ritorno: tornare di nuovo nel luogo in cui si è già stati o da cui si era partiti.
Perciò esso implica che lo si riconosca quando all’improvviso riappare. Altrimenti non c’è ritorno, ma si è “gettati” a nostra insaputa in un posto sconosciuto, mai visto prima; ciò che capita normalmente e comunemente quando si nasce. Poi, durante il soggiorno obbligato, qualche dubbio sorge davanti a certi luoghi, aspetti, persone, perché a volte si esclama sorpresi e meravigliati: questo l’ho già visto, non è un’immagine nuova, quella persona l’ho già conosciuta. Cosa comune, persino ovvia, quando ciò succede nel corso di una vita, anche se il fatto si ripete dopo lungo tempo, ma nell’eterno ritorno in gioco non c’è più soltanto un’esistenza con i suoi limiti, perché ad una sola non spetta l’eternità.
L’eterno ritorno allora è molto di più di una comune e limitata ripetizione, come i compleanni, gli anniversari o altre feste periodiche. Va ben oltre i casi che accadono in una vita quando si vogliono rivedere luoghi, cose, persone: non si torna un’altra volta o poche volte, ma da sempre e per sempre.
Così il ritorno di Nietzsche, vale a dire eterno.
B Origini storiche dell’eterno ritorno di Nietzsche.
Dobbiamo andare molto indietro nel tempo per trovare l’origine dell’eterno ritorno di Nietzsche, perché non è uno nuovo ma quello di sempre. Nuovo è ora il modo di vederlo: con gli occhi della filosofia. Anche con queste sembianze esso ha tanti anni: è cominciato nel quinto secolo a. C. Un po’ prima che la filosofia apparisse perciò, se, come ormai è noto a tutti, si considera Socrate il primo filosofo.
Coloro che hanno ideato e poi dato il via a questo giro sono stati i sapienti che hanno preceduto di pochi decenni i filosofi: Parmenide ed Eraclito soprattutto, come Nietzsche stesso ha riconosciuto. “La dottrina dell’eterno ritorno − egli ha detto − cioè del movimento circolare, assoluto e ripetuto all’infinito di tutte le cose – questa dottrina di Zarathustra potrebbe in fondo essere già stata insegnata anche da Eraclito. Perlomeno ne reca tracce la Stoa, che ha ereditato da Eraclito quasi tutte le sue concezioni fondamentali” (Nietzsche, Ecce Homo, Newton & Compton, 1978, pag. 61). Ed è proprio così: là sta l’inizio del circolo filosofico e poi la filosofia si è mossa seguendo quelle indicazioni che segnavano una direzione e una meta.
Una breve parentesi: Nietzsche ha posto Eraclito come precursore del suo eterno ritorno. Io, che non riesco a separare i due, gli ho messo accanto Parmenide. Perché, se lui non parla di giro eterno? Ma è lui che ha cominciato proprio quello della filosofia e ha percorso di esso la prima parte e il resto l’ha indicato. Questo ci dice il suo poemetto Sulla natura. Chiusa la parentesi, perché chi ci segue su queste pagine, queste cose le sa già e per gli altri sono un invito a cercarle o a chiederle.
La prima metà dell’immenso cerchio, quella diurna, ha richiesto ventitré secoli di cammino, da Socrate fino a Hegel, e dopo è cominciato il tratto nella Notte. È stato Schopenhauer il primo di questa nuova fase e Nietzsche che viene dopo di lui si trovava perciò sulla metà tenebrosa quando ha scritto Così parlò Zarathustra, presso una pietra miliare di essa, la Mezzanotte, che segna la fine del cammino, il confine dove fine e inizio coincidono.
Senza quella vicinanza, non ci sarebbe stato l’improvviso e prorompente sorgere del sentimento dell’eterno ritorno, io credo; la quale, se per Nietzsche ha avuto l’aspetto di maligno e solitario sentiero della notte, che ha dovuto percorrere prima di giungere fino al confine e al “portone carraio”, per l’Occidente è fine della Storia, Tramonto e Notte di una civiltà. L’eterno ritorno nei modi della filosofia appare nel suo sviluppo e in tutte le sue implicazioni solo in quel momento, ed esso coincide con quello dell’antica partenza, anzi è lo stesso. Arrivando, Nietzsche ha chiuso e il cerchio intero è apparso. Poi c’è il pensiero dell’oltreuomo.
Ciò significa anche che Nietzsche ha trascorso la sua vita nella posizione dove Fine, Principio, Uscita, sono lo stesso: in quella zona o presso ad essa. Un punto ignoto alla filosofia prima di lui ma noto nella dimensione della sapienza. Ben noto a Parmenide che quel giro, come ho detto prima, l’ha iniziato.
C Dove e quando l’eterno ritorno si è ripresentato a Nietzsche.
Il sentimento di quest’eterno ritorno di seconda specie, vale a dire con prospettive che quelli del mito, dei misteri, delle religioni, non avevano, è giunto a Nietzsche durante una passeggiata sui monti dell’Engadina, davanti ad un enorme masso erratico. Così ha raccontato quel momento. “Quel giorno andavo attraverso i boschi, costeggiando il lago di Silvaplana; mi fermai presso un poderoso e torreggiante blocco piramidale non lontano da Sulei. Quel pensiero mi venne allora” (Ivi, pag. 74).
Fu un ispirazione nel senso che egli ha poi così spiegato: “C’è qualcuno, che alla fine del XIX secolo abbia un’idea chiara di ciò che i poeti delle epoche forti chiamavano ispirazione? Se non è così voglio descriverla io. – Per quanto minimo sia il residuo di superstizione che si conserva in sé, non si riesce, in realtà, ad evitare la convinzione di essere semplici incarnazioni, semplici strumenti di voci altrui, semplici medium di forze superiori. Il concetto di rivelazione, nel senso che all’improvviso, con indicibile sicurezza e finezza, un qualcosa si fa visibile, udibile, un qualcosa che sconvolge e travolge, fin nel profondo, questo concetto descrive semplicemente il dato di fatto. Si ode, non si cerca; si prende, non si chiede chi offre; come una folgore si accende un pensiero, per necessità, in una forma priva di tentennamenti, − io non ho mai avuto scelta. Un entusiasmo la cui mostruosa tensione si scioglie in un fiume di lacrime nel quale il passo si fa involontariamente ora precipitoso, ora lento; un totale esser-fuori-di-sé con la coscienza più chiara di un numero infinito di brividi sottili e d’irrigazioni fino alla punta dei piedi; una profondità di gioia nella quale il colmo del dolore e delle tenebre non agisce come contrasto, ma come voluto, come provocato, come un colore necessario all’interno di una sovrabbondanza di luce; un istinto di rapporti ritmici che si distende in ampi spazi di forme – la durata, il bisogno di un ritmo ampio e teso è quasi la misura della violenza dell’ispirazione, una sorta di elemento equilibratore rispetto alla sua pressione e tensione … Tutto avviene in modo assolutamente involontario, ma come in una tempesta di sentimenti di libertà, di indeterminatezza, di potenza, di divinità …L’involontarietà dell’immagine, della metafora è il dato più notevole; non ci si rende conto di che cosa sia un’immagine, che cosa una metafora, tutto si offre come la più prossima, la più giusta, la più semplice espressione. Sembra veramente, per ricordare le parole di Zarathustra, che le cose stesse si avvicinino e si offrano alla metafora. “Qui tutte le cose giungono carezzevoli al tuo discorso e ti blandiscono: poiché vogliono galoppare sulle tue spalle. Qui, ad ogni metafora, tu galoppi verso una verità. Qui tutte le parole dell’essere e gli scrigni delle parole si spalancano per te; qui ogni essere vuole diventare parola, ogni divenire vuol imparare a parlare da te. Questa è la mia esperienza dell’ispirazione; non dubito che bisogna ripercorrere secoli all’indietro per trovare qualcuno che possa dirmi ‘è anche la mia’” (Ivi, pag. 76-77).
Almeno venticinque secoli all’indietro, fino ad Eraclito, Parmenide e gli altri presocratici, dunque.
Poi, lo stato d’animo di quella rivelazione l’ha esposto anche in una lettera inviata all’amico Peter Gast: “Sul mio orizzonte salgono pensieri quali ancora io non conobbi mai, (aveva avuto fulminea e allucinante l’idea madre dello Zarathustra, la concezione dell’eterno ritorno. Il fatto si trovò annotato su un foglietto: “Al principio dell’agosto 1881, a Sils-Maria, a 6000 piedi sopra il livello del mare, e ancora molto più alto su tutte le cose umane”) ma di ciò per adesso non voglio che nulla trapeli; voglio tenere me stesso in una quiete inalterabile. Bisogna che io viva ancora qualche anno. Oh amico, talora mi passa per la testa che io vivo una vita pericolosissima, e che appartengo a quella specie di macchine che possono esplodere! L’intensità dei miei sentimenti mi fa rabbrividire e ridere – già un paio di volte non potei lasciare la camera per la ridicola ragione che i miei occhi erano tutti arrossati – e perché? Tutte e due le volte, la vigilia, durante i miei vagabondaggi, avevo troppo pianto, e non già lacrime sentimentali, ma lacrime di giubilo; e piangendo cantavo, dicevo follie, pieno della nuova visione che si è manifestata a me prima che a tutti gli altri mortali” (Lettera a Peter Gast da Sils-Maria del 14 agosto 1881. Vedi Epistolario, a cura di Barbara Allason, Einaudi).
Dopo la “rivelazione” è cominciata la stesura di Così parlò Zarathustra.
D I sentimenti che ha manifestato, intensi, numerosi, mutevoli, quanto l’idea dell’eterno ritorno lo ha colto, ci dicono che esso non è stato soltanto il ripresentarsi casuale di una dottrina nei modi in cui gli antichi l’hanno formulata, ma invece “davvero” un ritorno che è arrivato alla memoria e al sentimento in quel momento e in quel luogo.
Anche in seguito, nell’esporla a Lou Salomé, che del filosofo è stata compagna d’interminabili scambi d’idee e confidenze, quella che lui amò senza misura ma
senza speranza, c’erano sofferenza, passione, viva commozione, entusiasmo, che non andavano d’accordo con il puro e semplice ripresentarsi di un’antica dottrina. Così lei riferisce uno di quei momenti:
“Non potrò mai dimenticare le ore in cui me lo confidò per la prima volta come un segreto, come qualcosa di fronte alla cui dimostrazione e conferma egli provava un orrore indicibile: ne parlava soltanto con voce sommessa e con tutti i segni del più profondo sgomento. E Nietzsche, in effetti, soffriva così profondamente della vita che la certezza del suo eterno ritorno doveva avere per lui qualcosa di raccapricciante” (Lou Andreas-Salomé, Vita di Nietzsche, Editori Riuniti, pag. 27). Ma c’erano anche, come abbiamo visto, “lacrime di giubilo”, che anche Salomé ha visto e annotato. Pena e spavento, perciò, per un’esistenza ritornante senza senso e scopo; ma anche segreto gaudio per la fine del “peso più grande” e per la “visione” che si andavano delineando, vicino ormai com’era all’uscita dal cerchio.
Perché, prima del suo arrivo davanti al portone carraio, c’è stata una lunga oscillazione in Nietzsche fra l’eterno ritorno classico e quello che sarebbe diventato visibile di lì a poco.
E Come dottrina dell’eterno ritorno ripescata dalla natura e dalla cultura, sarebbe stata altrimenti soltanto un’ennesima ripetizione di cicli chiusi ed immutabili, vale a dire nulla di nuovo, e Nietzsche stesso ne era conscio.
Per prima cosa, l’eterno ritorno è nella natura, è la natura. Tutto ritorna: il sole dopo la notte, la primavera dopo l’inverno, la veglia dopo il sonno.
In un ritorno eterno delle cose, in periodi esattamente misurati, le costellazioni riappaiono sulla loro orbita, e un giorno – molto, molto tempo dopo – si ritroveranno tutte assieme al punto dal quale erano partite. La moderna astronomia ha stabilmente assegnato a questo ciclo la dimensione di venticinquemilaottocento anni. Dopo questo gran giro dei pianeti e delle stelle, i cieli ritorneranno al punto di partenza e tutto riprenderà nuovamente. Questo ciclo Platone l’ha chiamato Anno perfetto.
Poi, nella cultura, l’eterno ritorno è dottrina antichissima presente nelle religioni, nei miti, nei misteri, nella sapienza, nella poesia, nella filosofia del Giorno. Dappertutto, insomma.
Faceva parte delle dottrine segrete degli antichi Egizi.
L’Induismo e le altre religioni d’Oriente si basano su di essa, così pure i Misteri dell’antica Grecia, quelli d’Eleusi, di Dioniso, poi i Misteri romani del tempio, le dottrine cabalistiche segrete degli Ebrei, ed era presente anche nel Cristianesimo delle origini.
Nel Bhagavad Gita, l’incoraggiamento dato da Krishna ad Argiuna prima della battaglia suona così: “Come un uomo, gettando via indumenti usati, ne prende di nuovi, così l’abitatore del corpo, liberandosi dei corpi usati, entra in altri che sono nuovi. Le armi non l’offendono, né il fuoco lo brucia, né le acque lo bagnano, né il vento lo disseca. Intaccabile, incombustibile e non suscettibile di essere bagnato né disseccato; perpetuo, onnipervadente, stabile, inamovibile, antico, non manifesto, impensabile, immutabile: così è chiamato; perciò, conoscendolo come tale, tu non dovresti affliggerti”.
Anche la chiesa cattolica non ha mai condannato ufficialmente questa dottrina. Non l’approva, non ne parla, perché afferma che la vita terrena è unica come prova sulla terra, ma ci sono molti passi del Nuovo Testamento che la presentano e l’affermano. Per esempio dove Giovanni Battista è considerato come una reincarnazione di Elia, o come quando i discepoli chiedono a Gesù se il nato-cieco soffra per il peccato dei suoi genitori o per qualche suo peccato precedente. Essa era inoltre insegnata da eminenti Padri della Chiesa, e Ruffino (lettera ad Attanasio) dice che la credenza in essa era comune fra i primi Padri. Erigena e Bonaventura, la sostenevano anche nel Medioevo.
Lo Zhoar parla delle anime come soggette a trasmigrazione: “Tutte le anime sono soggette a evoluzione, ma gli uomini non conoscono le vie del Santissimo, − che sia benedetto! – essi sono ignoranti del modo in cui furono giudicati in tutti i tempi, sia prima di venire in questo mondo sia quando l’hanno lasciato” (Zohar II, foll 99. Citato nella Qabbalah di Myer, pag. 198).
È la teoria delle alternanze di Empedocle.
L’eterno ritorno dei Pitagorici.
Dopo la nascita della filosofia, Platone l’ha così espressa: “conoscere e ricordare”, la qual cosa implica che si sia già stati.
Riteneva inoltre che come l’Anno perfetto era la Storia universale, perché se i periodi planetari sono ciclici, non si può escludere che lo sia anche tale Storia – un’estensione che non si può escludere.
E con la Storia ritornano gli uomini e le cose. Ognuno sarà di nuovo sulla scena, ognuno farà e penserà e soffrirà nuovamente ciò che ha fatto, pensato e sofferto nella sua prima vita, migliaia e milioni di anni addietro. Edipo ucciderà ancora una volta sua padre e si unirà con sua madre. I grandi imperi torneranno a fiorire e decadere in eterno.
Dopo Platone, per una numerosa schiera di filosofi la metempsicosi, legata all’eterno ritorno, è diventata la più razionale teoria dell’immortalità personale. Ne cito alcuni: Plotino, Swedenborg, Böhme, Giordano Bruno, Campanella, Lucilio Vanini, Schopenhauer, Lessing, Hume, Hegel, Leibniz, Herder, Fichte, Kant, Schelling, Lessing, Cudsworth, Mazzini, Severino. Fra i pensatori inglesi, i Platonici di Cambridge, la difendevano con molta scienza e acume.
Ha detto David Hume: “Non immaginiamo la materia infinita come fece Epicuro; immaginiamola finita. Un numero finito di particelle non è suscettibile d’infinite trasposizioni; in una durata eterna, tutti gli ordini e posizioni possibili avverranno un numero infinito di volte. Questo mondo, con tutti i suoi particolari, perfino i più minuscoli, è stato elaborato e annichilato: infinitamente” (David Hume, Dialogues concerning natural religion, VIII).
Ha detto Lucilio Vanini: “Di nuovo Achille andrà a Troia, rinasceranno le cerimonie e le religioni, la storia umana si ripete; nulla c’è adesso che non sia stato; ciò che è stato sarò; ma tutto questo in generale; non (come determina Platone) in particolare”.
Come Platone anche Nietzsche, nel suo andirivieni fra l’eterno ritorno classico e quello che stava bussando alla sua porta: “Uomo, tutta la tua vita è una clessidra che viene girata e rigirata, il cui contenuto scorrerà un numero infinito di volte, separate dall’intervallo di un lungo minuto di tempo, fino a quando il corso ciclico dell’universo non raccolta tutte le condizioni dalle quali sei nato. Ritroverai allora ciascuno dei tuoi dolori e delle tue gioie, i tuoi amici e nemici, le tue speranze e i tuoi errori, il più piccolo filo d’erba e il più piccolo raggio di sole, e tutto l’insieme di tutte le cose. Questo anello, di cui sei solo un granellino, brillerà perpetuamente. E in ciascuno dei cicli successivi della storia umana vi è sempre un’ora in cui, per un uomo isolato, poi per molti, infine per tutti sorge il pensiero più potente di tutti, quello dell’Eterno Ritorno di ogni cosa: ogni volta suona allora per l’umanità l’ora del “mezzogiorno” (Nietzsche, La volontà di potenza, 323).
Per Emanuele Severino ogni ente (stella, fiore, animale, uomo…), ogni suo aspetto e ogni suo atto, sono eterni e nell’eterno ciclo dell’apparire e scomparire, se scompaiono riappariranno, se appaiono scompariranno, in un ininterrotto su e giù.
Poi i poeti e scrittori antichi e nuovi: Virgilio, Ovidio, Walter Scott, Goethe, Poe, Charles Dickens, Walt Whitman, Borges.
Queste però sono solo alcune punte degli iceberg. Sotto di esse le innumerevoli esperienze e i ricordi di tanti meno celebri e vicini di casa, perché quasi tutti hanno incontrato persone o cose che hanno risvegliato ricordi di un passato che non credevano esistesse e che esprimono con le parole: ho già vissuto questo momento, ho già visto questo luogo, ho già incontrato questa persona; soltanto che i ricordi che s’accendono nel sentimento durano poco o dopo tanto non sai più se son tuoi o strani segni che affiorano da abissi.
Cosa significa perciò eterno ritorno: significa che le morti non spezzano la catena della memoria, come non la spezzano i sonni della nostra vita presente.