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L’inaudito di Emanuele Severino, ovvero l’attrazione del nulla

1 Maggio 2010

Qui scriviamo i canti
di una nuova era.
La filosofia ufficiale,
le nenie funebri
di quella che finisce.

 

 

Salvador Dalí, Persistenza della memoria, 1931

Non sempre Severino arriva fino alla base del suo pensiero. Perlopiù si ferma prima, a quel “inaudito” indicato ma non svolto, che per i pochi che sono riusciti a seguire la sua filosofia fino a quel punto è espresso dalla formula: “l’essente è eterno, immutabile, immobile”.
Essente
è l’uomo: ogni uomo che si vede e tocca, ma anche quelli che non s’incontrano più per le vie e le piazze della città e hanno la loro foto su una lastra in cimitero e di cui, perché si crede che le cose vengano dal nulla e nel nulla ritornano, si dice erroneamente o superficialmente che sono morti, e quelli che non abbiamo mai visto perché non sono ancora nati. I primi, infatti, per Severino sono soltanto usciti dal cerchio dell’apparire e i secondi non sono ancora entrati in esso. Inoltre, essente è anche ogni filo d’erba del prato di questa primavera e di ogni altra passata e futura, i sassi della via, ogni granello di sabbia del mare, le stelle del cielo, i bruchi che si arrampicano sui fili d’erba, la secrezione che essi lasciano spostandosi eccetera – tutto eterno, immutabile, immobile, che non è stato o sarà, ma è.
Dunque, Severino non arriva spesso fino alla formula dell’“inaudito”, che è la base di partenza, il fondamento su cui sorge la sua filosofia, ma qualche volta è successo in modo chiaro e distinto: nel libro Il muro di pietra, per esempio, uno dei tanti che ha scritto. (E. Severino, Il muro di pietra, Rizzoli, pagg. 195-196) Ecco in che modo: partendo da Proust.
Seguono le pagine 195 e 196 di quel libro, che dividiamo in tre parti, e sotto ad ognuna un commento.

Prima parte.
Nel Tempo ritrovato Proust parla degli attimi in cui ritorna il suo passato di bambino, quando a tarda sera attendeva il ritorno a casa dei genitori e a un certo punto tintinnava in giardino il campanellino del cancello. Il tintinnio e i passi dei genitori, in quegli attimi, “io li udivo ancora, li udivo proprio loro, pur situati così lontani nel passato […] Era proprio quel campanello a risuonare ancora in me, senza che io nulla potessi mutare nelle strida del suo sonaglio […] Dunque quello scampanellio vi era sempre, e con lui, fra esso e l’attimo presente, tutto quel passato indefinitamente trascorso che ignoravo di portare ancora in me”.
Quegli attimi, scrive Proust, non sono soltanto “resurrezioni del passato”, ma resurrezioni “totali” del passato, non sono “semplicemente un’eco, un duplicato d’una sensazione passata”, “ma proprio quella sensazione stessa”.

Qui si dice che si ripresenta eterno, immutabile e immobile, ciò che dovrebbe essere lontano, vago, perduto. Come sono i ricordi in genere, che poi svaniscono completamente, o diventano solo indecifrabili segni come le pietre di una via antica corrose dal tempo e dall’uso, che nessuno più sa a cosa servivano e dove conducevano. Invece a Proust si ripresentano le stesse cose di quando era bambino: non “un duplicato d’una sensazione passata, ma proprio quella sensazione stessa”.
Un’esperienza che non è toccata solo a Proust, ma anche ad altri. A Borges, per esempio, durante una passeggiata notturna, che così racconta: “Una sorta di gravitazione familiare mi guidò verso quartieri, del cui nome voglio sempre ricordarmi e che dettano reverenza al mio cuore” […] “Mi arrestai a guardare quella semplicità, Pensai, certo ad alta voce: ‘È come trent’anni fa’. Calcolai la data: un’epoca recente in altri paesi, ma già remota in questa mutevole parte del mondo. […] Il facile pensiero ‘sono nel mille ottocento e tanti’ cessò d’essere poche approssimative parole e divenne realtà profonda. Mi sentii morto, sentii che percepivo astrattamente il mondo; sentii un indefinito timore penetrato di scienza che è la luce migliore della metafisica. Non credetti, no, di aver risalito le prevedibili acque del Tempo; piuttosto sospettai d’essere in possesso del senso reticente o assente dell’inconcepibile parola eternità. Solo in seguito potei definire tale immaginazione”.
“La scrivo, ora, così: questa pura rappresentazione di fatti omogenei – notte in quiete, muro nitido, odore di provincia della madreselva, fango essenziale – non è soltanto identica a quella che si verificò in quest’angolo tanti anni fa; è, senza somiglianze né ripetizioni, la stessa. Il tempo, se possiamo intuire tale identità, è una delusione: l’indifferenza e inseparabilità di un momento del suo apparente ieri e di un altro del suo apparente oggi, bastano a disintegrarlo”
(J.L. Borges, Nuova confutazione del tempo, Mondadori, pagg. 1080-1081).
Dunque, nel corso di una vita, simili ai ricordi si ripresentano anche avvenimenti lontani nel passato che sono gli stessi della prima volta. “Resurrezioni totali”, li ha chiamati Proust. Non “poche approssimative parole” ma “realtà profonda”, ha detto Borges.

 

Seconda parte.
Dunque, il passato si ripresenta in carne ed ossa. Come son proprio le montagne, e non le loro semplici immagini, a ripresentarsi allorché le nubi che le avvolgevano si dissolvono e si allontanano. Proust avverte qualcosa d’inaudito al di là dei consueti modi di considerare il passato da parte della “nostra cultura” (sente la voce della Non-Follia). Ma poi, l’inaudito, egli lo perde subito di vista, perché se quella del passato è una “resurrezione totale”, è però, per lui, conservato soltanto nella coscienza dell’artista, cioè di un essere “destinato a morire”, a diventare un “essere che non è più”, che è annientato dall’“azione distruttrice del tempo”. “Anche per Heidegger la poesia di Hölderlin intuisce ciò che rimane, lo stabile, l’“Essere”; ma la stabilità dell’“Essere” rimane sino a che i poeti esistono: con la loro morte, anche la stabilità si annienta.”

Qui si entra decisamente nel cuore della filosofia di Severino. Bene la voce della “Non-Follia” che i poeti percepiscono, dice Severino, ma ecco il loro limite: percepiscono l’eterno, immutabile immobile ma all’interno di un di un essere “destinato a morire”, cioè solo nel corso della loro vita finché dura. Poi, seguendo invece la voce comune e generale della Follia, credono che il loro corpo finisca nel nulla. Perciò quella voce, per Severino, è solo un’eco dell’eterno, che pian piano si spegne
Ma non conosce Severino la metempsicosi? Lui non ci crede, d’accordo, ma c’è per moltissimi, anzi è la teoria più diffusa in tutti i piani della conoscenza: miti, misteri, religioni, sapienza, filosofia (vedi
Per sempre e L’infinito di Leopardi). Per molti è la più razionale teoria dell’immortalità personale. E nella metempsicosi non ci sono ritorni d’avvenimenti accaduti nel passato di una sola vita, ma in vite precedenti quella in corso, che emergono da profondità più oscure e lontane. Inoltre i pochi esempi di “resurrezione totale”, che sono avvenuti nel corso di una vita quelli di Proust e di Borges per intenderci –, sono piccola cosa rispetto agli altri.
Riporto alcuni esempi celebri, già esposti in altri post di questo blog, ma essi sono innumerevoli.

Buddha la notte precedente il Risveglio − Buddha significa lo Svegliato −, come ha scritto di lui il suo maggiore biografo Asvagosa, ha richiamato alla memoria “migliaia di vite, come rivivendole” e le ha collegate fra loro.
Ermete Trismegisto, nato tre volte in Egitto, ogni volta si è dedicato alla conoscenza, finché nell’ultima vita terrena si è illuminato, “si è ricordato delle precedenti esistenze, ha ricuperato il suo vero nome” e poi è salito al mondo superiore dov’è l’origine.
Pitagora ricordava anche il suo precedente nome: Euforbo; era un milite nella guerra di Troia e ha perso la vita in battaglia sotto quelle mura, ucciso da Menelao.
Dunque, ritorna il passato “in carne ed ossa” nel modo di Proust e Borges, ma molto più spesso in quello di Buddha, Pitagora, Ermete, e nel secondo, allora, non c’è il corpo fisico che lo chiude e limita. Non c’è il corpo che, “destinato a morire”, quando ciò avviene decreta la fine anche di quel che è avvertito e vissuto come eterno, immutabile, immobile. E come potrebbe? Come può il guscio provocare la fine della perla, il fango della miniera del diamante e il corpo della mente?
Come può ciò che per tutti perisce, fuorché per Severino, trascinare nella sua sorte l’eterno?

 

Terza parte.
“Totali resurrezioni, ma all’interno del perituro – prosegue imperterrito Severino. Totali resurrezioni, ma all’interno di una vita che è morte. Il passato, per Proust, “è sempre”, ma perdura rimanendo nascosto in uno scrigno destinato alla morte. Come ogni altra voce dell’Occidente, nemmeno Proust vede che lo scrigno, in cui il passato permane, è eterno. Il suo modo di pensare è simile a quello di chi si rallegrasse per il fatto che i passeggeri di una nave che si sa destinata a un naufragio in cui non c’è scampo per nessuno escono dalle loro cabine, dove si erano da tempo nascosti o da tempo erano stati dimenticati, e si riuniscono nella sala da pranzo (cioè nella sala della memoria). Possono solo intonarvi un canto funebre, che celebra l’effimera resurrezione del tempo che è stato ritrovato e che è destinato a essere definitivamente perduto”.

E qui scatta la differenza esistente fra Severino e tutti i personaggi che ha avuto la cultura nei millenni che ci hanno preceduto, compresi quelli dell’Oriente. Personaggi che hanno contribuito ad aumentarla e svilupparla fino ad arrivare, in Occidente e per gli autori di questo blog, alla fine della via della conoscenza iniziata venticinque secoli fa nell’antica Grecia. In questo capolinea l’eterno, immutabile, immobile, è la coincidenza di fine e inizio, ed è soprattutto il “Centro” di tal giro, dove si può portarsi e da cui tutto il movimento appare. Da cui si vede, in altre parole, tutto ciò che ruota in cielo e in terra. Come già in parte  avviene d’altronde: vediamo il sole che percorre la volta celeste, le fasi della luna, le stelle che ritornano nel cielo della notte, il giro delle stagioni… Ma ora molto di più. Ora anche l’intero cerchio della vita umana: giorno e notte assieme, conscio e inconscio assieme, vita e morte unite.
Sembrerebbe però, secondo questo mio dire, che a un tale risultato si sia arrivati, quindi ci sarebbe un “eterno” che ha avuto inizio. Ma l’inizio è coincidenza con la fine, quindi non c’è un inizio. Cos’è accaduto, allora? È accaduto che non alla vasta e numerosa specie, non all’interminabile natura, non a Dio, ma all’uomo, ciò che era sentimento, fede, intuizione, è diventata idea chiara e distinta. Ecco cos’è capitato. E la via ora c’è per lui, il suo cerchio è tutto intero, il suo centro è immobile, immutabile, eterno. Centro di ciò che gira in cielo e in terra: galassie, stelle, pianeti, stagioni, piante, animali, uomini.
Perciò la terza parte del brano andrebbe corretta così.
− Il corpo, sia esso eterno come vuole Severino, o limitato e finito come sostengono tutti gli altri, passati e presenti, non è limite e impedimento al manifestarsi delle “resurrezioni totali”, tant’è vero che possono avvenire non solo da un giorno della vita ad un altro della stessa, seppur lontano, ma anche da vita a vita.
− È eterno, immutabile, immobile, ciò che viene sperimentato come tale, vale a dire la “resurrezione totale” di Proust, “la realtà profonda” di Borges, i ricordi di vite precedenti di Buddha, Pitagora, Ermete, e per me “la chiesetta sperduta” che è riapparsa da profondità lontane e nascoste, e sono riuscito a trovare la strada che collega le due. Una strada di tempo, perciò, che sembrava non finire mai, invece è ritornata su se stessa, formando un cerchio e diventando
eterno ritorni (vedi L’antica via dei Miti e dei Misteri, percorsa ora con la lampada della conoscenza filosofica, Editrice Leonardo, Pasian di Prato, Udine). Ma chi muore nessuno l’ha più visto circolare per le vie e le piazze della città con il corpo che aveva quando li ha lasciati, neppure i parenti più stretti e gli amici più cari. O esiste solo un caso: quello di Cristo, ma anche lui, come affermano i Vangeli, dopo la resurrezione era pressoché irriconoscibile e aveva un corpo che passava attraverso i muri.
− Inoltre perché dovrebbe essere eterno, immutabile, immobile, anche l’involucro, cioè lo scrigno che contiene la perla, la terra che nasconde il diamante, il carcere che rinchiude l’anima, la mente, l’Io, il Sé?
− Va da se, inoltre che ciò viene sperimentato come eterno, immutabile, immobile, non può avere limitazioni. Non “c’è” e poi “non c’è più” solo perché il corpo finisce. Esso rimane, indipendentemente dal corpo. Così, infatti, è sempre stato. Così è e sarà.
Concludendo: non è necessario che il corpo sia eterno, immutabile, immobile, per l’eterno, immutabile, immobile, che lo abita.

 

P.S.
Non insisterei tanto con la filosofia di Severino, a confutarla, a dimostrare la sua infondatezza, se il punto più profondo dell’Abisso del nulla, da quanto mi risulta, non fosse stato toccato proprio da essa. E, arrivati a quel livello, non si esce più con le proprie gambe, perché si manifesta tutta la potenza del nascosto, tutta l’attrazione del senza fondo. Tutto e fermo e si ferma lì sotto. Tutto è bloccato, immobile, immutabile: eternamente, come similmente accade in fisica quando − dicono gli scienziati − si raggiunge lo zero assoluto.
In quel nulla vanno a finire:
− Parmenide, che secondo Severino è stato il primo nichilista perché, per lui, l’essere e non l’essente è eterno, immutabile, immobile.
− Tutta la filosofia che è nata subito dopo, da Socrate fino ai nostri giorni, perché essa è in tanta parte le vie indicate dal sapiente di Elea (vedi Lettera aperta: le cinque vie di Parmenide).
− Tutta la storia d’Occidente e anche quella dell’Oriente, fondata sulla fede che le cose escano dal nulla e nel nulla ritornino.
− La metempsicosi, perché non si ritorna con lo stesso corpo, o non è certamente necessario.
− Il divenire, perché esso è − dice Severino − “trasformazione e metamorfosi – divenire – altro, appunto. Il risultato del divenire è altro dall’inizio del divenire. Il risultato, cioè il compimento del divenire, è la situazione in cui la cosa che diviene è diventata altro da sé è altro da sé. Ma che una cosa sia altro da sé, cioè non sia ciò che essa è, non è forse il senso stesso dell’impossibile? Non è forse l’essenza stessa della follia” (E. Severino, Nascere, Rizzoli, pagg. 265-266).
− Infine il nulla stesso, perché “tutto è eterno, immutabile, immobile”.
Più nichilismo di così!
E tutto viene infaticabilmente ripetuto, ribadito, rispiegato, a chi si ostina a non capire e continua a domandare. Ma non c’è nulla da capire, c’è solo il vuoto là sotto.
“Io definisco la filosofia di Severino come espressione di una tesi che è falsa (negazione dello spessore ontologico del divenire e, quindi, del non essere e della morte) − ha detto di essa Giovanni Reale − però espressa nel modo più coerente e più perfetto. Ma con N. Gòmez Dàvile io penso che la coerenza di un discorso non è prova di verità, ma solo di coerenza” (Giovanni Reale, Corriere della Sera, 6 gennaio 2005).

Vattimo e Severino: la vacuità del nulla e quella del tutto eterno

26 dicembre 2009

­Vattimo e Severino assieme, perché le loro filosofie sono diventate l’espressione dei poli opposti del nichilismo diventato condizione normale: la vacuità del nulla e quella del tutto eterno. 

Giovanni Bettolo, Il deserto dei tartari

La situazione
Mettendo assieme Vattimo e Severino, forse si può vedere il fondo del nichilismo toccato dalla filosofia ai nostri giorni.
Vattimo e la sua scuola hanno ridotto l’uomo e le strutture dove si svolgono la sua vita e il suo pensiero ai minimi termini. I risultati di tale riduzione suonano così.
− La filosofia è arrivata alla fine della sua avventura metafisica ed è diventata pensiero debole ed ermeneutica.
− Pensiero debole è la filosofia dell’oltreuomo che si è liberato dall’asservimento alle etiche tradizionali del perfezionamento e dell’obbedienza, e non è più gravato dal peso di questi ideali.
− Ermeneutica è invece il modo di conoscere che si addice al pensiero debole, un processo circolare che funziona in questo modo: l’interprete si avvicina ad un testo sempre con “pre-giudizi” e “pre-comprensioni”, da cui nasce un primo progetto interpretativo. Ma esso deve essere posto continuamente alla prova, modificando via via i “pre−giudizi” che non trovano conferma, fino a che il “testo non parla”. Si tratta di un compito certamente realizzabile ­− dice Gadamer, il maggior teorico di questo metodo ­−, però senza fine, perché ciò che vogliamo vedere nel momento del discorso è un infinito del passato e del futuro.
Mi pare che non sia difficile scorgere in questo continuo roteare della cultura che mai non si ferma, messo a punto da Gadamer, uno degli aspetti − l’ultimo −, dell’eterno ritorno; ma simile a quelli della natura, da cui non si sfugge, dopo i falliti tentativi di Nietzsche di uscire da questa cieca necessità.

Le conseguenze
Riducendo la conoscenza ad interpretazione, il rapporto della parola con l’Essere scompare. Pensare ed Essere non è più “lo stesso”. Decade quel che ha affermato Parmenide all’inizio della civiltà greca che poi è diventata Occidente: “[…] Infatti lo stesso è pensare ed essere” (Parmenide, Poema sulla natura, a cura di G. Reale e L. Ruggiu, Rusconi, Milano, 1991, fr.3, pag 11), e la storia della metafisica si dissolve.
Da questa situazione spunta la nuova idea dell’Essere. È poroso – dicono i filosofi del pensiero debole −, è contraddittorio, policentrico, fondamentalmente privo d’unicità, abbandonato al suo corso, al suo destino e alla sua destinazione. Il contrario, perciò, dell’Essere parmenideo.
Naturalmente, nel passaggio dalla precedente visione del mondo a questa c’è tutto un finire.
− Finisce il pensiero forte e gli succede il pensiero debole.
− Finisce la modernità, vale a dire il periodo che va da Cartesio a Nietzsche, e si entra nel postmoderno.
− Il postmoderno viene salutato come fine della Storia.
− Muta l’idea di Storia: non è più un percorso dotato di un indirizzo che porta ad una meta e ad un risultato, ma non ha senso, e in tal modo muta in apertura e comunicazione alle “culture altre”.

In conseguenza del distacco del pensiero dall’Essere, anche la ragione non è più quella di prima.
− Non è più centrale, ma è come depotenziata.
− È entrata nella zona d’ombra e ha preso contorni incerti, come se si fosse eclissata.

Conseguenze pratiche di questo mutamento epocale:
− L’uomo non riconosce alcun immutabile ed eterno; perciò − unico suo punto fermo (apodittico) in tanta desolazione −, alla fine non si ritrae, non oppone resistenza, ma si consegna rassegnato e vinto alla propria morte senza far motto (Qualcosa perciò è rimasto d’immutabile, immobile, eterno: è rimasta la morte. L’unica che i filosofi del pensiero debole e dell’ermeneutica non sono riusciti a cancellare). Io dico però che i più neppure ci pensano: l’hanno rimossa e quando essa arriva per gli amici e i famigliari, fanno il funerale in fretta, velocemente si tolgono di dosso abiti neri e funebri pensieri.
Da tutto ciò si può arguire che come si esce così si viene al mondo, vale a dire a nostra insaputa e senza sapere da dove. A fare cosa? Ad apparire un po’, per adempiere ai comandi della specie, per i più fortunati o i più in vista a sbarcare il lunario con la filosofia del pensiero debole ed ermeneutica, e poi sparire. Per sempre, dopo l’eliminazione d’ogni immutabile ed eterno. A meno che non si faccia d’ogni uomo un immortale così com’è, carne e ossa compresi, compito che, come si vedrà, è toccato a Severino.

Le cause di questa situazione viste dal pensiero debole
Una riduzione ai minimi termini, perciò, l’uomo e il suo mondo dopo la fine della modernità. Va però subito detto che la situazione qui descritta non è fasulla, ma quella che si vede e si tocca. In altre parole pensiero debole e ragione depotenziata rispecchiano fedelmente l’uomo che abbiamo spesso sotto gli occhi ai nostri giorni e che occupa tanta parte della scena pubblica.
Il letterato sulla cresta dell’onda, assiduo frequentatore dei salotti della TV dove le chiacchiere non si contano.
L’inquilino della casa del Grande fratello, e c’è chi partecipa, chi lo desidererebbe tanto, e innumerevoli che guardano curiosi ed eccitati, come dal buco della serratura.
Le star dell’Isola dei famosi.
Il politico che muta in pornopolitico e cocainomane.
Le indossatrici anoressiche delle sfilate di moda.
Il cuoco che ormai è di casa in tutti i programmi di successo.
I filosofi delle tavole rotonde allestite in ogni dove.
I giocatori accaniti dei giochi a premio televisivi, che perseguono tutto il malloppo messo in palio. 
Anche se l’uomo è debole di mente, ci sono i palestrati e i Rambo che mostrano i muscoli e credono così di pareggiare il conto.
E se in tanta riappropiazione di sé qualcosa non va, se qualche difetto è rimasto anche nel postmoderno, si provvede con la chirurgia estetica.
Queste le “conquiste” e ora le cause che hanno aperto le porte ad esse. 

Per Vattimo e i suoi discepoli e colleghi che la pensano come lui, tutto ciò avrebbe un’origine: sarebbe l’eredità che Nietzsche e Heidegger ci hanno lasciato. La quale, dicono loro, è positiva: non debiti, insomma, ma crediti e vantaggi.
I vantaggi consisterebbero in ciò: non essendoci più le imposizioni espresse dalle “grandi fedi dogmatiche, dai grandi orizzonti metafisici”, “possiamo compiere delle scelte, prendere delle decisioni”. Quelle appena elencate e illustrate, per esempio, se quei tipi d’uomo ormai pullulano e sono diventati modelli per molti.

Le cause effettive
Invece sono ben altre le cause del pensiero debole, dell’ermeneutica e della condizione umana soprascritta che è l’aspetto in carne e ossa di quelle idee. Esse sono il Tramonto dell’Essere e la Notte che è discesa sulla terra dell’Occidente specialmente dopo l’età moderna; perché il pensiero filosofico che ci ha condotto lungo il Giorno, fino al Tramonto, non è più riuscito a illuminare le Ombre che si stavano addensando sempre più.
Si è continuato lo stesso, tuttavia, fino alla “linea di Mezzanotte”, ma essa ha costituito il fine corsa che è rimasto in vigore fino ai nostri giorni e solo da poco si è potuto andare oltre.
I primi segnali del declino e caduta sono stati colti ed espressi dai poeti e filosofi e poi, via via, da tutti gli altri, fino ai nostri giorni dove si discorre apertamente e continuamente di nichilismo, diventato nel frattempo condizione normale
Ecco cosa è cominciato ad accadere circa duecento anni fa, dapprima nel campo della poesia e della filosofia, e che poi è entrato nella vita pubblica e privata, lasciandoci sempre più smarriti, indeboliti, completamente succubi della morte.
È cominciato il Tramonto dell’Essere.
Hölderlin ha visto fuggire gli dèi nella “notte santa”.
Dopo il Tramonto, il primo ad affrontare le Tenebre è stato Schopenhauer.
Poi è cominciato il cammino nel Buio. 
Si chiamano esistenzialismo, nichilismo, eterno ritorno, psicanalisi, alcune di queste correnti migratorie.  
Heidegger, già avanti sulla via della Notte, ha intuito ed espresso il rapporto esistente fra l’Essere e quanto stava accadendo. Dipende dall’Essere − dalla sua posizione rispetto all’uomo, al suo cammino, al suo corso storico −, ciò che siamo nella mente, egli ha detto. E ha chiamato “epoché” le varie posizioni. Epoché l’Aurora e il Giorno radioso di venticinque secoli fa, quando è cominciata la civiltà greca; epoché il Tramonto e il suo nascondimento avvenuto ai nostri giorni.
Poi, dopo la fermata nella Notte e la perdita d’ogni limite e appoggio, il dilagare su piani interminati.

Cause presunte e cause vere a confronto
Perciò è tutto vero quel che risulta dal pensiero debole e dall’ermeneutica, ma tutto ha un’origine diversa o un nuovo senso.
− È vero che finisce il pensiero forte, ma perché si è fatto invisibile a poco a poco l’immutabile ed eterno.
− È vero che finisce la modernità, ma sempre per lo stesso motivo: perché è finito il Giorno e l’Essere non c’è più sopra l’orizzonte ad alimentare ed accrescere il pensiero. C’è anzi appassimento e depauperamento.
− È vero che la Storia non mostra più il suo corso, da che parte è diretta e dove sfocia, ma perché dopo il percorso nella luce essa si è inabissata come un fiume carsico, o è diventata come corrente uscita dall’alveo che dilaga formando paludi e morte gore.
− È vero che finisce la Storia, ma perché si è trovata di fronte alla linea di Mezzanotte, apparentemente insormontabile; e perché, in modo ancora segreto e nascosto, si è raggiunto l’inizio di essa e si è chiuso il giro. Cominciata con Erodoto nel tempo dell’Aurora della civiltà greca, finisce in un’altra Aurora, o nella stessa che ritorna dopo il superamento della Notte riuscito finora a pochi. E ora si potrebbe ricominciare nella luce di un nuovo Giorno, se l’esigua avanguardia diventerà una fitta schiera.
− È vero che la ragione non è più quella di prima, è depotenziata affermano Vattimo e i suoi seguaci, ma perché non è più collegata alla sua fonte o non c’è più contatto a vista dopo la sparizione dell’Essere. Così staccata e isolata è solo ricordo di quel che era, e si fa uso di essa in tal modo, come retaggio del passato, come eredità da spendere per la sopravvivenza, finché dura. C’è inoltre da aggiungere che da sola non era più in grado di far fronte alla grande sfida del cammino nella Notte e dell’attraversamento dell’Abisso.
− È vero, infine, che il pensiero debole ed ermeneutica, e ciò che hanno provocato sulla natura umana, sono un’eredità di Nietzsche e Heidegger, ma del loro fallimento, di cui erano consapevoli perché non sono riusciti a portare a termine l’impresa di giungere alla fine del giro eterno. “Solo un Dio ci può salvare”, ha detto Heidegger prima della morte, e Nietzsche è impazzito. Perché non è riuscito a “volere” l’eterno ritorno fino alla conclusione del giro, cioè ritornare come singolo “sapendo di ritornare” e non perché portato dall’eterno girotondo della natura e della vita, simile alla dantesca “bufera infernale che mai non resta”. Non voleva l’eterno ritorno, insomma, se fin là era portato succube e inerte; voleva lui ritornare in tal modo ma a sua scelta, secondo la sua volontà, e poteva riuscirci soltanto conoscendo tutta la strada. Solo in una “visione” simile a quelle oniriche gli è apparsa questa possibilità, ma non è stata sufficiente a soccorrerlo e salvarlo. E Heidegger non è riuscito a seguire l’Essere fino alla nuova Aurora. Perciò essi hanno sì divelto le pietre miliari dai confini della modernità e di tutta la precedente storia dell’Occidente, ma per passare e andare oltre l’uomo. Invece non sono arrivati fino in fondo, la linea di Mezzanotte li ha bloccati (Questo è un accenno al fondamentale problema della filosofia contemporanea, su cui perciò ritorneremo. Però aspetti di esso già ci sono anche nei precedenti post; e tuttavia appare ora la necessità di svilupparlo di più di porlo di più in primo piano. Ciò che faremo in un prossimo futuro).

Ma ormai il terreno era spianato, l’annuncio era squillato, la via indicata, e chi è giunto dopo o stava dietro ha seguito i primi. L’intero Occidente stava dietro, più o meno consapevole, e volto in ogni caso in quella direzione, ma non ha più trovato argini né guide. I vecchi confini stabiliti da Dio, dall’anima immortale, dalla ragione, dalle leggi della natura, dalla Storia ideale eterna, dalla conoscenza filosofica, si erano dissolti o giacevano come ruderi. Solo il deserto dei tartari aldilà, e questa è l’attuale condizione dell’uomo occidentale. 
Non positiva, perciò. Non è un passo avanti sulla via della conoscenza, una nuova forma d’emancipazione, ma la conseguenza d’avvenimenti e mutazioni epocali e della sconfitta subita, di cui si stanno portando le conseguenze nella mente.
− In conclusione, una filosofia quella di Vattimo che corrisponde alla posizione attuale dell’Essere, alla sua Epoché, e all’attuale situazione dell’Occidente perduto nel Buio. Come il sole dopo il tramonto o come un fiore che si chiude nella notte, l’Essere non appare e così la parola è staccata dalla sua fonte. Non si vede più e per Vattimo non c’è più, e il suo discorso si svolge nella Notte. Il quale, come lui stesso ha affermato, è diventato “chiacchiera”, e per distinguerla da quelle delle comari l’ha definita “dotta”. Ma essa non muta la sua natura se gli si mette un aggettivo di sostegno accanto: non nasce un’aquila da un topo.

L’apporto di Severino al nichilismo diventato condizione normale
Qui giunti però non è finita, perché c’è anche Emanuele Severino in questo gioco.
Ma cosa c’entra lui con il pensiero debole dal momento che è l’unico paladino − si dice − del pensiero forte in questi tempi avvolti dal nulla? Perché anche lui non si trova in altre terre e in altri cieli, ma solo sul polo opposto dello stesso sistema. Su quello positivo, Vattimo sull’altro.
Perché Severino ha ingessato l’uomo così ridotto, ecco la risposta.
Perché, alla fine dichiara immutabile, immobile, eterno, l’uomo del nichilismo. L’ha reso così attribuendo ad ogni presente sulla scena del mondo − e se non c’è, è dietro alle quinte ma riapparirà −, i caratteri dell’Essere, vale a dire eternità, immobilità, immutabilità; e l’Essere della filosofia − ma anche il Dio del mito, della religione, dei misteri, della sapienza − è stato solo illusione e inganno; solo chimera, araba fenice, fata morgana. Anche l’Essere di Parmenide, anche il Logos d’Eraclito. 
Qual è, allora, la vera parte di Severino nel nichilismo diventato condizione normale?
È il sigillo che egli imprime sull’uomo dove sta scritto: “sei uguale a Dio”, “sei più di Dio”.
A questo punto tutto torna: ora c’è anche il sigillo del suo contrario su quel nulla, la faccia beffarda del “tutto eterno”.
Il vuoto dell’uomo postmoderno, Severino l’ha immortalato: ecco la vacuità del tutto eterno.

È tutta la potenza del nulla che si dispiega nella sua filosofia.
Si scruta il nulla quando si scorrono le innumerevoli pagine scritte dal filosofo di Brescia.
È una finestra sul nulla la sua immensa opera.
Forse ci rimarrà male Severino a vedersi così girato e capovolto, però il suo valore, io credo, rimarrà invariato. La sua capacità di parlare del nulla all’infinito non è impresa da poco, ma quella di un titano del pensiero. Ed è comprensibile perché, nonostante sia l’apologeta di quel niente, sia affascinante il suo inesauribile racconto.

Il fare di necessità virtù: la gestione del nichilismo
Dapprima il nichilismo lo si è subito: vedi il periodo delle guerre mondiali, dei campi di sterminio, della strategia del terrore atomico e nucleare in cui per la prima volta nella storia umana la sopravvivenza dell’umanità è stata posta in gioco dai suoi stessi rappresentanti.
Poi si è tentato di superarlo, vale a dire di passare oltre la linea di Mezzanotte, l’impresa su cui si son messi i grandi del secolo scorso, e io ne ho nominati due: Nietzsche e Heidegger. Ma quel tentativo non è riuscito, o solo in parte: arrivo sulla linea di Mezzanotte e progetti e speranza per andare oltre.
Altro non rimaneva allora che tentare di gestirlo.
Una gestione del nichilismo, la filosofia di Vattimo, mimetizzandoci, scomparendo il più possibile alla vista, assemblando razze, culture, religioni, diventando piccoli, inutili, insignificanti, come per sfuggire ai comandi che non ci vogliono così e che hanno fatto grandi molti uomini del passato.
Quelli che ha sentito Socrate, che agiva seguendo le parole del Demone e le ha ascoltate anche quando l’obbedienza gli è costata la vita. Il seguire virtù e conoscenza che ha spinto Ulisse oltre le Colonne d’Ercole. Poi gli innumerevoli uomini cui non è stato affermato che sono divini o deboli e combattono per superare i loro limiti, per aumentare la loro libertà, per strappare alle tenebre la conoscenza di se stessi.
Una gestione del nichilismo, la filosofia di Severino, con l’uomo in carne e ossa ingigantito come nel gioco delle ombre. Anzi nella veste di Giove tonante e ancora di più, perché l’ha chiamato “Superdio”.
Ma davvero dovremo rimanere così per sempre?
Sì, dice Severino. Costretti a essere dèi in quel modo, ognuno un dio.
Nella debolezza, dice Vattimo, anzi ancora più giù di quanto siamo oggi. Perché quella del “pensiero debole” è la migliore situazione possibile, la meno impegnativa, quella che lascia aperte tutte le porte e tutte le combinazioni
Ora io invece mi chiedo: quanto potrà durare una gestione così fondata?
Quanto ci vorrà ancora per passare dalla palude alla morta gora?
Per quanto potranno suonare ancora le sirene del nichilismo, prima che il nulla nella cultura si estenda anche alla natura, all’uomo in carne e ossa, corrompendolo completamente?
Perché non si supera il nichilismo riducendo l’uomo ai minimi termini: soluzione Vattimo.
Né allettandolo con il titolo di Superdio: soluzione Severino.
Ma solo se si attraversa l’Abisso e si passa in altre terre e altri cieli lo si lascia alle spalle (Sull’argomento, vedi anche Le altre facce del nichilismo).

P.S.
Se la “linea di Mezzanotte” fosse rimasta insuperabile e perciò l’accesso al Giorno dell’Essere impossibile, andrebbero bene l’illusione d’essere divini, il pensiero debole e l’ermeneutica, anche se quest’ultima è il supplizio di Sisifo in veste postmoderna. Si farebbe di necessità virtù, o sarebbero una pietosa bugia per addolcire un po’ la segreta sconfitta. Qualcosa come la favola La volpe e l’uva acerba, insomma. Perché, dunque, sono i risultati di un fallimento il pensiero debole, l’ermeneutica e il superdio. 
Invece è accaduto qualcosa di nuovo rispetto a questa posizione cui ormai si stanno adattando i più: il blocco sulla linea di Mezzanotte, in direzione del nuovo Giorno, non è stato completo. Qualcuno è riuscito a passare e ha cominciato a raccontare cosa c’è dopo. Dopo si arriva dall’altra parte dell’Abisso, dopo c’è la coincidenza degli opposti, la Fine della Storia che s’incontra con il suo Inizio. Dopo c’è la possibilità per l’Occidente di risorgere dalle ceneri della morale, della conoscenza, della dignità, del valore e della nobiltà in cui è caduto. 
E ora? Ora queste cose le diciamo e per fortuna abbiamo trovato il modo di renderle pubbliche, via Internet, perché altrimenti non sarebbero arrivate sulla scena pubblica.
Oggi, invece, con questo nuovo mezzo di comunicazione e di diffusione, le nuove idee sono andate in rete, e nonostante il recente inizio e i quasi ignoti autori, ci sono già migliaia di visitatori. Se continueranno a sostenerci, se si moltiplicheranno, La via d’uscita dal nichilismo non rimarrà più quasi deserta e fuori mano. L’Occidente raggiungerà l’Oriente e diventeranno una cosa sola per molti, e non soltanto per la sparuta avanguardia che ha già visto.
Allora, nella Luce che non tramonta mai, una nuova civiltà nascerà sulla terra e comincerà da quel punto il suo cammino.
Com’è già avvenuto nella Grecia antica venticinque secoli fa.

L’infinito

27 novembre 2009

Giacomo Leopardi, L’infinito
(Idilli, 1826)

Vincent van Gogh, I Vessenots vicino ad Auvers, 1890

Sempre caro mi fu quest’ermo colle,
e questa siepe, che da tanta parte
dell’ultimo orizzonte il guardo esclude.
Ma sedendo e mirando, interminati
spazi di là da quella, e sovrumani
silenzi, e profondissima quiete
io nel pensier mi fingo, ove per poco
il cor non si spaura. E come il vento
odo stormir tra queste piante, io quello
infinito silenzio a questa voce
vo comparando: e mi sovvien l’eterno,
e le morte stagioni, e la presente
e viva, e il suon di lei. Così tra questa
immensità s’annega il pensier mio:
e il naufragar m’è dolce in questo mare.

Il Centro, ora si sa come lo si raggiunge seguendo la via circolare della conoscenza che da poco è stata aperta: uscendo dal labirinto, attraversando l’Abisso, giungendo alla fine del cammino dove accade la coincidenza con l’inizio, svelando il segreto della Porta che così si è aperta, passando al di là e occupando il Centro (W. Boraso e G. Sacchi, L’antica via dei Miti e dei misteripercorsa ora con in mano la lampada della conoscenza filosofica, Editrice Leonardo, Pasian di Prato, Udine, 2009). Una via incominciata più di venticinque secoli fa nell’antica Grecia, e che è giunta a conclusione ai nostri giorni con gli ultimi passi di un’esigua avanguardia, dopo che è stato possibile gettare un rudimentale ponte che attraversa l’Abisso. Era la sua mancanza ciò che ha impedito finora la continuazione della via e l’arrivo, perché non era ostacolo da poco quel buco senza fondo. Era la morte per il corpo, o il nulla, come spesso si dice; era l’inconscio per la coscienza; il non-essere per la filosofia.
Strada giunta a conclusione ma non ancora inaugurata tuttavia, perché non ci sono nastri da tagliare finora, né montaggio di palchi per le autorità e inviti alla cittadinanza di intervenire all’inaugurazione.
Però il modo di passare ora c’è, ed è un Ponte, una corda tesa fra le due sponde per adesso, simile a quelli – come ho detto in altre occasioni – che si vedono fra i dirupi delle montagne del Tibet e che costituiscono l’ultimo collegamento con i monasteri costruiti sulle cime; e con l’attraversamento la via circolare della conoscenza è terminata.
Si sa anche cosa significa raggiungere la fine di una via circolare: significa ritrovare l’inizio e ricongiungersi ad esso. Così io che avevo percorso il semicerchio notturno con pochi compagni di viaggio fino alla Mezzanotte e poi completamente da solo nell’ultimo tratto, mi sono ritrovato improvvisamente a casa, fra volti noti, quelli dei sapienti antichi, e volti cari.  Poi da quella conclusione del giro dove coincidono la fine e l’inizio, e ogni altra coppia di opposti che qui appaiono separati (notte e giorno, veglia e sonno, conscio e inconscio, vita e morte…), si raggiunge il Centro da dove l’intero si dispiega, uno, unificante, in sé raccogliente e che tutto raccoglie. Quello che ha visto Parmenide all’inizio anziché alla fine, cioè venticinque secoli fa.
Di tutto questo però ho già parlato e non posso qui dilungarmi, perché il tema è un altro: è L’Infinito di Giacomo Leopardi e il colle da cui gli è apparso.
Ma perché il lungo preambolo sul Centro, allora, se il tema è una poesia? Perché anch’essa è un Centro.

Di centri così, come il colle dove il poeta si trova e vede e immagina, ce ne sono molti. Sospetto anzi che ogni uomo n’abbia uno, o ne trovi almeno uno nel corso della sua vita terrena. Un centro da cui all’improvviso tutto si disvela e viene colto.
Un centro di tal genere è per me la chiesetta di un piccolo paese del Cadore che si chiama Grea (W. Boraso, La chiesetta sperduta, Una storia d’amore, un’apparizione, un’impresa mitica, la conquista dell’immortalità dell’amore, di prossima pubblicazione su questo blog).
Per Bruno, un amico d’infanzia, è la località Tre canne, nel comune di Vighizzolo d’Este, dove spesso si reca a vedere e ricordare.
Per un altro amico che si chiama Antonio è una nicchia, ricavata su un tratto delle antiche mura che circondano la sua città adottiva, che contiene e conserva un’immagine screpolata e stinta della Madonna.
Oppure è un monumento, uno dei tanti di cui sono costellate la nostra bella Italia e l’Europa, fari nella notte. Perciò li teniamo sempre accesi, vale a dire abbiamo cura di essi, ripariamo i danni, li restauriamo, perché non vogliamo perderli.
Alcuni sono luoghi e oggetti che quando li incontriamo la prima volta in questa vita, ci sembra invece di averli già visti molto prima, anzi di conoscerli da sempre.
Nella maggior parte dei casi il centro è l’altra o l’altro di quando spunta l’amore e s’aprono dimensioni illimitate.
Per Giacomo Leopardi è il colle dell’infinito.

Trovato il centro, perché cercato o perché portati dal caso o dal destino, poi però bisogna tradurre la visione o il sentimento in parole di poesia, o in idee chiare e distinte, ed è questo che lo rende comune e universale. A questo punto però il loro numero diminuisce, anzi diventa piccolo. A me ora ne vengono in mente solo alcuni.
Il ritorno a casa d’Ulisse dopo l’Odissea, ha scoperto il centro dopo aver girato il mondo.
La formula di Hermes Trismegisto che definisce Dio: “È una sfera intelligibile, il cui centro sta dappertutto e la circonferenza in nessun luogo”; ripresa in seguito dai quaranta (poeti, mistici, filosofi).
L’abisso della Luce che Dante vide in Paradiso, dove “s’interna,/ legato con amore in un volume,/ ciò che per l’universo si squaderna” (Dante, Paradiso, canto trentesimoterzo, versi 85-87).
Il canto dell’amore, che ha colto all’improvviso Giosuè Carducci: “Io non so che si sia, ma di zaffiro/ Sento ch’ogni pensier oggi mi splende,/ Sento per ogni vena irmi il sospiro/ che fra la terra ed il ciel sale e discende./ Ogni aspetto novel con una scossa/ D’antico affetto mi saluta il core,/ E la mia lingua per se stessa mossa/ Dice a la terra e al cielo, Amore, Amore./ Son io che il cielo abbraccio, o da l’interno/ Mi riassorbe l’universo in sé? …/ Ahi, fu una nota del poema eterno/ Quel ch’io sentiva e picciol verso or è” (Giosuè Carducci, Il canto dell’amore).
Ed ora L’Infinito di Giacomo Leopardi.

“Sempre caro mi fu quest’ermo colle…”: comincia con la parola sempre la poesia. Non da quando era bambino, ragazzo, giovincello, gli è caro quel colle, ma da “sempre”. Come quando si dice: mi pare di averti sempre conosciuta, ti amerò sempre (Vedi anche la prima Coincidenza). E da quel colle da “sempre caro” e da quella siepe “che da tanta parte/ dell’ultimo orizzonte il guardo esclude” tutto gli appare e si “finge”.
Gli “interminati spazi”.
I “sovrumani silenzi”.
La “profondissima quiete”.
Appaiono nel pensiero, nella mente, “onde per poco il cor non si spaura”.
Allora ecco che da quelle dimensioni inusitate, lo soccorre il vento che stormisce fra le piante, un suono noto e famigliare in tanta grandezza. Segue il volgersi ai ricordi delle “morte stagioni” e poi il ritorno a quella “presente e viva” e al “suon di lei”. Ma tutto ciò non avviene nel modo comune e abituale di quando ci si sveglia dal sonno o si esce da casa a passeggiare, perché è dal silenzio che arriva lo stormire, è dall’eterno che il poeta vede il passato e il presente.
Poi la chiusura del canto: il dolce naufragare, perché il pensiero si perde in quell’immensità.

Cos’è allora L’Infinito che raggiunge il tutto in una volta, dove tempo ed eternità stanno assieme, e suoni e voci sono indicazioni del silenzio?
È l’accesso all’Essere dalla porta della poesia.

P.S.
C’è da notare però che i poeti, fra cui quelli che abbiamo qui nominato, se aprono la Porta d’accesso all’Essere ed entrano, però non sono ancora cittadini di quel mondo. Sono stranieri che arrivano da luoghi poveri e provvisori, dove ci sono i dolori, le malattie, la vecchiaia, la morte. Magnifici intrusi, io li chiamerei, più arrischianti della vita stessa, di un soffio più arrischianti. Infatti, anche Leopardi non è vissuto a lungo in questo mondo e come lui molti dei più grandi poeti del suo tempo. Oppure, come Hölderlin, non hanno retto a quelle Luci e Tenebre e la loro mente si è smarrita.

The rock

28 settembre 2009

Thomas Stearns Eliot, The Rock (1934)

Thomas Stearns Eliot

Thomas Stearns Eliot


Dov’è la saggezza che abbiamo
perso in conoscenza?
Dov’è la conoscenza che abbiamo
perso in informazione?

Questa è bella! Ho chiesto a mio fratello di cercare su internet notizie di Eliot per poi procedere alla lettura delle sue poesie e sceglierne una da includere nell’elenco delle Coincidenze, ma assieme alla biografia che comprendeva le caratteristiche della sua opera, c’erano anche i quattro versi sopra riportati. Bene, mi son subito detto dopo uno sguardo, non occorre più cercare oltre perché ho già trovato.
In passato avevo letto di Eliot cose belle che non ricordavo bene e che perciò dovevo rivedere, anche per riportarle esattamente, ma ora non più. Quel colpo di fulmine chiudeva la ricerca.
Ma cosa hanno di speciale? Perché versi più affascinanti sono, per esempio, ­– cito a memoria – una “porta in fondo al corridoio che dà sul giardino delle rose, che non apriremo mai”. Perché allora quella scelta improvvisa e senza appello? Ma ci si chiede forse quando Eros scocca la sua freccia e ci colpisce perché quella donna e non un’altra! Ebbene, è stato qualcosa di simile quel che è accaduto; di cui però devo ora dar conto perché qui non mi trovo nel campo del sentimento ma in quello della conoscenza chiara e distinta.

Il fatto è che, quasi a conferma di un segnale che ho visto parecchi anni fa lungo la via della conoscenza che diceva “Io vedo la Parola dentro il Libro,/ e poi il Libro dentro la Parola./ Questo farsi piccino è l’esistente/ e manifestare il totale in forme e canti”, nei quattro versi e diciotto parole complessive sono espressi problemi fondamentali che hanno occupato la filosofia nel suo inizio e poi per tutto il suo corso e che ancora non sono risolti e incidono su di essa, e sono determinanti per il suo significato e la conclusione del suo ciclo. Anzi di quei problemi abbiamo quasi perso anche il ricordo ora che ci troviamo a circa venticinque secoli di distanza dal loro primo presentarsi, e dileguerebbero sempre più se si continuasse ad allontanarci. Ciò accadrebbe sicuramente se il tempo fosse quel procedere ininterrotto che va da un passato indeterminato ad un futuro interminato; un’opinione diffusa questa qui, anzi la certezza per i più. Invece, oltre che con la filosofia dei nostri giorni a cominciare da Nietzsche, ci siamo avvicinati anche con la poesia. Come è stato possibile?
Perché in un cammino circolare allontanarsi significa tornare. Perché, come ha detto Aristotele tanti secoli fa, il “prima e dopo” rispetto ad un inizio noto accadono sempre in tale successione per chi si muove su una linea, ma s’invertono su un cerchio quando si gira come sui tornanti di una strada di montagna [“In quale modo dobbiamo comprendere queste parole prima e dopo? Dovremo intenderle nella maniera seguente: Coloro che sono vissuti al tempo della guerra di Troia ci sono anteriori: a questi sono anteriori coloro che sono vissuti in tempi più antichi, e così di seguito all’infinito, considerando sempre anteriori agli altri gli uomini che si trovano più indietro nel passato? Oppure se ammettiamo che l’Universo abbia un principio, un mezzo e una fine; che quando, invecchiando, è giunto alla propria fine sia per ciò stesso tornato di nuovo al suo principio; se è vero d’altronde che le cose anteriori sono quelle più vicine al principio, chi c’impedisce allora d’essere più vicini al principio (degli uomini che vissero al tempo della guerra di Troia)? Se così fosse, saremmo anteriori a loro. Dal momento che, con il suo moto locale, ogni cielo e ogni astro percorre un circolo, perché non dovrebbe essere lo stesso per la generazione e la distruzione d’ogni cosa peritura, in modo tale che questa stessa cosa possa a sua volta nascere e perire di nuovo? Così si dice pure che le cose umane percorrono un circolo” Aristotele, Problemata, XVII, 3].

Così siamo più vicini noi oggi alla sapienza, da cui la filosofia ha avuto origine, di quanto, per esempio, lo è stato Hegel, che ai suoi tempi era ancora in fase di allontanamento, anche se presso la svolta. Perciò ben s’intende oggi quel che poi è successo. Il grande filologo tedesco Hermann Diels, in un cammino a ritroso che è giunto fino all’inizio, ha cercato, scoperto e raccolto tutti i frammenti dei presocratici; Nietzsche è ritornato a quei tempi per ricordare da dove era partito ora che l’arrivo s’avvicinava dall’altra parte, poi ha ripreso il cammino in avanti; c’è Il ritorno a Parmenide di Severino; Heidegger e Jünger, dopo la loro escursione all’indietro come Diels e Nietzsche, hanno poi continuato in avanti e sono arrivati sulla linea di mezzanotte. Hanno anche progettato di attraversarla e di proseguire fino alla nuova Aurora e al Risveglio (Vedi L’antica via dei Miti e dei Misteri).
Ulteriori prove che il tempo gira in tondo, e come un vortice attira e trascina tutte le cose di questo mondo e così si ritorna al punto di partenza, lo dicono anche i cammini circolari seguiti dagli eroi e poeti presenti nelle pagine già scritte di questo libro. Ed ora, ormai vicino a quell’evento, questo giro è segnalato anche da Eliot con la sua breve poesia, nella quale si chiede e chiede:
Dov’è la saggezza che abbiamo/ perso in conoscenza?

In questa domanda ci sono tre parti o aspetti:
C’era la saggezza, o sapienza, così più volentieri io la chiamo (Platone non distingue fra i due termini. La netta distinzione è stata fatta da Aristotele. Ma si era già in pieno giorno e perciò essa, io credo, si è imposta. Perché l’Aurora non c’era più, e perciò neppure la sapienza, e la saggezza è diventata la disciplina razionale delle faccende umane).
Che abbiamo perso o si è persa.
Al suo posto la conoscenza.

A questo punto c’è da dire che: l’età della sapienza – sesto e quinto secolo a.C. – è stata chiamata Aurora della civiltà greca; ad essa è seguito il Giorno, vale a dire la sua manifestazione luminosa, con i primi filosofi Socrate e Platone, il primo grande statista Pericle, i primi storici Erodoto e Tucidide, i grandi poeti tragici, ecc.; per cui due versi di Eliot si possono esprimere anche così:
Dov’è l’Aurora che abbiamo perso nel Giorno?

Perciò sapienza e conoscenza hanno anche altri nomi, e si può esprimere la stessa cosa con gli uni o gli altri, rimanendo fedeli a quel che è davvero successo in quel manifestarsi di una civiltà. Sono dei sinonimi: a quell’apparire sono stati dati anche i nomi della luce e delle sue fasi, a sapienza Aurora e a conoscenza Giorno. I quali poi non sono stati dati a piacere o per gioco, ma hanno in comune con i primi l’origine. Infatti in sophía – la sapienza – si riflette, come nell’aggettivo saphés, che significa “chiaro”, “manifesto”, “evidente”, il senso di pháos, la “luce”, e filosofia è aver cura di ciò che si manifestato in tal modo. Sono perciò anche sorelle e fratelli gemelli quelle copie.
In quanto ai versi presi in esame, ancora una volta appare cos’è la parola di poesia, soprattutto quella d’oggi: un emergere dal profondo nella luce di ciò che è stato e lì giaceva da millenni, nell’esatto modo in cui è avvenuto. L’esatto modo è questo: c’era la sapienza che abbiamo perso in conoscenza.
Andiamo avanti.

In quell’inizio di venticinque secoli fa c’era, dunque, la sapienza; poi la conoscenza ha preso il suo posto, non come cosa improvvisa e diversa che l’ha eliminata, ma in un processo di trasformazione che ha mutata il suo aspetto, nascondendola. Ma ora che stiamo riandando verso l’inizio, è la prima che il poeta cerca; e se la cerca, è perché segretamente sa che c’è ancora. Ed è proprio così, e si possono dire ora luoghi e tempi della sua presenza antica. Poi quelli della mutazione avvenuta, e come e perché.
La sapienza c’era prima della conoscenza come oggi l’intendiamo, prima, quindi, della nascita della filosofia. E siccome essa è cominciata con Socrate, vale a dire nel quarto secolo a.C., la sapienza l’ha preceduta, si è manifestata precisamente nei bei due secoli precedenti, soprattutto nel quinto. Esso, infatti, è quello di Parmenide ed Eraclito, i due maggiori sapienti che hanno preceduto i filosofi. Poi l’inizio della filosofia, che significa letteralmente aver cura (philo) della sapienza (sophía), e il filosofo è quindi l’erede di essa e il suo amico. Perciò che abbia avuto quest’origine lo dice il nome stesso.
Ma per Eliot il passaggio dall’una all’altra ha costituito una perdita e anche questo è vero. Se ne è accorto fin dall’inizio Socrate, il primo filosofo. Nel Teeteto così egli manifesta il sentimento che lo ha colto, quando da giovane ha praticato Parmenide e ha ascoltato la sua parola: “Sebbene di fronte a Melisso e a tutti gli altri, i quali sostengono che il tutto è un’unità immobile, io provi un rispetto nel timore di fare una disamina grossolana, tuttavia questo rispetto è minore che di fronte al solo Parmenide. Parmenide, per dirla con Omero, mi sembra venerando e nello stesso tempo terribile. Io, infatti, quand’ero molto giovane lo praticai mentre era assai vecchio e mi parve che possedesse un’acutezza senza dubbio singolare. Pertanto io temo che non riusciamo a comprendere le sue parole e che, ancor più, restiamo lontani dal concetto che egli espresse…” (Platone, Teeteto, 183 E).
Gli era sfuggito fin da allora qualcosa che non ha più ricuperato in modo chiaro e distinto, vale a dire la sapienza.

Ma c’è dell’altro ancor più intrigante in questa storia, che si colora perfino di giallo, come nei più famosi romanzi di Agatha Christie: è stato Socrate stesso a tramare e realizzare il mutamento da sapienza in conoscenza, e ciò è sembrato fin da allora un delitto perfetto, il peggiore: un parricidio. Socrate, il primo erede della sapienza, lo stesso che sapeva in cuor suo che essa era superiore alla stessa filosofia o che lì stava il segreto dell’altra; superiore perciò alla ragione che avrebbe guidato gli uomini del nuovo corso per millenni, ha decretato la morte del padre Parmenide. Parmenide aveva indicato la via maestra della sapienza e Socrate per primo ha deviato da essa e ne ha preso un’altra a una quota inferiore e l’ha tracciata, insegnata, e seguita lui stesso in tanta parte. Una via che, ora lo vediamo chiaramente perché ne abbiamo fatto esperienza, era qualcosa d’intermedio fra la sapienza e l’apparenza, e che ci ha condotto, in un giro durato ventiquattro secoli fin dove ora ci troviamo.
Una scelta sofferta, in ogni modo, la via intermedia indicata da Socrate e seguita da lui stesso in tanta parte, che è poi quella della conoscenza filosofica e scientifica; ma era ciò che occorreva perché la civiltà appena sorta prendesse il via in una direzione determinata: verso Occidente, sulla Terra e nel pensiero. Un parricidio è stata chiamata fin dall’inizio la deviazione dalla via maestra, e il padre era Parmenide e il parricida Platone che aveva disatteso il suo insegnamento principale.
La deviazione dalla “rotonda verità” è raccontata dallo Straniero di Elea nel dialogo platonico Sofista:
Lo straniero
: Abbiamo disubbidito a Parmenide e oltrepassato di molto i limiti del suo divieto.
Teeteto
: Perché?
Lo straniero
: Egli aveva posto un limite alla ricerca e noi lo abbiamo oltrepassato, siamo andati oltre argomentando contro il nostro maestro.
Teeteto
: Come?
Lo straniero
: Vedi, egli dice, me ne ricordo bene: ‘non costringere ciò che non è ad essere, mai; ma, cercando, evita questo sentiero, e lontano ne sia il tuo pensiero’.
Teeteto
: Certo, dice proprio così.
Lo straniero
: E noi invece abbiamo dimostrato che il non-essere è”.

C’è da dire però, a difesa di Socrate, che la via maestra che portava direttamente alla verità era troppo esclusiva. Poteva nascere solo una scuola in tal modo, una confraternita di spiriti eletti, non una civiltà numerosa ed estesa che ha sempre occupato tanta parte della terra e che è dilagata ai nostri giorni su tutto il pianeta.

Giunti a questo punto, è necessario scoprire cosa c’era in più nella sapienza e cosa è andato perduto.
Se, come abbiamo detto e non c’è modo di dubitarne, la nascita della civiltà greca è chiamata anche Aurora, e ha cominciato a splendere all’inizio del quarto secolo a.C., e uno degli aspetti più importanti di quella manifestazione è stata la filosofia, quel che si andava perdendo era la Notte e l’Alba. Vale a dire il momento in cui oscurità e luce stanno assieme e si danno nascita fra loro. Perché sapienza è soprattutto questo: visione simultanea degli opposti e della loro coincidenza, esperienza originale del passaggio dalla tenebra alla luce.
Anche se la via maestra non è stata praticata come ha indicato Parmenide, qualcosa di quell’esperienza originaria è però rimasta nella filosofia e i filosofi hanno ereditato anche quelle voci misteriose e quelle indicazioni enigmatiche: ecco perché ci sono in essa anche le crepe e i segni di passaggi segreti, di porte chiuse, di ponti da varcare, di abissi da rischiarare, avvisi che i più attenti e perspicaci hanno continuato a vedere e seguire.
Anche Eliot, ecco perché in tempi di estrema povertà si è chiesto e si chiede:
Dov’è la saggezza che abbiamo
perso in conoscenza?

Ora gli altri due versi:
Dov’è la conoscenza che abbiamo
perso in informazione?

La conoscenza nei modi della filosofia, come si sa, dopo Socrate e con il metodo da lui instaurato è continuata fino a Hegel, e questa lunga manifestazione è stata chiamata, recentemente mi sembra, filosofia del Giorno.
Poi il Tramonto, che i più sensibili hanno cominciato ad avvertire alla fine del diciannovesimo secolo, e in modo vistoso circa cento anni fa. Tramonto dell’Occidente è il pensiero che lo esprime in modo inequivocabile, ed esso è anche il titolo di un famoso libro di Oswald Spengler, ma anche Il disagio della civiltà di Sigmund Freud, La crisi della civiltà di Jhoan Huizinga, Eclissi della ragione di Theodor W. Adorno, Lo smalto sul nulla di Benn, ecc.
È cominciata così l’altra grande trasformazione: della conoscenza in informazione.
Ciò che era luminoso diventa grigio, sempre di più. Ed ora c’è indistinzione, confusione, oscurità, nichilismo diventato, in pochi decenni, condizione normale.
Un’eccezione a questo vagare alla cieca è il cammino seguito da pochi filosofi, quelli che ho già nominato e che sono giunti fino alla linea di Mezzanotte, ma anch’esso ufficialmente finisce lì, perciò nel Buio, anzi peggio: sulla sponda dell’Abisso; e oggi si sta perdendo anche la memoria di quell’avamposto, o, perché appariva insuperabile, è stato rimosso.
Nomi della filosofia arrivata a questo stadio sono: pensiero debole, relativismo, multiculturalismo, ermeneutica, o anche informazione, quello che gli ha dato il poeta, ed essa oggi è affidata soprattutto alla tecnica. Enorme ai nostri giorni la quantità di notizie diffuse dalla radio, dalla televisione, dai giornali, via Internet, dai satelliti. Un mare continuamente alimentato, e fiumi di parole che defluiscono, confluiscono, s’ammucchiano, s’ingorgano, si sciolgono, appaiono e scompaiono, come nel caos quantico (Parole e particelle subatomiche si assomigliano ai nostri giorni e vale per le prime quanto ho scritto per le particelle anni fa. “Esse fanno i pagliacci e i saltimbanchi/ con nasi finti e vesti variopinte/ e saltano, ballano, si arrotolano,/ si innalzano, precipitano, si trasformano,/ scompaiono all’improvviso e ricompaiono/ da quinte o buchi, da fondi senza fine,/ da invisibili altezze oppure da nulla./ Ma son essi o son altri,/ si sono cambiate le vesti,/ e lo stesso l’ordine dei colori!/ E chi li segue nelle loro piroette/ estasiato e frastornato,/ li guarda, li studia, li descrive./ È mestiere o un gioco,/ o solo un modo di campare!/ Perché non si sa davvero chi sono e cosa sono,/ da dove arrivano e dove se ne vanno”).
Ma dove più grande è il pericolo, là sorge il salvatore
– ha detto Hölderlin, e anche Eliot lo immagina, lo pensa, quando si chiede e chiede: dov’è?

Dov’è la saggezza che abbiamo
perso in conoscenza?
Dov’è la conoscenza che abbiamo
perso in informazione?

P.S.
Perché mio fratello non si senta deluso delle ricerche che sta compiendo su Internet anche per mio conto, devo specificare che non di quest’uso dell’informazione qui si parla, vale a dire di quello rivolto alla ricerca e scoperta di ciò che la cultura conserva ed offre, perché il passato è fondamento dell’avvenire ed è necessario conoscerlo. Attività che peraltro è sempre esistita, e oggi Internet permette di esercitarla in modo più veloce e completo. Informazione, come Eliot l’intende, e che io ho ribadito e sviluppato con la Coincidenza, è la trasformazione e riduzione della sapienza e conoscenza a sé stessa, perciò tutto diventa mera informazione. In altre parole, trasformazione e riduzione dell’Aurora e del Giorno in oscurità, e c’è solo quest’ultima alla ribalta, perché le altre due sono dietro le quinte e il pubblico neppure sa che esistono. Quel che sta succedendo in questi nostri tempi, insomma, in cui tutto è chiacchiera, notizia, e non si distingue più la finzione dalla realtà, il teatro dal mondo, la commedia dalla vita.

Lettera aperta a Emanuele Severino

22 agosto 2009

Martin Heidegger in the woods

Martin Heidegger in the woods

“L’essere, per Heidegger, non è nessuno degli enti, non è nemmeno quel Super-ente che è il Dio della tradizione occidentale. È invece ciò che si manifesta nel disvelamento. Nell’antica lingua greca è presente la parola alétheia solitamente tradotta con verità, la cui traduzione più appropriata e anche più letterale, però, è appunto disvelamento (dove il prefisso dis corrisponde all’alfa privativo di a-létheia. Per i Greci la “verità” è un trar fuori dal velamento, ossia dalla léthe – dalla latenza. Il disvelamento non è un atto umano. Heidegger lo interpreta come una luce che sorge dall’oscurità (cui è quindi essenzialmente unita) e che illumina le cose. E aggiunge, spintovi dal senso greco di quella parola, che tale luce ancor prima di illuminare le cose, quindi indipendentemente da esse, apre una radura luminosa che non è costituita da alcun ente e non rappresenta alcun ente, ma è, appunto, l’essere di ogni ente. Rifacendosi ai primi pensatori greci, Heidegger intende affermare la differenza ontologica tra essere ed essente (Emanuele Severino, Il muro di pietra, Rizzoli, pp. 109-110).

Ed ora la sorpresa: chi espone così il pensiero di Heidegger sull’Essere, vale a dire con queste parole chiare e distinte e in modo conciso ma completo, non è un discepolo del filosofo tedesco o un suo ammiratore esperto della sua dottrina, ma Emanuele Severino.
Inoltre le sorprese non finiscono qui. L’Essere, come luce che appare dall’oscurità, non è un’idea di Heidegger soltanto: anche Parmenide l’ha descritto in tal modo; quello che il sapiente d’Elea vide più di venticinque secoli fa e di cui ci ha lasciato le testimonianze. Perciò se esistono differenze fra i due racconti dipendono solo dalle parole impiegate per riferirgli, diverse ma che esprimono la stessa cosa, per questo essi sono sostanzialmente uguali. Vediamo qualche esempio.

Per Heidegger l’Essere “è una luce che sorge dall’oscurità”.
Per Parmenide è il “Giorno” che appare quando si apre “la Porta che divide i sentieri della Notte e del Giorno”, e lui giungeva dalla “Notte”. Perciò “Giorno” è un appellativo dell’Essere.

Per Heidegger la Luce che sorge apre una “radura luminosa”, che è l’Essere nella sua manifestazione, luogo degli enti che così appaiono.
Per Parmenide questo luogo è lo spazio visto dall’Aurora dove appare tutto in una volta e collegato, e dove si sarebbero riversati gli abitanti dell’antica Grecia per cominciare il cammino di una civiltà, quella che si è poi chiamata Occidente.

Naturalmente per Heidegger gli enti che si presentano alla vista non sono gli stessi di prima della manifestazione luminosa. Ora hanno l’Essere con loro.
Per Parmenide gli enti così illuminati segnano la via della doxa, che sarà poi quella della filosofia e della scienza.

Per Heidegger l’Essere non è Dio ma Luce che appare, poiché Dio si rivela fuori della sfera della filosofia nella sfera del Sacro. (“Das Sein-das ist nicht Gott und nicht ein Weltgrund”, M. Heidegger, Brief über Humanismus, Bern 1947, pag. 76).
Anche per Parmenide l’Essere non è il Dio delle religioni. Dopo aver affermato che “Essendo ingenerato è anche imperituro,/ tutt’ intero, unico, immobile e senza fine./ Non mai era né sarà, perché è ora tutt’ insieme,/ uno, continuo”, egli prosegue così: è anche “immobile; infatti la dominatrice Necessità lo tiene nelle strettoia del limite che tutto intorno lo cinge, perché bisogna che l’essere non sia incompiuto: è infatti non manchevole: se lo fosse mancherebbe di tutto” (I Presocratici – Testimonianze e frammenti. Parmenide, framm. 7, Biblioteca Universale Laterza.). Cose che non si dicono di Dio, vale a dire che sia costretto e ristretto dentro confini.

D’altronde perché dovrebbe sorprendersi se un appellativo dell’Essere è Luce e così viene chiamato? C’è solo una continuazione e sviluppo di quel che già avviene in modo simile in luoghi già noti. Non è ciò che succede ogni mattina qui sulla Terra quando appare il sole e illumina tutte le cose che così appaiono, spuntano, si aprono, crescono? Non è ciò che accade ad ogni ragazzo quando raggiunge l’età della ragione ­– la quale è luce riflessa dell’Essere –, che perciò vede e comprende quel che prima gli era negato: la vista delle cose tutte assieme, per esempio, e le leggi che le collegano e governano?
Soltanto che la luce vista da Parmenide e riscoperta da Heidegger non è né il sole né la ragione. È un’altra, o la stessa ma colta in modo nuovo. Con gli occhi dell’intelletto oltre che con quelli del corpo e della mente razionale: c’è un innalzamento della soglia della percezione a questo punto. E ciò che è apparso in più da quel momento sotto la luce dell’Essere è la filosofia, la scienza esatta della natura, la storia, la tragedia, la democrazia, il cammino di una civiltà diretta verso Occidente, vale a dire alla sua conclusione, dove però c’è la possibilità per chi arriva, oppresso e avvinto da limiti tenebrosi che parevano insuperabili, di un altro passo in avanti, di uno “scavalcamento di sé stesso”.

Heidegger e Parmenide assieme, perciò, a questo punto. Poi la mia esperienza, quella che sto raccontando in queste pagine: un cammino il mio che è passato per molte tappe su cui si è soffermato il sapiente di Elea (si veda su questo blog la sedicesima coincidenza intitolata Dalla sapienza alla sapienza seguendo la via filosofica), e per arrivare fino alla fine ho adottato il metodo già sperimentato da Heidegger: quello di tornare indietro fino alle origini prima di proseguire. Nel mio caso è stato un tornare indietro per andare avanti e in tal modo sono giunto alla fine che coincide con l’inizio (si veda L’antica via dei Miti e dei Misteri – percorsa ora con in mano la lampada della conoscenza filosofica). Ma anche Heidegger, mi pare, ha proceduto, di fatto, così. Dopo aver percorso la strada all’indietro fino a Parmenide, ha ripreso la stessa in avanti, ormai immersa nelle Tenebre, ed è giunto al “punto zero” o “linea di Mezzanotte”, sognando l’Alba. Io ho superato anche la Mezzanotte e dopo aver attraversato l’Abisso e apparso il primo chiarore dell’Alba, e poco dopo ha cominciato a splendere il “Giorno”.

In tre perciò, siamo giunti allo stesso risultato, e Severino poteva diventare il quarto, vista la chiarezza e la competenza con cui ha colto il nocciolo del pensiero dei grandi che l’hanno preceduto. Invece la sua contrarietà. Contro Parmenide, contro Heidegger.
Al primo ha addebitato soprattutto di aver “negato il molteplice” per affermare l’Essere, e che “il molteplice non è vuol dire che il mondo così come ci sta davanti nella sua straordinaria ricchezza, differenza di forme, colori, di luci, di situazioni, non è (vedi su questo blog l’articolo S.P.S. – Salviamo Parmenide da Severino). Da ciò l’accusa: negando gli enti e il loro totale Parmenide è stato il primo nichilista e l’Occidente ha cominciato il suo cammino dal nulla, per ritornare al nulla se Severino non avesse scoperto la deviazione antica, indicando ora la via da seguire.
Heidegger l’ha accusato invece d’ambiguità, perché egli “non ha mai ritrattato l’affermazione, espressa in più occasioni, che il proprio pensiero non pregiudica né in senso positivo né in senso negativo la soluzione dei grandi problemi metafisici – i problemi dell’esistenza di Dio e dell’immortalità dell’anima” (E. Severino, Il muro di pietra, Rizzoli, pp. 117-118). Perché una delle sue ultime espressioni prima di lasciare questo mondo suona così: “Ormai soltanto un Dio ci può salvare”.

In quanto a me, non sono ancora in gioco nell’arena della filosofia, né si può sapere se dopo questa lettera aperta il grande accademico si degnerà di guardare dal suo trono a chi gli dice: “Il re è nudo”. Ma anche se rimanesse impalato e muto con lo sguardo fisso in avanti, pensando “che qui ne va del decoro, se non si rimane imperterriti” (si veda su questo blog Severino e la favola), non avrebbe molta importanza per me che ho compiuto il gran viaggio: ai posteri l’ardua sentenza. Se si riconoscesse nudo sarebbe però importante per chi è ancora in cammino e non sa dove andare, e per coloro che la strada non l’hanno ancora incominciata. Perché non è vero che ogni uomo in carne ed ossa è “Dio” qui sulla Terra, tantomeno “Superdio”. Siamo invece miseri, e dopo che l’Essere è scomparso sotto l’orizzonte della mente anche senza alcuna meta e scopo; e se continua così può darsi che la struttura sociale dove ora ci troviamo non regga più e che imploda o esploda. Ciò che è nelle previsioni di molti profeti d’altronde, specialmente da quando disponiamo dell’energia nucleare ed è cominciata la devastazione della Terra.

Giunti a questo punto, che cosa si può pensare di Severino? Che il suo voler confutare il più grande sapiente dell’antichità e il più grande filosofo del secolo scorso sia solo un gioco di parole, di quelli cari ai sofisti antichi e nuovi? Oppure ha così parlato perché ha visto: ha parlato cioè sulla base della sua esperienza e non menando il can per l’aia come spesso si fa nella moderna ermeneutica, dove la “verità” è solo un giro di parole?
Fino a poco tempo fa conoscevo solo la prima ipotesi, ma ora si è fatta avanti la seconda, si è insinuata come un tarlo e sta scacciando la prima.

Intanto vediamo la trasformazione operata da Severino sul pensiero dei grandi che l’hanno preceduto. Per lui eterno, immutabile, incorruttibile, ingenerabile, non è il “Giorno” di Parmenide e la “Luce” di Heidegger che aprono spazio e “radura luminosa”, luogo degli enti che così acquistano l’Essere e s’illuminano e appaiono con la nuova veste (Alétheia è il nome greco di quell’accadere).
Eterno, immutabile, incorruttibile, ingenerabile, è ogni ente di questo mondo. Questo è il centro del suo pensiero su cui tutto gira. Così, però, sparisce l’“Essere”, perché le sue determinazioni sono trasferite ad ogni ente, e quella che era la fonte si svuota e sparisce per sempre. Preceduto dal “Dio è morto” di Nietzsche, egli ora gli dà pubblica e solenne sepoltura. È il becchino ufficiale dell’Occidente immerso nel nichilismo diventato condizione normale.
Ma com’è potuto arrivare a tanto se, come ho appena detto, non gli si può negare la buona fede? Perché l’Essere era sceso sotto l’orizzonte è la risposta, e non c’era più nel cielo della civiltà che ha illuminato per venticinque secoli.

Era tramontato nel modo previsto e visto da Heidegger, che ha parlato di “epoché dell’Essere”, vale a dire di momenti di massima manifestazione e di altri di oscuramento completo. E il primo si è verificato nel sesto secolo a.C. e l’hanno visto i sapienti, ed è cominciata la civiltà occidentale e non solo essa: anche il Buddhismo in India e il Taoismo in Cina; e i fondatori di quelle dottrine sono contemporanei di Parmenide. Il nascondimento ha avuto invece inizio circa due secoli fa nei modi del sole che tramonta fino a scomparire. Le prime avvisaglie le hanno percepite i poeti (Hölderlin). Poi un crescendo d’ombre sempre più scure già con Nietzsche e gli autori della numerosa e varia letteratura del nichilismo. Quindi la scomparsa.
Così quando è arrivato Severino l’Essere più non c’era, sepolto dall’oscurità, e lui l’ha ritenuto morto.
Al suo posto solo la sua luce negli enti, ed ognuno di essi è diventato “Essere”, anzi “Superdio”, perché per Severino non c’è distinzione fra l’Essere della filosofia e il Dio delle religioni.

Il cerchio e la riga

1 marzo 2009

Novella Cantarutti, Senza titolo

Novella Cantarutti

Novella Cantarutti

Rotolo indietro
Nelle braccia che mi hanno sorretto
Come incavi di alberi grandi,
da madre in ava,
indietro
nel tempo senza storia
fino alla cuna d’acqua.
Avanti invece
sono soltanto righe
di muro, di ferro, d’asfalto
senza appoggio.

Può la poesia dire cose che altrimenti non arrivano alla parola, che altri linguaggi – quelli della prosa, per esempio, o della filosofia o della scienza – non sanno sollevare fino alla percezione? Sembra proprio di sì, e di tal natura è la breve poesia di Novella Cantarutti, che non ha titolo, ma che io chiamerei Il cerchio e la riga.
Non tutta la poesia però ha queste caratteristiche. Non le filastrocche, o quella delle sagre e delle cerimonie che suona familiare alle orecchie della maggior parte, e neppure la poesia che occupa posti importanti nella scala delle altezze perché canta sentimenti profondi, imprese mitiche, avvenimenti eccezionali.

Io anzi ne conosco poca di anticipatrice di mondi nuovi o di nuovi aspetti del medesimo. Quella di Hölderlin e Novalis, per esempio. Il primo ha visto e seguito gli Dèi in fuga nella notte santa, fino a smarrirsi; il secondo ha affrontato e indagato il regno della notte e morte per ritrovare la fidanzata Sophie, “dove quel petalo era volato” in giovanissima età. Oppure la poesia dei presocratici, da cui il pensiero filosofico è nato. Sapienza che ha preceduto il sapere razionale quel loro dire in versi.

Collocata la poesia di Novella nel posto che le spetta, vale a dire nel tempo e luogo che è il crinale fra passato e futuro in questo caso, provo ora a sviluppare quel che essa dice in modo molto breve ed enigmatico. Me lo consente, io credo, una lunga pratica in questo campo e poi quel mio accanirmi, durato una vita, su quelle righe diritte che stanno davanti, soprattutto su quella della vita. Quella che comincia, si sviluppa per un breve tratto o arco, e poi finisce e dopo non si sa. Con questa io ho combattuto fino a ridurla a un cerchio anch’essa. È la linea che ha un verso solo su cui, come si vedrà, la poesia s’appunta, forse per additare come la sibilla delfica che essa è il problema del nostro tempo, che ora dobbiamo risolvere per salvarci.

La poesia comincia, dunque, nel punto dove, come scia di nave che avanza, il passato si scioglie e scompare e dopo c’è il futuro. Ma “Rotolo indietro”, dice il primo verso, e pare che ci sia in esso anche una nota di rifiuto ad andare avanti. Chi può rotolare è cerchio o cosa rotonda ed è tale tutto ciò che in noi è natura: vale a dire il corpo e tante sue manifestazioni; e rotola, recita la poesia, in altre rotondità. Nelle braccia della madre, e da madre in ava sempre più indietro. Più indietro di ciò che è apparso come Storia più di venticinque secoli fa, prima di Erodoto, di Tucidide. Quanto prima?
Dove diceva Pitagora, che ricordava molte delle sue precedenti esistenze, e in una di esse anche il suo nome di allora: Euforbo, milite nella guerra di Troia e ucciso in battaglia sotto le mura di quella città da Menelao, re di Sparta.
Dove diceva Buddha, che la notte precedente l’illuminazione ha richiamato alla memoria “migliaia di vite come rivivendole e le ha collegate fra loro”.
Dove ha detto Ermete Trismegisto, nato tre volte in Egitto dove si è dedicato alla conoscenza, finché nell’ultima vita terrena si è illuminato, ha ricordato le sue precedenti esistenze, ha ricuperato il suo vero nome, e poi è salito al mondo superiore dov’è l’origine.
Fin dove Empedocle ricordava d’esser stato: “Un tempo io fui già fanciullo e fanciulla, arbusto, uccello e muto pesce che salta fuori del mare”.
O ancora più in giù? Forse si, “nel tempo senza storia”, afferma la poesia. Forse essa attinge anche alla profondità più grande, alla “cuna d’acqua” che è il grembo della madre, dell’ava, ma anche il fondo primordiale dove la vita sulla terra è cominciata quattro miliardi d’anni fa. Perché, come il sonno, il sogno, l’inconscio da cui arriva, non ha limiti di tempo e di spazio la poesia. Inoltre c’è somiglianza fra una “cuna” e l’altra, fra il primordiale grembo del mare e quello della donna. Il secondo è una specialità del primo.

Ed ora l’altra parte che chiamiamo futuro, quella delle “righe”, che ci appare come davanti e che stiamo conducendo fra pianti e canti. Non più il tondo ma il dritto. Ma cos’è questo dritto che viene dopo se dietro di noi tutto rotola; anche il sole, la terra, la luna, le stagioni, e tutto appare tondo e circolare? Cos’è quel dritto innaturale? Lo dice la poesia cos’è: “Righe/ di muro, di ferro, d’asfalto/ senza appoggio”. Cioè tecnica. E se grattiamo un po’ su quelle dure scorze, ecco che appare quel che sta prima di esse: la conoscenza umana, quella scientifica che ha dato numeri, ordine, misure. Poi, se s’insiste e si va più a fondo, appare la filosofia, appare la sapienza da cui la filosofia è nata e infine l’autore di questo mondo di conoscenza e tecnica. Si chiama Io. Ciò che s’è staccato in tanta parte dalla natura e mira ad aumentare la distanza; quello che è libero, si dice, che si conduce da sé. l’Io penso di Cartesio, ma anche quello di Kant, e poi l’Io assoluto di Fichte, Schelling, Hegel, che per loro è anche Dio.
Ma è pure la nostra povertà più grande; ce ne siamo accorti soprattutto nel secolo appena trascorso, funestato da due guerre mondiali e da campi di sterminio. Un Io che ci fa intendere la morte e ce la pone sempre davanti, ma non arriva a darci la vita oltre i limiti concessi dalla natura; un Io che ci apre all’immortalità ma essa è come un miraggio nel deserto.
Le “righe”, dunque, sono le opere dell’uomo, le conoscenze che le hanno prodotte, la concezione lineare del tempo che le accompagna, dritta come un fuso, ma “senza appoggio”. Nessun sostegno per loro come invece l’hanno i corpi celesti che circolano, ritornano al punto da dove sono partiti, coincide la fine con l’inizio e mai non cadono.
La riga è la conoscenza che abbiamo di noi stessi, che è limitata al tempo della vita, alla parte diurna di essa. Può andare anche oltre, anche a ciò che hanno escogitato gli altri in pensieri ed opere e al cammino comune compiuto in un luogo e tempo determinati. Per esempio quello degli italiani nella loro patria o assieme ad altri popoli in Occidente. Ma sempre riga rimane.

La conclusione la poesia non la dice, ma l’addita. Perché deriva dalle altre due. Se il futuro è “riga”, basta piegarla. Affinché, come dice il TAO, “allontanarsi significhi tornare”; simile a quel che ha detto Hegel: “L’andare innanzi è un tornare indietro, al fondamento, all’originario e al vero, dal quale ciò con cui si è cominciato dipende ed è, di fatto, prodotto”. Perché, come ha detto Goethe, “Più si conosce e più si sa/ tanto più si riconosce che tutto in circolo ruoterà”.
Dietro, infatti, solo così sono le righe: piegate, arcuate, a tornanti. Il cielo è concavo, i corpi celesti sono tondi, la donna è curve e circonferenze innumerevoli. E la stessa cosa sarà davanti.

Piegare la riga, torcerla, finché non ritorna dove è cominciata, questa è la soluzione del problema: cosa più facile da dire, però, che da fare. Io ci ho messo cinquant’anni per riuscirci e ho dovuto superare prove immani: uscire la Labirinto, attraversare l’Abisso, scoprire il segreto della Porta per poterla aprire, e attraversare quella soglia, e mi ha aiutato il Cielo. Ma non sarei ugualmente riuscito nel mio intento se non c’era la filosofia, tutta quanta, dalla sua Aurora avvenuta venticinque secoli fa nell’antica Grecia Fino al Tramonto del secolo scorso e alla Notte e Mezzanotte degli ultimi decenni. Fino a tal punto mi ha accompagnato la filosofia, e le ultime orme che ho seguito sono state quelle di Schopenhauer, Nietzsche, Heidegger, Freud, Jung, Jünger. Poi per il superamento dell’ultima parte, dalla Mezzanotte in poi, dove provando a scendere per poi risalire non si trova il fondo, ho fatto tutto da solo usando lo stratagemma che mi ha dato la filosofia, ponendo la traccia di quel Ponte sospeso sull’Abisso che potrebbe diventare un capolavoro della conoscenza umana.
In tal modo la riga si è incurvata, è diventata un arco e un cerchio, e “in una circonferenza fine e principio stanno assieme, sono lo stesso”.
Ma questa è una lunga storia ed io mi fermo. Dico soltanto che anche la via della conoscenza che appariva diritta, ora non lo è più. Ma questa è ancora cosa segreta e nascosta, quasi nessuno ancora la sa.