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Oltrepassare Severino 1

21 ottobre 2011

Tiziano Vecellio, Sisifo (1548-49)

Partito dall’idea che ente ed essere non sono distinti e separati – ciò che è in Parmenide, per esempio –, con la conseguenza che ogni uomo è un Dio, anzi un “Superdio”, e il dio delle religioni viene cancellato, Severino ha poi speso il suo insegnamento a sostenerla, svilupparla, dimostrarla. Tale è la sua opera: il più grande monumento al nulla che sia mai stato scritto. E i frequentatori abituali del suo pensiero che provano ad arrampicarsi su quella allucinante struttura, immancabilmente scivolano da qualche parte e inevitabilmente si ritrovano al punto di partenza. Una nuova versione della fatica di Sisifo, insomma.
Si badi bene però: costruire un monumento siffatto è opera filosofica di grande importanza in tempi di nichilismo diventato condizione normale, tanto è vero che abbiamo sempre chiamato Severino “Re del nichilismo”. Lo dimostra anche il fatto che c’è sempre una lunga fila che va a vederla e studiarla, ma poi non resta nulla. Nulla che aiuti l’uomo dei nostri giorni a superare davvero la sua condizione.
Ciò che invece noi abbiamo fatto completando e illuminando la via dell’eterno ritorno dell’uguale (vedi Friedrich Nietzsche e l’uscita dal cerchio dell’eterno ritorno).

Vattimo e Severino: la vacuità del nulla e quella del tutto eterno

26 dicembre 2009

­Vattimo e Severino assieme, perché le loro filosofie sono diventate l’espressione dei poli opposti del nichilismo diventato condizione normale: la vacuità del nulla e quella del tutto eterno. 

Giovanni Bettolo, Il deserto dei tartari

La situazione
Mettendo assieme Vattimo e Severino, forse si può vedere il fondo del nichilismo toccato dalla filosofia ai nostri giorni.
Vattimo e la sua scuola hanno ridotto l’uomo e le strutture dove si svolgono la sua vita e il suo pensiero ai minimi termini. I risultati di tale riduzione suonano così.
− La filosofia è arrivata alla fine della sua avventura metafisica ed è diventata pensiero debole ed ermeneutica.
− Pensiero debole è la filosofia dell’oltreuomo che si è liberato dall’asservimento alle etiche tradizionali del perfezionamento e dell’obbedienza, e non è più gravato dal peso di questi ideali.
− Ermeneutica è invece il modo di conoscere che si addice al pensiero debole, un processo circolare che funziona in questo modo: l’interprete si avvicina ad un testo sempre con “pre-giudizi” e “pre-comprensioni”, da cui nasce un primo progetto interpretativo. Ma esso deve essere posto continuamente alla prova, modificando via via i “pre−giudizi” che non trovano conferma, fino a che il “testo non parla”. Si tratta di un compito certamente realizzabile ­− dice Gadamer, il maggior teorico di questo metodo ­−, però senza fine, perché ciò che vogliamo vedere nel momento del discorso è un infinito del passato e del futuro.
Mi pare che non sia difficile scorgere in questo continuo roteare della cultura che mai non si ferma, messo a punto da Gadamer, uno degli aspetti − l’ultimo −, dell’eterno ritorno; ma simile a quelli della natura, da cui non si sfugge, dopo i falliti tentativi di Nietzsche di uscire da questa cieca necessità.

Le conseguenze
Riducendo la conoscenza ad interpretazione, il rapporto della parola con l’Essere scompare. Pensare ed Essere non è più “lo stesso”. Decade quel che ha affermato Parmenide all’inizio della civiltà greca che poi è diventata Occidente: “[…] Infatti lo stesso è pensare ed essere” (Parmenide, Poema sulla natura, a cura di G. Reale e L. Ruggiu, Rusconi, Milano, 1991, fr.3, pag 11), e la storia della metafisica si dissolve.
Da questa situazione spunta la nuova idea dell’Essere. È poroso – dicono i filosofi del pensiero debole −, è contraddittorio, policentrico, fondamentalmente privo d’unicità, abbandonato al suo corso, al suo destino e alla sua destinazione. Il contrario, perciò, dell’Essere parmenideo.
Naturalmente, nel passaggio dalla precedente visione del mondo a questa c’è tutto un finire.
− Finisce il pensiero forte e gli succede il pensiero debole.
− Finisce la modernità, vale a dire il periodo che va da Cartesio a Nietzsche, e si entra nel postmoderno.
− Il postmoderno viene salutato come fine della Storia.
− Muta l’idea di Storia: non è più un percorso dotato di un indirizzo che porta ad una meta e ad un risultato, ma non ha senso, e in tal modo muta in apertura e comunicazione alle “culture altre”.

In conseguenza del distacco del pensiero dall’Essere, anche la ragione non è più quella di prima.
− Non è più centrale, ma è come depotenziata.
− È entrata nella zona d’ombra e ha preso contorni incerti, come se si fosse eclissata.

Conseguenze pratiche di questo mutamento epocale:
− L’uomo non riconosce alcun immutabile ed eterno; perciò − unico suo punto fermo (apodittico) in tanta desolazione −, alla fine non si ritrae, non oppone resistenza, ma si consegna rassegnato e vinto alla propria morte senza far motto (Qualcosa perciò è rimasto d’immutabile, immobile, eterno: è rimasta la morte. L’unica che i filosofi del pensiero debole e dell’ermeneutica non sono riusciti a cancellare). Io dico però che i più neppure ci pensano: l’hanno rimossa e quando essa arriva per gli amici e i famigliari, fanno il funerale in fretta, velocemente si tolgono di dosso abiti neri e funebri pensieri.
Da tutto ciò si può arguire che come si esce così si viene al mondo, vale a dire a nostra insaputa e senza sapere da dove. A fare cosa? Ad apparire un po’, per adempiere ai comandi della specie, per i più fortunati o i più in vista a sbarcare il lunario con la filosofia del pensiero debole ed ermeneutica, e poi sparire. Per sempre, dopo l’eliminazione d’ogni immutabile ed eterno. A meno che non si faccia d’ogni uomo un immortale così com’è, carne e ossa compresi, compito che, come si vedrà, è toccato a Severino.

Le cause di questa situazione viste dal pensiero debole
Una riduzione ai minimi termini, perciò, l’uomo e il suo mondo dopo la fine della modernità. Va però subito detto che la situazione qui descritta non è fasulla, ma quella che si vede e si tocca. In altre parole pensiero debole e ragione depotenziata rispecchiano fedelmente l’uomo che abbiamo spesso sotto gli occhi ai nostri giorni e che occupa tanta parte della scena pubblica.
Il letterato sulla cresta dell’onda, assiduo frequentatore dei salotti della TV dove le chiacchiere non si contano.
L’inquilino della casa del Grande fratello, e c’è chi partecipa, chi lo desidererebbe tanto, e innumerevoli che guardano curiosi ed eccitati, come dal buco della serratura.
Le star dell’Isola dei famosi.
Il politico che muta in pornopolitico e cocainomane.
Le indossatrici anoressiche delle sfilate di moda.
Il cuoco che ormai è di casa in tutti i programmi di successo.
I filosofi delle tavole rotonde allestite in ogni dove.
I giocatori accaniti dei giochi a premio televisivi, che perseguono tutto il malloppo messo in palio. 
Anche se l’uomo è debole di mente, ci sono i palestrati e i Rambo che mostrano i muscoli e credono così di pareggiare il conto.
E se in tanta riappropiazione di sé qualcosa non va, se qualche difetto è rimasto anche nel postmoderno, si provvede con la chirurgia estetica.
Queste le “conquiste” e ora le cause che hanno aperto le porte ad esse. 

Per Vattimo e i suoi discepoli e colleghi che la pensano come lui, tutto ciò avrebbe un’origine: sarebbe l’eredità che Nietzsche e Heidegger ci hanno lasciato. La quale, dicono loro, è positiva: non debiti, insomma, ma crediti e vantaggi.
I vantaggi consisterebbero in ciò: non essendoci più le imposizioni espresse dalle “grandi fedi dogmatiche, dai grandi orizzonti metafisici”, “possiamo compiere delle scelte, prendere delle decisioni”. Quelle appena elencate e illustrate, per esempio, se quei tipi d’uomo ormai pullulano e sono diventati modelli per molti.

Le cause effettive
Invece sono ben altre le cause del pensiero debole, dell’ermeneutica e della condizione umana soprascritta che è l’aspetto in carne e ossa di quelle idee. Esse sono il Tramonto dell’Essere e la Notte che è discesa sulla terra dell’Occidente specialmente dopo l’età moderna; perché il pensiero filosofico che ci ha condotto lungo il Giorno, fino al Tramonto, non è più riuscito a illuminare le Ombre che si stavano addensando sempre più.
Si è continuato lo stesso, tuttavia, fino alla “linea di Mezzanotte”, ma essa ha costituito il fine corsa che è rimasto in vigore fino ai nostri giorni e solo da poco si è potuto andare oltre.
I primi segnali del declino e caduta sono stati colti ed espressi dai poeti e filosofi e poi, via via, da tutti gli altri, fino ai nostri giorni dove si discorre apertamente e continuamente di nichilismo, diventato nel frattempo condizione normale
Ecco cosa è cominciato ad accadere circa duecento anni fa, dapprima nel campo della poesia e della filosofia, e che poi è entrato nella vita pubblica e privata, lasciandoci sempre più smarriti, indeboliti, completamente succubi della morte.
È cominciato il Tramonto dell’Essere.
Hölderlin ha visto fuggire gli dèi nella “notte santa”.
Dopo il Tramonto, il primo ad affrontare le Tenebre è stato Schopenhauer.
Poi è cominciato il cammino nel Buio. 
Si chiamano esistenzialismo, nichilismo, eterno ritorno, psicanalisi, alcune di queste correnti migratorie.  
Heidegger, già avanti sulla via della Notte, ha intuito ed espresso il rapporto esistente fra l’Essere e quanto stava accadendo. Dipende dall’Essere − dalla sua posizione rispetto all’uomo, al suo cammino, al suo corso storico −, ciò che siamo nella mente, egli ha detto. E ha chiamato “epoché” le varie posizioni. Epoché l’Aurora e il Giorno radioso di venticinque secoli fa, quando è cominciata la civiltà greca; epoché il Tramonto e il suo nascondimento avvenuto ai nostri giorni.
Poi, dopo la fermata nella Notte e la perdita d’ogni limite e appoggio, il dilagare su piani interminati.

Cause presunte e cause vere a confronto
Perciò è tutto vero quel che risulta dal pensiero debole e dall’ermeneutica, ma tutto ha un’origine diversa o un nuovo senso.
− È vero che finisce il pensiero forte, ma perché si è fatto invisibile a poco a poco l’immutabile ed eterno.
− È vero che finisce la modernità, ma sempre per lo stesso motivo: perché è finito il Giorno e l’Essere non c’è più sopra l’orizzonte ad alimentare ed accrescere il pensiero. C’è anzi appassimento e depauperamento.
− È vero che la Storia non mostra più il suo corso, da che parte è diretta e dove sfocia, ma perché dopo il percorso nella luce essa si è inabissata come un fiume carsico, o è diventata come corrente uscita dall’alveo che dilaga formando paludi e morte gore.
− È vero che finisce la Storia, ma perché si è trovata di fronte alla linea di Mezzanotte, apparentemente insormontabile; e perché, in modo ancora segreto e nascosto, si è raggiunto l’inizio di essa e si è chiuso il giro. Cominciata con Erodoto nel tempo dell’Aurora della civiltà greca, finisce in un’altra Aurora, o nella stessa che ritorna dopo il superamento della Notte riuscito finora a pochi. E ora si potrebbe ricominciare nella luce di un nuovo Giorno, se l’esigua avanguardia diventerà una fitta schiera.
− È vero che la ragione non è più quella di prima, è depotenziata affermano Vattimo e i suoi seguaci, ma perché non è più collegata alla sua fonte o non c’è più contatto a vista dopo la sparizione dell’Essere. Così staccata e isolata è solo ricordo di quel che era, e si fa uso di essa in tal modo, come retaggio del passato, come eredità da spendere per la sopravvivenza, finché dura. C’è inoltre da aggiungere che da sola non era più in grado di far fronte alla grande sfida del cammino nella Notte e dell’attraversamento dell’Abisso.
− È vero, infine, che il pensiero debole ed ermeneutica, e ciò che hanno provocato sulla natura umana, sono un’eredità di Nietzsche e Heidegger, ma del loro fallimento, di cui erano consapevoli perché non sono riusciti a portare a termine l’impresa di giungere alla fine del giro eterno. “Solo un Dio ci può salvare”, ha detto Heidegger prima della morte, e Nietzsche è impazzito. Perché non è riuscito a “volere” l’eterno ritorno fino alla conclusione del giro, cioè ritornare come singolo “sapendo di ritornare” e non perché portato dall’eterno girotondo della natura e della vita, simile alla dantesca “bufera infernale che mai non resta”. Non voleva l’eterno ritorno, insomma, se fin là era portato succube e inerte; voleva lui ritornare in tal modo ma a sua scelta, secondo la sua volontà, e poteva riuscirci soltanto conoscendo tutta la strada. Solo in una “visione” simile a quelle oniriche gli è apparsa questa possibilità, ma non è stata sufficiente a soccorrerlo e salvarlo. E Heidegger non è riuscito a seguire l’Essere fino alla nuova Aurora. Perciò essi hanno sì divelto le pietre miliari dai confini della modernità e di tutta la precedente storia dell’Occidente, ma per passare e andare oltre l’uomo. Invece non sono arrivati fino in fondo, la linea di Mezzanotte li ha bloccati (Questo è un accenno al fondamentale problema della filosofia contemporanea, su cui perciò ritorneremo. Però aspetti di esso già ci sono anche nei precedenti post; e tuttavia appare ora la necessità di svilupparlo di più di porlo di più in primo piano. Ciò che faremo in un prossimo futuro).

Ma ormai il terreno era spianato, l’annuncio era squillato, la via indicata, e chi è giunto dopo o stava dietro ha seguito i primi. L’intero Occidente stava dietro, più o meno consapevole, e volto in ogni caso in quella direzione, ma non ha più trovato argini né guide. I vecchi confini stabiliti da Dio, dall’anima immortale, dalla ragione, dalle leggi della natura, dalla Storia ideale eterna, dalla conoscenza filosofica, si erano dissolti o giacevano come ruderi. Solo il deserto dei tartari aldilà, e questa è l’attuale condizione dell’uomo occidentale. 
Non positiva, perciò. Non è un passo avanti sulla via della conoscenza, una nuova forma d’emancipazione, ma la conseguenza d’avvenimenti e mutazioni epocali e della sconfitta subita, di cui si stanno portando le conseguenze nella mente.
− In conclusione, una filosofia quella di Vattimo che corrisponde alla posizione attuale dell’Essere, alla sua Epoché, e all’attuale situazione dell’Occidente perduto nel Buio. Come il sole dopo il tramonto o come un fiore che si chiude nella notte, l’Essere non appare e così la parola è staccata dalla sua fonte. Non si vede più e per Vattimo non c’è più, e il suo discorso si svolge nella Notte. Il quale, come lui stesso ha affermato, è diventato “chiacchiera”, e per distinguerla da quelle delle comari l’ha definita “dotta”. Ma essa non muta la sua natura se gli si mette un aggettivo di sostegno accanto: non nasce un’aquila da un topo.

L’apporto di Severino al nichilismo diventato condizione normale
Qui giunti però non è finita, perché c’è anche Emanuele Severino in questo gioco.
Ma cosa c’entra lui con il pensiero debole dal momento che è l’unico paladino − si dice − del pensiero forte in questi tempi avvolti dal nulla? Perché anche lui non si trova in altre terre e in altri cieli, ma solo sul polo opposto dello stesso sistema. Su quello positivo, Vattimo sull’altro.
Perché Severino ha ingessato l’uomo così ridotto, ecco la risposta.
Perché, alla fine dichiara immutabile, immobile, eterno, l’uomo del nichilismo. L’ha reso così attribuendo ad ogni presente sulla scena del mondo − e se non c’è, è dietro alle quinte ma riapparirà −, i caratteri dell’Essere, vale a dire eternità, immobilità, immutabilità; e l’Essere della filosofia − ma anche il Dio del mito, della religione, dei misteri, della sapienza − è stato solo illusione e inganno; solo chimera, araba fenice, fata morgana. Anche l’Essere di Parmenide, anche il Logos d’Eraclito. 
Qual è, allora, la vera parte di Severino nel nichilismo diventato condizione normale?
È il sigillo che egli imprime sull’uomo dove sta scritto: “sei uguale a Dio”, “sei più di Dio”.
A questo punto tutto torna: ora c’è anche il sigillo del suo contrario su quel nulla, la faccia beffarda del “tutto eterno”.
Il vuoto dell’uomo postmoderno, Severino l’ha immortalato: ecco la vacuità del tutto eterno.

È tutta la potenza del nulla che si dispiega nella sua filosofia.
Si scruta il nulla quando si scorrono le innumerevoli pagine scritte dal filosofo di Brescia.
È una finestra sul nulla la sua immensa opera.
Forse ci rimarrà male Severino a vedersi così girato e capovolto, però il suo valore, io credo, rimarrà invariato. La sua capacità di parlare del nulla all’infinito non è impresa da poco, ma quella di un titano del pensiero. Ed è comprensibile perché, nonostante sia l’apologeta di quel niente, sia affascinante il suo inesauribile racconto.

Il fare di necessità virtù: la gestione del nichilismo
Dapprima il nichilismo lo si è subito: vedi il periodo delle guerre mondiali, dei campi di sterminio, della strategia del terrore atomico e nucleare in cui per la prima volta nella storia umana la sopravvivenza dell’umanità è stata posta in gioco dai suoi stessi rappresentanti.
Poi si è tentato di superarlo, vale a dire di passare oltre la linea di Mezzanotte, l’impresa su cui si son messi i grandi del secolo scorso, e io ne ho nominati due: Nietzsche e Heidegger. Ma quel tentativo non è riuscito, o solo in parte: arrivo sulla linea di Mezzanotte e progetti e speranza per andare oltre.
Altro non rimaneva allora che tentare di gestirlo.
Una gestione del nichilismo, la filosofia di Vattimo, mimetizzandoci, scomparendo il più possibile alla vista, assemblando razze, culture, religioni, diventando piccoli, inutili, insignificanti, come per sfuggire ai comandi che non ci vogliono così e che hanno fatto grandi molti uomini del passato.
Quelli che ha sentito Socrate, che agiva seguendo le parole del Demone e le ha ascoltate anche quando l’obbedienza gli è costata la vita. Il seguire virtù e conoscenza che ha spinto Ulisse oltre le Colonne d’Ercole. Poi gli innumerevoli uomini cui non è stato affermato che sono divini o deboli e combattono per superare i loro limiti, per aumentare la loro libertà, per strappare alle tenebre la conoscenza di se stessi.
Una gestione del nichilismo, la filosofia di Severino, con l’uomo in carne e ossa ingigantito come nel gioco delle ombre. Anzi nella veste di Giove tonante e ancora di più, perché l’ha chiamato “Superdio”.
Ma davvero dovremo rimanere così per sempre?
Sì, dice Severino. Costretti a essere dèi in quel modo, ognuno un dio.
Nella debolezza, dice Vattimo, anzi ancora più giù di quanto siamo oggi. Perché quella del “pensiero debole” è la migliore situazione possibile, la meno impegnativa, quella che lascia aperte tutte le porte e tutte le combinazioni
Ora io invece mi chiedo: quanto potrà durare una gestione così fondata?
Quanto ci vorrà ancora per passare dalla palude alla morta gora?
Per quanto potranno suonare ancora le sirene del nichilismo, prima che il nulla nella cultura si estenda anche alla natura, all’uomo in carne e ossa, corrompendolo completamente?
Perché non si supera il nichilismo riducendo l’uomo ai minimi termini: soluzione Vattimo.
Né allettandolo con il titolo di Superdio: soluzione Severino.
Ma solo se si attraversa l’Abisso e si passa in altre terre e altri cieli lo si lascia alle spalle (Sull’argomento, vedi anche Le altre facce del nichilismo).

P.S.
Se la “linea di Mezzanotte” fosse rimasta insuperabile e perciò l’accesso al Giorno dell’Essere impossibile, andrebbero bene l’illusione d’essere divini, il pensiero debole e l’ermeneutica, anche se quest’ultima è il supplizio di Sisifo in veste postmoderna. Si farebbe di necessità virtù, o sarebbero una pietosa bugia per addolcire un po’ la segreta sconfitta. Qualcosa come la favola La volpe e l’uva acerba, insomma. Perché, dunque, sono i risultati di un fallimento il pensiero debole, l’ermeneutica e il superdio. 
Invece è accaduto qualcosa di nuovo rispetto a questa posizione cui ormai si stanno adattando i più: il blocco sulla linea di Mezzanotte, in direzione del nuovo Giorno, non è stato completo. Qualcuno è riuscito a passare e ha cominciato a raccontare cosa c’è dopo. Dopo si arriva dall’altra parte dell’Abisso, dopo c’è la coincidenza degli opposti, la Fine della Storia che s’incontra con il suo Inizio. Dopo c’è la possibilità per l’Occidente di risorgere dalle ceneri della morale, della conoscenza, della dignità, del valore e della nobiltà in cui è caduto. 
E ora? Ora queste cose le diciamo e per fortuna abbiamo trovato il modo di renderle pubbliche, via Internet, perché altrimenti non sarebbero arrivate sulla scena pubblica.
Oggi, invece, con questo nuovo mezzo di comunicazione e di diffusione, le nuove idee sono andate in rete, e nonostante il recente inizio e i quasi ignoti autori, ci sono già migliaia di visitatori. Se continueranno a sostenerci, se si moltiplicheranno, La via d’uscita dal nichilismo non rimarrà più quasi deserta e fuori mano. L’Occidente raggiungerà l’Oriente e diventeranno una cosa sola per molti, e non soltanto per la sparuta avanguardia che ha già visto.
Allora, nella Luce che non tramonta mai, una nuova civiltà nascerà sulla terra e comincerà da quel punto il suo cammino.
Com’è già avvenuto nella Grecia antica venticinque secoli fa.

Le altre facce del nichilismo

5 luglio 2009

Dopo l’Eternismo di Emanuele Severino, Il pensiero debole di Gianni Vattimo e l’ermeneutica


Rispetto all’avventura che si è fisicamente e mentalmente conclusa dopo cinquant’anni dal suo inizio, e che ora sto raccontando, un’avventura che mi ha visto compiere il giro dell’eterno ritorno ad occhi aperti e mente sveglia, ci sono le posizioni di chi mi ha preceduto su questa via. Prima di cominciare a determinarle, è necessaria però una premessa per chi scopre ora queste pagine e perciò non conosce nulla del gran giro.

Maurits Cornelis Escher

Maurits Cornelis Escher

 

Ci sono due aspetti dell’avventura, uno privato e l’altro pubblico. Nel primo c’è la ricerca della chiesetta sperduta. Essa è apparsa durante una gita in montagna. Io, giovane, e la ragazza che era con me, eravamo alla ricerca della chiesetta dove sposarci e ne abbiamo vista una che sembrava quella ideale. Si trovava sopra un pendio in fiore e ci siamo affrettati a raggiungerla.
Era da poco che l’osservavo quando, stagliata nell’azzurro, ne è apparsa un’altra, quasi riflessa dal cielo, identica alla prima. Era la chiesetta sperduta ­– così l’ho chiamata fin da quella prima apparizione –, e aveva una caratteristica che ho subito colto: era il “luogo d’appuntamento perenne”. Perché – avevo pensato nei giorni precedenti quella scoperta – se l’amore è “per sempre”, ci deve essere un posto per esso che lo possa conservare così. Quello ho visto nel mattino luminoso, simile ad un’idea dell’Iperuranio platonico, e dopo cinquant’anni di cammino e instancabili ricerche l’ho trovato (Vedi L’antica via dei Miti e dei Misteri – Percorsa ora con in mano la lampada della conoscenza filosofica).
La prima chiesetta con i muri di pietre e marmi e il tetto di legno del piccolo paese del Cadore era, invece, il luogo per gli appuntamenti di una vita, quelli che, si dice, durano solo fino alla morte. Infatti, io vado ancora a visitarla seguendo le vie della terra che ormai conosco a menadito, finché sarà possibile. Poi toccherà all’altra.

L’aspetto pubblico dell’avventura è invece la via filosofica. L’ho cominciata quasi contemporaneamente a quella diretta alla chiesetta sperduta, – ricordo che avevo con me il libro di Heidegger Essere e tempo in quel soggiorno in montagna. Ma allora non c’erano collegamenti o affinità fra i due cammini, neppure li sospettavo. Invece dopo molti anni si sono incontrati e uniti indissolubilmente, e da quel punto la chiesetta e il ritorno seguendo il circolo eterno sono diventati un’unica meta. Il punto dove le due vie, prime distinte, si sono congiunte, è la linea di Mezzanotte o linea zero, raggiunta da Heidegger e Jünger verso la metà del secolo scorso.
A questo punto la via filosofica comprendeva tutta la parte diurna del cerchio, vale a dire la filosofia del Giorno, quella che va da Socrate a Hegel, poi il Tramonto dove si è arrivati circa due secoli fa, visto e descritto da Schopenhauer e poi da molti altri, quindi il cammino nella Notte fino alla “linea di Mezzanotte”. Ad essa sono giunti per primi, come ho appena detto, Heidegger e Jünger, o li ha preceduti Nietzsche che però non l’ha chiamata così.
Lì giunti sembrava però che non si potesse andar oltre: c’era l’Abisso davanti. La linea di Mezzanotte era la fine del Giorno dell’Occidente e la continuazione sarebbe diventata l’ingresso in un altro, ma era sconosciuto e imprevedibile per chi giungeva da quello appena terminato. Ancora non mostrava la sua luce, insomma, solo la tenebra della nuova Notte, e bisognava arrivare fino all’Alba perché apparisse. Perciò la fermata in mezzo al guado e la piena di Tenebra che ha invaso la nostra civiltà.

Fine corsa dell’Occidente, era scritto sulla Linea di Mezzanotte, e sembrava proprio che non si potesse andare oltre. Anche se Nietzsche il superamento di essa l’ha sognato nel La visione e l’enigma. In quell’immagine onirica c’è un pastore che con un morso stacca la testa del serpente che s’era infilata nella sua bocca mentre dormiva: era la rottura del cerchio rappresentato da quell’animale, era l’uscita dal pericolo mortale (Vedi Così parlò Zarathustra – La visione e l’enigma, Adelphi, edizione Colli-Montinari).
Anche se Heidegger ha pensato di attraversarla con un salto (“Non c’è un ponte che conduca dalla scienza [il pensiero calcolante della ‘ragione’ occidentale] al pensiero [il pensiero che rinunciando ad ogni finalità ‘costruttiva’ si pone come risposta ad una chiamata, quella dell’essere]. L’unico passaggio possibile è il salto. Il luogo dove questo salto ci conduce non è solo l’altro lato dell’abisso, ma una regione totalmente diversa”, Heidegger, Was heisst Denken? 61,II,6. “Il salto, a differenza del cammino [d’ogni cammino dell’Occidente, scientifico, filosofico, poetico…] porta il pensiero, senza ponti, cioè senza che vi sia un procedere continuo, in un altro ambito e in un’altra maniera di dire”, Heidegger, Weise des Sagens 63,95).
Anche se Jünger, da eroe di guerra com’era stato, era pronto ad offrire ancora il petto al nemico (“Dovremmo perciò farci carico di quest’accusa [di nichilismo], anziché attardarci fra coloro che sono incessantemente alla ricerca di colpevoli. Chi non ha sperimentato su di sé l’enorme potenza del niente e non ne ha subito la tentazione, conosce ben poco la nostra epoca. Il proprio petto: qui sta, come un tempo nella Tebaide, il centro d’ogni deserto e rovina. Qui ognuno, di qualunque condizione e rango, conduce da solo e in prima persona la sua lotta, e con la sua vittoria il mondo cambia. Se egli ha la meglio, il niente si ritirerà in se stesso, abbandonando sulla riva i tesori che le sue onde avevano sommerso. Essi compenseranno i sacrifici”).
Ma erano ancora soltanto sogni e desideri.

Così, davanti a quello strapiombo che affondava nelle tenebre, gli altri che son venuti dopo non hanno neppure più tentato. Hanno distolto anche lo sguardo, si sono voltati, hanno fatto dietro front, sono rientrati al campo base da cui erano partiti i solitari degli abissi. Hanno fatto di necessità virtù, insomma, convertendo e adeguando i valori tradizionali della filosofia, che dopo l’ingresso nel Buio e la Fine corsa, non potevano essere che larve di ciò che sono stati. Pensiero debole è il titolo che li raccoglie. Ecco un breve elenco di essi così trasformati e riutilizzati.

Gianni Vattimo

Gianni Vattimo

Riappropriazione
Dissolto il senso della Storia assieme con la dissoluzione dell’Essere, “ci si riappropria di essa a patto di accettare che non ha un senso di peso e perentorietà metafisica e teologica” (Gianni Vattimo, da Problemi del nichilismo [risultati del Colloquio internazionale tenutosi a Trieste nell’ottobre 1980, relazione di Gianni Vattimo], Edizione Shakespeare & Company, pag. 123).

Convertibilità della verità
Dissolta la verità che si fondava “sulla convinzione che l’uomo possa conoscere le cose in se stesse, il che però si rivela impossibile giacché appunto l’analisi chimica del processo della conoscenza rivela che questa non è altro che una serie di metaforizzazioni: dalla cosa all’immagine mentale, dall’immagine alla parola che esprime lo stato d’animo dell’individuo, e da questa alla parola imposta come la parola giusta dalle convenzioni sociali, e poi di nuovo da questa parola canonizzata alla cosa, della quale percepiamo solo i tratti più facilmente metaforizzabili nel vocabolario che abbiamo ereditato…” (Gianni Vattimo, La fine della modernità, Garzanti 1991), nient’altro rimane che la verità debole, un gioco, dunque, ininterrotto e di rimando fra metafore; fra spettri continuamente cangianti.

 

 

 

 

 

Adeguamento alla nuova situazione
Alla mancanza di fondamento per esempio, perché “l’uomo riconosce esplicitamente l’assenza di fondamento come costitutiva della sua condizione” (Gianni Vattimo, La fine della modernità, Garzanti 1991, pag. 157). Perciò anche il cammino (An-denken) del pensiero, dove Heidegger ripercorre “i grandi momenti della storia della metafisica quali si esprimono nelle grandi sentenze di poeti e pensatori” (Ivi, pag. 127), non è per Vattimo un semplice lavoro preparatorio “che dovrebbe servire alla costruzione di un’ontologia positiva successiva. Il rammemorare come ripercorrimento dei momenti decisivi della storia della metafisica è la forma definitiva del pensiero dell’essere che c’è dato realizzare” (Ibidem).

 Metamorfosi dell’Essere
Era verità per i sapienti che l’hanno visto in faccia; era perlopiù immagine di cosa vera per i filosofi che hanno visto come in uno specchio o come luce riflessa, e si è dissolto per il Pensiero debole. La sua scomparsa sotto l’orizzonte per Vattimo e i suoi numerosi seguaci è diventata definitiva e totale, come se prima fosse solo illusione.

Metamorfosi della realtà
Dopo che i capisaldi come il Vero, Bene, Bello valori supremi che imprimevano alle apparenze il loro sigillo –, sono stati divelti da Nietzsche, con lo scopo di passare oltre l’uomo razionale per arrivare all’oltre uomo, anche il resto è crollato. E si parla perciò d’indebolimento della realtà e di derealizzazione del mondo; o anche d’esperienza fabulizzata della realtà, dopo che “Il mondo vero è diventato favola” (Gianni Vattimo, Problemi del nichilismo, Edizione Shakespeare & Company, pp. 122-123), e tal esperienza è diventata l’unica possibilità di libertà (Dovrebbe apparire perlomeno strano ai filosofi del pensiero debole e dell’ermeneutica che tutto quel fracasso sia accaduto per nulla. Strano che non abbiano riflettuto sul fatto che se la meta era illusoria o impossibile, anche la strada che conduceva ad essa non poteva essere d’altra natura, quindi illusoria o impossibile anch’essa. Invece le macerie della via sono rimaste, e ciò che stupisce è che quei filosofi le hanno considerate buone, valide, ne hanno fatto oggetti di studi e di discussioni; mentre hanno invece negato la meta a cui doveva condurre la via. Si doveva invalidare anch’essa, insomma: il tutto e non solo la parte che sottende il tutto. Perciò è la via del nulla che hanno eretto a pietra miliare e a monumento i filosofi post moderni. Incredibile situazione. Adoratori del Vitello d’oro Vattimo e compagni).
Qui giunti, – dicono i filosofi del pensiero debole – non bisogna però cadere nel trabocchetto di voler ristabilire un mondo vero ricorrendo ad altri valori; voler cioè attribuire “alla favola l’antica dignità metafisica (la gloria) del mondo vero” (“Un rischio” scrive Vattimo “ben presente nel nichilismo contemporaneo. Penso ad esempio a certe pagine di Differenza e ripetizione di Gilles Deleuze sulla glorificazione dei simulacri e riflessi… alla rivendicazione – patetica, metafisica – d’altri valori [per esempio: i valori delle culture marginali, delle culture popolari, opposti a quelli delle culture dominanti; l’eversione dei canoni letterari, artistici, ecc.], Ivi, pag. 120).
Anche perché se esso era tale in rapporto alla favola, ora che quest’ultima ha occupato il suo posto non c’è più termine di confronto né modo di distinguerlo. Questo genere di conoscenza che si è instaurato ha la sua espressione e diffusione nei mass media, specialmente nella televisione, nelle reti informatiche, nella realtà artificiale, dove più nessuno può stabilire la differenza fra ciò che è vero e quel che è soltanto simulato. Ci possono essere le parole di commento che dicono: questo è un fatto realmente accaduto, o questo è una finzione; ma chi parla può anche ingannarci, ad arte, come capita ormai normalmente, e la maggior parte non s’accorge. O se qualcuno l’intuisce, valendo ormai la legge della maggioranza, la sua avvedutezza non conta.

Si affermerà che ciò è sempre accaduto. D’accordo, però oggi è diventata una condizione normale. Questo dipende dal fatto che la verità, quando c’era il Giorno dell’Essere, non risiedeva tanto nelle parole che nominano le cose, le distinguono, le numerano, le collocano, ma nella Luce illuminante di cui esse erano lampade che s’accendono. Anche perché una cosa può presentarsi di volta in volta con aspetti diversi e diverse sono le parole che si usano per essa. Per esempio la pioggia è una manna quando piove sul secco e spuntano le piante e i fiori, ma è malefica quando esagera e fa straripare i fiumi; e perciò dipendeva dal Cielo l’esattezza e la certezza del dire. Per questo motivo, dopo il Tramonto, dopo che l’Essere è sparito sotto l’Orizzonte, – dopo la sua dissoluzione, dicono i filosofi del Pensiero debole –, si proclama la libertà per tutti e per ogni dove in Occidente, come se non ci fossero più limiti. Ma si tratta soltanto di sparizione dei confini del vecchio ordinamento e conseguente caduta nel marasma, il nome del nuovo caos.

Metamorfosi della filosofia
“Dissolto il mondo nel conflitto delle interpretazioni, non c’è più un’anima deputata alla conoscenza, ma un’anima come discorso che fa essere le cose per quel tanto che ne discorre e per il tempo che il suo discorso ha potenza, cioè s’impone, fa storia” (Umberto Galimberti, Gli equivoci dell’anima, Feltrinelli 1994).

Metamorfosi della morale
Nell’indebolimento e scolorimento generale essa diventa etica del finito (vedi Salvatore Natoli, Progresso e catastrofe, Christian Marinotti edizioni, Milano 1999) o etica del viandante (vedi Umberto Galimberti, Psiche e Techne, Feltrinelli 1999). Nel commento che ha scritto Galimberti al libro di Natoli, dove la morale è così definita (la Repubblica, 24 dicembre 2004), ciò non significa “vivere alla giornata, ma dominare la contingenza, fronteggiare il caso. Il futuro d’oggi – egli continua –, non è più quello lontano della religione dove alla fine si realizza quello che all’inizio era stato annunciato, e neppure quello utopico della modernità alimentato da quell’idea di progresso che era insieme riscatto dell’umanità, ma è il futuro del giorno dopo, un futuro breve e indeterminato. Questo è il futuro del terzo millennio che, ci piaccia o no, è comunque necessario saper anticipare per poterlo abitare”.

 

 

Metamorfosi dell’oltreuomo
Anziché superamento del confine nei modi descritti da Parmenide e Nietzsche e ingresso in un nuovo Giorno, c’è il dissolvimento del confine e la scomparsa del piano di sopra. Solo Tenebre interminate, nichilismo compiuto, fuori delle protezioni dell’Occidente. Deserto dei tartari al di là, dopo l’ultima fortezza. E oltreuomo diventa allora l’uomo sul confine del nulla. Ecco perché per il pensiero debole “L’oltreuomo è il superamento dell’uomo costruito secondo i canoni dell’immutabilità”. Ecco come si è ovviato allo scacco del superamento dell’Abisso che s’apriva dopo la linea di Mezzanotte: rendendo l’uomo mutevole e vano.

Metamorfosi dell’uomo rispetto al suo destino ultimo
“L’uomo generato dall’anima platonica amica delle idee immutabili ed eterne, ha abitato l’Occidente come sua patria; il suo superamento è allora il superamento dell’umanità storica, l’estremo ribaltamento della cultura occidentale, il cui progresso è sempre stato da un immutabile ad un altro immutabile, e mai nel congedo degli immutabili. Rispetto a questo tipo d’uomo, l’uomo del superamento non riconosce alcun immutabile, e perciò si consegna alla propria fine”. Un capovolgimento dell’oltreuomo di Nietzsche è l’uomo del superamento del Pensiero debole (da questo punto in avanti, ciò che si aggiunge, se qualcosa si può ancora aggiungere, non è più filosofia, specialmente se si tiene conto del significato del suo nome – filosofia vuol dire amore della sapienza ­–, ma è fine della filosofia).

Ermeneutica come conseguenza inevitabile
Cioè un eterno rimuginare e reinterpretare tali idee. “Se la verità era l’orizzonte che delimitava le ricerche dell’anima, l’abolizione della verità rende quest’orizzonte senza confini e inaugura quella figura dell’anima che si esprime in un’apertura di senso dove ha luogo una circolazione infinita di significati. Questa circolazione infinita non apre le porte all’arbitrio e, portata al limite, all’insignificante, perché d’epoca in epoca la volontà di potenza, nel gioco che espone, rivela le regole che pongono in essere un mondo e consentono di leggerlo, anche se il gioco giocato non esaurisce la polisemia del gioco, non dà fondo a tutti i giochi possibili che restano custoditi nell’anima come una possibilità” (Umberto Galimberti, Gli equivoci dell’anima, pp. 272-273). Una rovina circolare perciò la ragione, rimasta isolata e spenta, diventata labirinto di ripetizioni illimitate e vicoli ciechi.

Ecco elencate le principali caratteristiche del Pensiero debole e dell’Ermeneutica, simili a postumi di un’impresa sovrumana che non è giunta a conclusione. Ed ora sono diventate norme e leggi, perché Vattimo a questo punto è solo uno dei nomi di spicco del ricupero di una tradizione ridotta e svalutata. Non è stato il solo, in altre parole, che ha preso la facile via del rientro e che ha portato alla ribalta una comoda debolezza, un dolce cullarsi fra le palme dorate di una vacanza dello spirito alle Bermuda, ma un capofila di una schiera che è diventata via via folla. Perché Pensiero debole ed Ermeneutica sono stati oggetti di convegni e tavole rotonde, pubblicati in innumerevoli libri, codificati in riunioni d’esperti, diventati operativi in un pullulare di mode e modi di vita. Anzi sono ormai diffusi quanto la democrazia, perché quel pensiero è diventato condotta di vita di tutti i democratici; per i quali è regola comune e generale che ci sono solo opinioni, e vince di volta in volta quella che viene votata dalla maggioranza. E i filosofi deboli hanno tratto questo vantaggio: di corrispondere perfettamente alla situazione esistente, anzi d’essere i battitori ed araldi di essa e di continuare ad incarnarla. Perciò anche sfruttando l’occasione, cosa non di poco conto, visti i compensi e onori che vengono corrisposti a chi si presenta democratico a tutto campo e portavoce dell’opinione pubblica. Perché solo di ciò si tratta: la democrazia è il trionfo della doxa. Un livellamento che è un acquietaménto e stasi della natura – quell’umana in questo caso –, com’è già accaduto in altre ere alle piante e agli animali che si sono bloccati e spenti.
E la filosofia dei nostri tempi, che dovrebbe indicare e guidare, è diventata spettrale avamposto sul confine del nulla. Cumuli di pietre, templi abbandonati, tracce di una sconfitta, nuove Colonne d’Ercole per la disperata umanità.
Bisogna però prendere atto che il nichilismo non è solo la situazione che ho appena descritto. È anche una condizione, un fatto naturale dipendente dalla scomparsa dell’Essere, come c’è la notte dopo il tramonto del sole. Inoltre se la Tenebra ha invaso il cielo più alto, la stessa cosa non è accaduta più sotto. Anzi gli uomini lì si sono dati da fare di più che nel passato, quasi a compensare le perdite. Similmente una giovinetta lenisce un po’ le pene di un amore finito comprandosi un vestito, o una crema contro la cellulite. Tutto è spianato e levigato sul piano delle apparenze, tutto è spettacolo. Se manca la principesca apparizione dell’uomo, come contraltare trionfa la corporeità esaltata dalla chirurgia estetica, dalle macchine delle palestre, dalle sfilate di moda con abiti sempre più esigui e velati. Ordine e organizzazione sono le caratteristiche del nuovo dominio, che tanti chiamano conquiste, virtù, progresso, meraviglie del post moderno. Tanti stanno nel nichilismo diventato condizione normale come nel paese di Bengodi o nel Luna park, almeno finché non s’avvicina l’ora di chiusura.

In questa costruzione eretta a dominio ed estesa su tutta la terra, io finora ho aperto solo un pertugio. Qualcosa di simile ai passaggi sotterranei che hanno tutti i castelli e città murate, perché nonostante gli uni e le altre siano stati costruiti con i crismi della lunga durata e dell’inespugnabilità, di un passaggio segreto si è sempre pensato di dotarli. Non si sa mai, insomma. Vige sempre l’imprevedibile nei disegni della Terra e forse anche in quelli del Cielo. Ecco allora come stanno le cose: dopotutto il nichilismo è solo il nulla di là delle mura e delle protezioni; e sta anche sotto, sotto le fondamenta. Ma basta non voler uscire, non alzare troppo gli occhi, non voler sporgersi oltre il campo della ragione massificata, e tutto torna: tutto quello che si esplica nell’ipocrisia, nel buonismo, relativismo, nel politicamente corretto, nel mondialismo, nel globalismo, nel fariseismo, che non persegue una destinazione trascendentale o trascendente ma solo una sicura posizione dentro il recinto, occupando in esso i posti più in vista. Regno dell’anticristo, ha chiamato questo stato Jünger, quello previsto prima dell’Apocalisse.

P.S.
Anche se non c’è ancora traccia nella filosofia dei convegni e delle tavole rotonde, nei blablà dei salotti mondani, nei libri curati normalmente dai filosofi di grido, anche il tratto che va dalla Mezzanotte alla nuova Aurora è stato possibile percorrerlo. Superando l’Abisso perciò: ciò che era richiesto per ritrovare la chiesetta sperduta e per giungere alla fine del cerchio dell’eterno ritorno.
Ed ora quella Luce illumina anche la parte di noi che era oscura e misteriosa, ed appare in modo chiaro e distinto quel che era solo intuito o sognato, o da cui si era avvinti in modo improvviso e inaspettato, come nell’angoscia e nell’amore. Si vede la notte della vita, quella che va dalla morte alla nascita. Si vede la metà misteriosa di noi stessi, che solo in qualche occasione e in momenti eccezionali c’era dato di avvertire, per cui normalmente si è soltanto un volto ed una direzione stabilita e fissa. Si vede perciò, in generale, la coincidenza degli opposti.
In quanto a me, che cercavo la chiesetta sperduta, l’ho trovata. Ed ho trovato la fine del pensiero filosofico iniziato venticinque secoli fa nell’antica Grecia, e la fine coincide con l’inizio. Nata dalla sapienza, la via è ritornata alla sapienza dopo un immane giro sulla terra e nel pensiero. Di ciò si dirà ancora.

Il vero volto del nichilismo

31 Maggio 2009
Nietzsche ritratto da Munch (1906)

Nietzsche ritratto da Munch (1906)

La via d’uscita dal nichilismo è il titolo del nostro blog. Ma per riuscire nell’impresa, peraltro già compiuta da un’esigua avanguardia, è necessario vedere bene ciò da cui bisogna uscire. È necessario guardarlo in faccia, a viso scoperto, perché il nulla per apparire è sempre mascherato. I suoi travestimenti sono tanti. Ne cito alcuni fra i più subdoli, perché sembrano indicare il suo contrario: nella filosofia l’Eternismo di Emanuele Severino e il Pensiero debole di Gianni Vattimo; nella società dei nostri giorni, il relativismo, il buonismo, il multiculturalismo.

Su ciò che è già apparso nel nostro blog, la vera identità del nichilismo tuttavia c’è, ma forse non è ancora chiara e distinta, o non è isolata rispetto al resto per cui fa solo capolino nel totale e si confonde con esso: un buco nero in mezzo ad altre cose. Andiamo perciò a fare zoom per rilevare la sua natura più profonda.

Cos’è davvero il nichilismo?
Si chiama tramonto del giorno e poi notte la luce del sole che pian piano svanisce e poi scompare seguendo la fonte che l’ha generata; e ha nome tramonto dell’Occidente e poi nichilismo anche la luce dell’Essere che compie lo stesso giro e si scioglie e scompare nello stesso modo. Sembra anzi che le due siano una sola e che muti soltanto il nostro modo di guardarla: il sole con gli occhi di carne che abbiamo sulla faccia, l’Essere con quelli della mente se sono aperti e funzionanti.
A questo punto sorgono però difficoltà e limitazioni: perché mentre la luce del sole tutti la vedono – sono esclusi solo i ciechi dalla nascita –, per l’altra s’invertono le parti. Solo pochissimi l’hanno colta e colgono con sensi che assomigliano alla vista, gli altri non hanno ancora occhi che si aprono o riescono a sostenerla. Oppure quella luce appare loro solo riflessa sul mondo e le sue cose, e in tale veste si chiama ragione e così viene usata normalmente. Ma di essa non conoscono la provenienza e perciò non sanno davvero cos’è.

Oltreché da pochissimi, l’Essere è stato visto soltanto in momenti particolari: nell’Aurora di venticinque secoli fa, e nello spazio aperto da quella luce è sorta la civiltà greca, diventata poi Occidente; poi nel Tramonto della stessa, le cui prime avvisaglie si sono fatte sentire circa due secoli fa.
Hanno visto l’Aurora i sapienti che hanno preceduto i filosofi, Eraclito e Parmenide i più acuti. Hanno percepito l’Essere nel Tramonto e l’hanno seguito nella Notte in molti: poeti, scrittori, filosofi. Hölderlin, Schopenhauer, Leopardi, Nietzsche, Spengler, Freud, Kafka, Mann, Benn, Freud, Heidegger, Jünger, alcuni dei più grandi.

Il Tramonto dell’Essere ha posto fine alla filosofia del Giorno, quella che va da Socrate a Hegel, e ha aperto il cammino della Notte. Quest’ultimo l’ha iniziato Schopenhauer; Heidegger e Jünger sono giunti fin sulla linea di Mezzanotte o linea zero. Poi il passaggio sopra l’Abisso e l’arrivo sull’altra sponda, dove ha inizio il nuovo Giorno, ma questa è ancora notizia appena sussurrata.
Nello spazio luminoso che s’apre dopo la Tenebra dovrebbe cominciare una nuova civiltà se molti riusciranno ad attraversare.

P.S.
La più subdola forma di nichilismo, perché mascherata nel suo contrario, l’ha inventata ai nostri giorni Emanuele Severino, il filosofo di casa nostra tanto lodato e premiato. Essere, per lui, anziché il Giorno illuminante visto da Parmenide nell’Aurora di venticinque secoli fa, e da Heidegger ed altri nel Tramonto, è diventato il mondo e le sue cose. Prima, invece, era soltanto “ciò che appare ai mortali”, illuminato da quella luce diurna.
Per riuscire in quest’intento, Severino ha operato così: ha tolto all’Essere le sue determinazioni, vale a dire eternità, immutabilità, immobilità, e le ha assegnate, appunto, al mondo. Così dell’Essere non è rimasto nulla. La morte di Dio, gridata da Nietzsche più di cent’anni fa, ha ricevuto per sua mano il sigillo della filosofia accademica.
Il risultato si chiama nichilismo diventato condizione normale.

Le candele di Kavafis

19 aprile 2009

Kostantinos Kavafis, Candele

Stanno i giorni futuri innanzi a noi
come una fila di candele accese
dorate, calde e vivide.

Restano indietro i giorni del passato,
penosa riga di candele spente:
le più vicine danno fumo ancora,
fredde, disfatte, e storte.

Non le voglio vedere: m’accora il loro aspetto,
la memoria m’accora il loro antico lume.
E guardo avanti le candele accese.

Non mi voglio voltare, ch’io non scorga, in un brivido,
come s’allunga presto la tenebrosa riga,
come crescono presto le mie candele spente.

Kostantinos Kavafis

Kostantinos Kavafis

Kavafis espone in questa sua poesia, in modo mirabile, l’idea del tempo lineare.
Cos’è il tempo lineare? È una linea, anzi un segmento più o meno lungo, che molto bene si adatta a ciò che fisicamente siamo: un corpo fra gli innumerevoli altri che costituiscono il mondo, che si muove nello spazio e nel tempo per un po’. Adattata a noi, quest’idea del tempo, più che ad un segno diritto assomiglia ad uno curvo, perché per noi c’è un inizio – la nascita –, una crescita fino ad un punto che possiamo chiamare zenit e poi un declino fino alla scomparsa. Gli antichi chiamavano il punto più alto “l’età del fiorire” e lo collocavano attorno ai quarant’anni. Dante si è trovato nella selva oscura “nel mezzo del cammin di nostra vita”, ed aveva trentacinque anni quando gli è accaduto.
Questo tempo lineare richiede, dunque, che ci sia un inizio, uno svolgimento, e poi una fine improvvisa, o anche differita ma ineluttabile. La fine ha un nome noto a tutti: morte.

Ecco perciò il tempo della vita, com’è vissuto e conosciuto dalla stragrande maggioranza degli uomini: non si sa da dove si viene, si ignora dove si va, e se non si conosce di noi stessi l’inizio e la fine, incomprensibile è anche il tratto dove s’accende la vita e la coscienza, sia pure in modo intermittente anch’esse, perché la veglia, per esempio, è interrotta dal sonno e la coscienza dall’inconscio.
A questo punto, tutto ciò è espresso dalla poesia di Kavafis. “I giorni futuri stanno innanzi a noi/ come una fila di candele accese/ dorate, calde e vivide./ restano indietro i giorni del passato,/ penosa riga di candele spente.”
C’è la vita e la coscienza del poeta in questa visione, e da questa precarietà e indigenza prorompono le parole nei modi del sentimento. C’è l’angoscia, il suo accorarsi ripetuto: per l’aspetto delle candele appena superate, “fredde, disfatte e storte”; per quelle ancora più indietro di cui ricorda “il loro antico lume”. E non vuole voltarsi per non vedere, per non scorgere, “in un brivido,/ come s’allunga presto la tenebrosa riga,/ come crescono presto le candele spente”.

Ma davvero questo è il tempo, o solo così: vale a dire un segmento o arco fatto di minuti, ore, giorni, mesi, anni, che si srotola sulla vita e misura la sua lunghezza?
A guardar fuori di noi non è così. Fuori non ci sono segmenti e archi di tempo, ma cerchi completi. Quello della terra attorno al sole, le fasi della luna, i cicli delle stagioni. Inoltre tutto va e torna indietro e riprende da capo dal punto dove aveva incominciato: il seme dell’albero che cade sulla terra in autunno ed entra in essa, germoglia in primavera, diventa pianta, ritorna seme.
Sembra facciano eccezione gli animali. Il gatto amato e coccolato non c’è più, dice la sua proprietaria con le lacrime agli occhi. È morto, ed è come se fosse sparito un essere umano per sempre. Ma ci sono poeti e filosofi che non condividono l’idea della scomparsa eterna.

Nell’Ode ad un usignolo John Keats ha scritto che l’uccello che ha udito in un giardino di Hamstead, all’età di ventitré anni, in una notte del mese d’aprile del 1919, è lo stesso che nei campi d’Israele, un’antica sera, udì Ruth la moabita. Non un altro usignolo, dunque, ma lo stesso dopo migliaia d’anni: l’eterno ritorno dell’usignolo, uguale all’eterno ritorno del giorno, delle stagioni, delle costellazioni.

Non diversamente da Keats, Schopenhauer, nel secondo volume di Il mondo come volontà e rappresentazione, al capitolo 41, ha espresso l’identica intuizione: “Chiediamoci con sincerità se la rondine di quest’estate è un’altra da quella dell’estate passata e se realmente fra le due il miracolo di trarre qualcosa dal nulla si è verificato milioni di volte per essere smentito altrettanto dall’annientamento assoluto. Chi mi oda affermare che il gatto che sta giocando lì è lo stesso che saltava e scherzava in quel luogo trecento anni fa, penserà di me quel che vorrà, ma la pazzia più strana è immaginare che fondamentalmente sia un altro”.

La stessa cosa per Hegel, che ha ripreso quegli esempi e ha aggiunto la mitica Fenice, l’uccello che ogni cinquecento anni si costruiva un rogo per immolarsi nel fuoco e poi risorgere dalle sue ceneri: se la morte viene dalla vita che finisce, a sua volta la vita nasce dalla morte ed è sempre la stessa.

Seguito da Leibniz, che così ha formulato quel pensiero comune a tanti veggenti: “Gli animali, al contrario di quanto crede il popolo, propriamente non hanno nascita” – perciò nemmeno morte com’è comunemente intesa –, e ha fatto il caso del baco da seta dove appare chiaramente che c’è solo un passaggio rapido dalla vita di bruco a quella di farfalla. In questo caso i confini della vita e della morte sono così vicini che in certi casi basta un salto per attraversare l’Abisso. Similmente trascorre la notte e sorge il giorno, ma la notte non muore lascia il passo nella sfera di ciò che appare ai mortali.
Se le cose stanno così, allora nulla davvero segue un cammino somigliante ad un segmento o ad un arco. Nulla davvero è nuovo di quando arriva in questo mondo, né precipita e scompare per sempre alla fine del cammino. Eppure è ciò che appare e che si afferma che avviene. Cos’è, allora, che non torna, che non va?

La nostra conoscenza non va. Perché i suoi aspetti parziali e i suoi limiti, vale a dire inizio e fine e lo svolgimento lungo un arco, non appartengono alla vita ma alla conoscenza che abbiamo di essa. Vediamo, conosciamo, solo ciò che si riesce ad illuminare in modo chiaro e distinto con la luce della ragione. Allora è lei la limitata e difettosa: nella veste di candele accese nella poesia di Kavafis, ma una fila che comincia e finisce.
Invece la filosofia è continuata. Dopo il suo corso diurno, che va da Socrate a Hegel, è cominciato quello del tramonto e notturno. Il primo a partire è stato Schopenhauer e dopo circa due secoli di cammino nell’inconscio con la lampada del logos nella mano, come fanno i viandanti nella notte oscura, l’arrivo. Ma per ora solo di un’avanguardia. E l’esercito si trova ancora nella notte, anzi nel nichilismo diventato condizione normale.

Con l’arrivo, il segmento o arco diventa un cerchio.
Ed ora che il cerchio si è chiuso e la fine coincide con l’inizio? Non sembra più di perdersi: che il passato s’allontani e non ritorni più e d’esser spinti nel futuro ignoto. Inoltre, colta in un solo sguardo la rotondità della vita si può portarsi al centro, anzi ci si trova in esso. Non è la prima volta che un posto d’osservazione così viene raggiunto.
Boezio l’ha chiamato il luogo eterno e l’ha definito come il possesso totale, istantaneo e perfetto di una vita interminabile.
Da quel presente eterno, Marco Aurelio “ha visto tutte le cose: quelle che furono nell’insondabile passato, quelle che saranno nel futuro” (Marco Aurelio, Pensieri, libro VI, 37).
Thomas Eliot ha scritto di esso così: “Io posso solo dire, là siamo stati (nel punto fermo del mondo che ruota): ma non posso dire dove./ E non posso dire per quanto tempo, perché questo significa/ Collocarlo nel tempo” (Thomas Steam Eliot, Burnt Norton).
Nietzsche, raggiunta il portone carraio che ha nome attimo, ha visto dipartirsi da esso i due sentieri del tempo, il futuro e il passato: uno sempre più avanti e sempre più lontano, lungo un’eternità; l’altro all’indietro, sempre più indietro, un’altra eternità. I due sbattevano la testa l’un contro l’altro dov’era il portone, cioè nell’attimo dove s’è trovato; e ha visto, saldamente annodate l’una all’altra, arrivare e partire le cose, continuamente, eternamente (Nietzsche, Così parlò Zarathustra, “La visione e l’enigma” Adelphi).
Esso è poi il punto caro alle dottrine esoteriche che lo considerano il centro dell’equilibrio e della stabilità, perché punto mediano tra i due poli opposti. Perciò nel cuore della tempesta c’è pace, e tutto gira attorno e tutto appare.
Ma cos’è quel centro? Per la conoscenza è l’insondabile Io, ciò che ognuno dice di se stesso, continuamente, ripetutamente: Io sono, Io credo, Io vado, Io voglio, ciò che tante dottrine chiamano anche Sé, pronome che ora poteva essere usato a pieno titolo anche dalla filosofia. Perché ora l’Io aveva conquistato il centro della circonferenza che comprendeva anche il semicerchio d’inconscio che era stato annesso con il superamento dell’Abisso. Coincidenza di conscio e inconscio perciò il Sé così raggiunto dopo la conclusione dell’avventura più grande.

In tale posizione l’ha posto anche Jung a conclusione della sua ricerca della totalità dell’uomo, e il risultato cui è pervenuto l’ha chiamato, appunto, Selbst (Sé): il quale – ha detto – non va assolutamente confuso con l’Io, perché è unità di conscio e inconscio (Vedo continuamente che il processo d’individuazione viene confuso con la presa di coscienza dell’io, e in questo modo l’io viene identificato con Sé, ciò che naturalmente provoca una disastrosa confusione di concetti. Poiché in tal modo l’individuazione diventa null’altro che egocentrismo e autoerotismo. Ma il Sé comprende infinitamente di più che il semplice io… Esso è tanto l’uno o gli altri che l’io. L’individuazione non esclude il mondo, ma lo include: C. G. Jung, Von den Wurrzeln des Bewusstseins, 1954, p. 595). “Se s’immagina la coscienza, con l’Io al centro, come contrapposta all’inconscio, e se ci si rappresenta il processo d’assimilazione dell’inconscio, quest’assimilazione può essere pensata come una specie d’accostamento fra la coscienza e l’inconscio, dove il centro della personalità totale non coincide più con l’Io, ma è un punto situato in mezzo fra la coscienza e l’inconscio. Questo sarebbe il punto del nuovo equilibrio, una nuova centratura della personalità complessiva, un centro forze virtuale, che offre alla personalità, per la sua posizione centrale fra coscienza ed inconscio, una nuova sicura base” (Ibidem, pag. 133).

Non diversamente da Jung, Freud ha nutrito la speranza di riuscire a prosciugare una parte dell’inconscio, come hanno fatto gli olandesi con il mare interno, lo Zuiderzee, che invadeva le terre della loro patria. Così egli ha descritto quel proposito in parte realizzato, mi sembra: “L’intenzione degli sforzi terapeutici della psicanalisi è in definitiva di rafforzare l’Io, di renderlo più indipendente dal Super-io, di ampliare il suo campo percettivo e perfezionare la sua organizzazione, così che possa annettersi nuove zone dell’Es (in psicanalisi il termine che indica la parte non organizzata e perciò non personale dell’apparato psichico, che costituisce una riserva d’energie riguardante l’istinto e coincide con l’inconscio della psicologia dinamica e descrittiva).
Dov’era l’Es, deve subentrare l’Io. È un’opera della civiltà, come ad esempio il prosciugamento dello Zuiderzee”.
Dopo l’attraversamento della Notte, tutto ciò non è più una previsione, ma visione chiara e distinta. Il centro della personalità appare anche agli occhi guardando la figura che risulta, quella disegnata in copertina: è al centro del cerchio sulla linea di separazione fra il giallo e il grigio, che rappresentano il conscio e inconscio; e le due metà dell’intero si sostengono una con l’altra e si completano e si avvicendano. In tal modo allontanarsi significa tornare, come fa il sole quando tramonta e sembra lasciare la terra, invece si rivolge; come fa la vita che scompare e ricompare ed è sempre la stessa, e come farà il singolo quando conoscerà il suo cammino nella Notte.

In quanto a me, ora tutto il cerchio del sapere mi sta attorno perché mi trovo nel suo centro intatto dopo che ho percorso la circonferenza, e mi tengo fermo su quel punto. Dall’altro capo girano gli astri in cielo, i giorni e le stagioni sulla terra, e si ripetono ininterrotte le faccende umane.
Ma è soprattutto l’ultimo giro che m’attira, quello che ho da poco finito di percorrere, dopo cinquant’anni dalla partenza. Vedo la lunga via circolare che è stata cammino tortuoso nel labirinto, uscita da esso, attraversamento dell’Abisso, arrivo all’altra sponda, coincidenza degli opposti e poi la Porta che si è spalancata dopo che sono riuscito a svelare il segreto che la teneva chiusa, e perciò i precedenti tentativi della conoscenza sono falliti.
Ma potrebbero la giovinezza, la bellezza, l’avventura, l’amicizia, l’amore, far da esca e riportarmi in circolo. Ciò che è capitato anche agli dèi: infatti, molti non sono ritornati? Si sono incarnati, si suole dire, si sono fatti uomini, per vari motivi. Io per rivedere e riconoscere. Perciò anche senza sapere all’inizio, o dimenticando di sapere. La dotta ignoranza, direbbero ancora una volta i filosofi. M’attendo soltanto che i ricordi che troverò alla partenza siano meno enigmatici di quelli che mi sono toccati questa volta, per riuscire a far prima a percorrere l’intera circonferenza e a superare tutti gli ostacoli. Perché, dopo tutto il tempo che ho dedicato alla ricerca in questa vita, ne rimanga di più nella prossima per viverla.
E m’accorgo all’improvviso che questo è il desiderio che sta in cima.

Una poesia di Satprem*

21 marzo 2009
* ERRATA CORRIGE
Su gentile segnalazione della nostra lettrice Namaskar, provvediamo a correggere l’errore commesso attribuendo a Sri Aurobindo la poesia Siamo gli arcangeli dolorosi di un mondo che cambia che invece è di Bernard Enginger, meglio noto come Satprem, suo continuatore nel pensiero e nell’opera.

Sri Aurobindo

Sri Aurobindo

Siamo gli arcangeli dolorosi di un mondo che crolla,
siamo i figli di una nuova razza non ancora nata,
ma che vive attraverso di noi
come un vento carico di minacce e di polline nuovo.
Non sappiamo cosa vogliamo dire,
il nostro oracolo è sigillato,
i nostri sogni oscuri, i nostri segni contraddittori.
Non abbiamo la chiave,
ma siamo fermi davanti ad una nuova soglia,
a battere alla porta,
a batterla come dovette farlo nella foresta
il primo antropoide, che volle essere uomo.
E invece ci perdiamo nella rivolta,
ci perdiamo nell’orgoglio dei ricchi
o nel fascino del rifiuto.
Ci perdiamo nella seduzione del governo o dei sogni.
Ma il nostro senso non è essere vittime, né fuggire,
il nostro senso è al di là della rivolta,
Il nostro senso è bussare a questa porta,
gridare come i bambini nella notte finché la porta si apra.

È la poesia solo un modo diverso di scrivere, in versi e rime, per esempio, anziché in prosa, e solo questi aspetti sensibili costituiscono la sua diversità? Indubbiamente è anche questo, vale a dire apparenza, ma se non ci fosse anche altro che la distingue, per quella sola, per quanto bella e preziosa, non varrebbe la pena di tenerla in tanta considerazione e di occuparsi intensamente di lei, come sto facendo io su queste pagine. Invece è anche altro; è suono che sale dal profondo dov’è tenebra e mistero e ogni volta illumina e svela.

È voce del tramutare la poesia, o – come ha detto Dante – del trasumanare; come ben mi hanno avvertito alcuni segnali che si trovano lungo la via filosofica che collega la vita alla morte. Due di essi suonano così: “Soltanto la poesia segue la vita/ o gli abbraccia il collo/ come un fanciullino.” “Se non è vita la poesia/ lasciala andare./ O è voce, se vuoi, del tramutare”.

Bernard Enginger Satprem (1923-2007)

Su tale piano, di parola d’inizio e fine assieme, di vita e morte assieme, si colloca anche la poesia di Bernard Enginger, meglio noto come Satprem, che ho scelto per presentare qui un’altra figura, quella di Sri Aurobindo, suo maestro e guida.

Sri Aurobindo è nato a Calcutta il 15 agosto 1872. Nel 1879 il padre lo invia in Inghilterra, dove compie studi classici e nel 1890 viene ammesso nel prestigioso King’s College di Cambridge. Durante i quattordici anni di soggiorno in Inghilterra egli acquisisce una vasta conoscenza della cultura europea antica, medievale e moderna. Poi nel 1893 ritorna in India dove si dedicherà alla letteratura e alla politica.
Nella letteratura, che è ciò che qui interessa, egli ha illustrato la propria visione del mondo e dell’evoluzione realizzando quella che Romain Rolland ha definito “la più vasta sintesi mai realizzata tra il genio dell’Asia e quello dell’Europa”, mentre Aldous Huxley parlerà di lui come del “Platone delle generazioni future”. In quest’opera il posto preminente è occupato dalla poesia che è stata, come lo stesso Aurobindo ha affermato, il suo principale veicolo espressivo. In quanto al suo pensiero filosofico, il suo biografo lo ha condensato così: “Mentre la maggior parte dei percorsi mistici del passato portavano ad un aldilà che sboccava ineluttabilmente al di fuori della vita terrestre, l’ascesa spirituale compiuta da Sri Aurobindo costituisce il preludio di una discesa della luce e del potere dello Spirito nella Materia, allo scopo di trasformarla. Sri Aurobindo vede (proprio come gli antichi Rishi che composero i Veda) che il mondo manifestato non è un errore o un’illusione che l’anima dovrebbe rigettare per far ritorno al cielo o rientrare nel Nirvana: il mondo è la grande scena di un’evoluzione spirituale, un’evoluzione o avventura della coscienza per mezzo della quale dall’Incoscienza originaria si va sviluppando una manifestazione progressiva, in divenire, della Coscienza Divina, celata fin dall’origine o involuta nella Materia. La mente rappresenta la più alta vetta finora raggiunta dall’evoluzione, ma non è la più elevata in assoluto. L’uomo stesso, afferma Aurobindo, e soltanto un essere di transizione“.
Con queste notizie che avvicinano Oriente ed Occidente nel modo della filosofia, e che sono utili alla comprensione della sua poesia e alla traduzione di essa, mi accingo a svolgere questo compito.

Se la poesia di Satprem si colloca dove qualcosa finisce e altro incomincia, dov’è, cos’è quel punto?
È in noi, siamo noi: ma chi siamo noi?
“Arcangeli dolorosi”, recita la poesia. Quindi, in quella posizione, non uomini come siamo stati finora, ma ciò che saremo, o l’una e l’altra cosa assieme. Perché è normalmente e comunemente accolta l’idea, in chi crede nell’evoluzione, che l’angelo viene dopo l’uomo nella lunga strada di ciò che egli è stato, è e sarà. Siamo in movimento, perciò, e qui siamo colti in un tempo di trasformazione. C’è intuizione di quel nuovo stato e il poeta è già in essa e parla da quella posizione, e chi coglie le sue parole alza gli occhi, si muove a quel suono e va verso quella fonte.
Si abbandona, allora, il mondo della comune e universale concezione
. Si lasciano queste apparenze che sembrano rassicuranti a molti: c’è oggi la scienza, la tecnica, il dominio della natura, l’abbondanza di cibo. Ci sono le città, gli ospedali, case confortevoli, mezzi di comunicazione veloci. La dittatura è stata sconfitta, il colonialismo pure, c’è la democrazia e nei tempi in cui è stata scritta la poesia, molti credevano ancora alle “magnifiche sorti e progressive dell’umanità”. Invece le cose non sono così, o non lo sono più in maniera stabile e rassicurante. Nel punto dove siamo arcangeli, c’è il “mondo che crolla”, perciò “dolorosi”. Inoltre non ancora nati, o presenti come prototipi o come possibilità, perché la razza che può assicurarci la vita sicura e la continuità ancora non c’è. È solo in potenza – direbbe Aristotele – che distingue quel che c’è ma in modo nascosto e segreto, da ciò che invece appare. Potenza oggi, atto domani, dopo l’uscita nella luce e lo sviluppo. Ma così in potenza – o in seme se vogliamo collegare l’idea a qualcosa già esistente in natura –, non sappiamo come sarà la pianta. La razza non è ancora nata, dice il poeta. Non c’è, come in natura, per le cose che già sono e che continuano, i due aspetti assieme, vale a dire seme e pianta, uova e gallina, che si danno nascita fra loro, ma ciò che sarà “vive attraverso di noi/ come un vento carico di minacce e di polline nuovo”. Le minacce sono il mondo che crolla. Il polline nuovo, gli elementi fecondatori dell’angelo.
Giunto a questo punto, faccio un passo indietro: al mondo che crolla; perché?

Perché si è giunti ad una fase d’occultamento dell’Essere – dice la filosofia per bocca di Heidegger, uno dei suoi figli maggiori –, oggi sempre più evidente dagli effetti che produce, anzi non c’è più quella fonte illuminante perché è scesa sotto l’orizzonte umano, come il sole supera quello della terra quando muore il giorno.
Perché dopo un lungo sviluppo nella luce della ragione è sceso il Tramonto sulla filosofia del Giorno, quella che va da Socrate a Hegel. Sono cominciate le prime ombre più di cent’anni fa ed oggi è notte, anzi tenebra profonda per la maggior parte dei suoi abitanti. Questo stato del mondo l’Occidente lo chiama nichilismo, ed oggi esso è diventato condizione normale.
Oppure per l’Oriente il mondo crolla perché è giunta l’ora del Kali-Yuga o “epoca oscura”, di totale decadenza metafisica, in cui è possibile ogni specie di confusione spirituale e di crimine, ultima tappa di un ciclo che si conclude. Buddha e Parmenide sono contemporanei, perciò nello stesso tempo l’Essere si è manifestato in Oriente e in Occidente e dopo venticinque secoli è scomparso.
Arcangelo in potenza nell’uomo, dunque, l’umano d’oggi, come lo è stato l’uomo nel “primo antropoide” che volle compiere il salto per mutare. Ma così la voce umana è flebile e balbettante, egli sente, intuisce, sogna, ma non sa. E quella del nascituro ancora dentro la matrice. Perciò, afferma il poeta, “non sappiamo cosa vogliamo dire/ il nostro oracolo è sigillato,/ i nostri sogni oscuri, i nostri segni contraddittori”. Finché non si giunge davanti a una porta chiusa.

In queste grandi avventure della mente, volte a superare i confini dell’umana natura, e il più buio e misterioso è quello della morte, una porta che si è aperta c’è in ogni linguaggio. Ne presento alcune.
Nei cicli della natura che si vedono e si toccano, porta è il foro nella terra da cui entra il seme e spunta il germoglio a primavera. Oppure è l’alba, il momento e il luogo dove la notte finisce e nasce il giorno. O è la vulva, dove è introdotto il seme della vita animale e umana e poi esce il neonato nella luce del sole e della mente.
Nel mito è la porta degli Inferi, da cui sono entrati per compiere le loro più grandi avventure tanti eroi antichi: Ercole, Teseo, Orfeo, Ulisse. ed alcuni sono riusciti ad uscire. Per Giasone, il capo degli Argonauti diretti alla conquista del Vello d’oro, quel passaggio si chiamava Symplegades, ed era formato da due scogli rocciosi del Mar Nero che si muovevano l’un contro l’altro sotto l’azione di forze oscure. Giasone riuscì a passare in mezzo ad essi con la sua nave e da quel momento sono rimasti aperti ed immobili in quel mare .
Nelle religioni è la porta del Paradiso, che Adamo ed Eva hanno superato in uscita, quando sono stati cacciati da quel luogo di delizie. Oppure, per il profeta Giona, quel foro è stato bocca della balena. O è la Pasqua di resurrezione, che ha avuto per protagonista Gesù, ma è poi rimasta aperta per tutti i battezzati nel suo nome.
Nella poesia è la porta d’avorio. È nominata nell’Eneide e l’ha superata Enea il fondatore di Roma. Egli discese nell’Averno, attraverso lo spaventoso fiume dei morti. La Sibilla che l’accompagnava gettò una focaccia al cane guardiano, il tricefalo Cerbero, ed Enea poté alfine parlare con l’ombra del proprio padre Anchise. Molte cose gli furono rivelate laggiù: il destino delle anime, il destino di Roma, ch’egli stava per fondare, “ed in qual modo egli avrebbe potuto evitare o sopportare qualsiasi fardello .” Poi, attraverso la porta d’avorio, fece ritorno ai compiti che lo attendevano nel mondo. Oppure è la bocca di caverna, come nel caso di Parsifal, che è uscito da essa rinnovato e capace di conquistare il Graal.
Nella fiaba, per Pinocchio è ancora bocca di balena, da cui il burattino è uscito per mutare in un bambino.
Nella sapienza è la porta che divide i sentieri della notte e del giorno, e si è aperta a Parmenide dopo che è uscito dalla casa della notte. O è il Risveglio, così è stato visto e vissuto il passaggio da Buddha ed Eraclito. Oppure nel Tao Tê Ching è la “Porta di tutti gli arcani” , o “Porta della misteriosa femmina/ [che] è la scaturigine del Cielo e della Terra” .

Aurobindo certamente non ignorava l’esistenza di queste porte e cosa significavano, ma nella sua poesia la porta è chiusa. È quella di sempre che s’è rinchiusa oppure un’altra? È la stessa, ne sono sicuro, perché molte indicazioni della via circolare ne hanno sempre additato una sola; una sola porta su vari piani, lontana e vicina. Lontana come quella del mito, dove il passaggio è avvenuto come in un sogno, o più vicina come quella di Parmenide, che è stata superata davvero, come qui si dice per distinguere e separare nettamente. Superata da una razza però, da un popolo, da una civiltà, ed è nato l’Occidente da quel passaggio, questo dove ancora ci troviamo.
Se la porta di Aurobindo è chiusa, allora dovrebbe trattarsi di qualcosa ancor più vicino, quella dove può passare il singolo, questa volta, adatta a lui, che s’apre solo per lui.
E ai tempi in cui è stata scritta la poesia, era ancora chiusa la porta della filosofia, l’unica rimasta inviolata dopo secoli di ricerca. Sembra proprio, perciò, che si tratti di quella anche perché si era per strada e la parte finale del cammino, il più misterioso e tenebroso, era ancora da percorrere. Anzi non esisteva, si è fatto camminando. La porta è stata vista però, ma da lontano e, appunto, chiusa.
L’ha vista così Nicolò Cusano che l’ha chiamata “porta del Paradiso”, e divideva questo mondo di cose a metà e contraddittorie da quello dove gli opposti coincidono, dove c’è anche Dio.
L’ha vista Nietzsche e l’ha chiamata “portone carraio”, ma era chiusa e non è riuscito ad aprirla; o solo in sogno in una notte di luna piena, nel “più profondo silenzio di mezzanotte, quando anche i cani credono agli spettri”.
Heidegger e Jünger hanno calcato la sua soglia, hanno chiamato quel valico “linea di mezzanotte” e hanno discusso di esso, se si poteva superarlo e come.
Infine c’è la porta che ho raggiunto io percorrendo la via circolare della filosofia lunga venticinque secoli, e dopo cinquant’anni della mia vita dedicata ad essa per progettarla e seguirla. Sono giunto a quella porta circa quindici anni fa, seguendo molti cartelli che la segnalavano e indicavano.
E l’ha vista, dunque, Aurobindo, anch’egli nei modi della filosofia, io credo, o solo a quello qui mi riferisco, ed ha bussato, “sapendo che il nostro senso è bussare a questa porta/ gridare come i bambini nella notte, finché la porta si apra”. Ma non era ancora giunto il tempo propizio.
Anche per quel bussare ininterrotto in Occidente e in Oriente, la porta, io credo, si è ripresentata qualche decennio dopo, e quando tutto il percorso circolare che conduce ad essa è diventato chiaro e distinto. Quando, dopo il superamento dell’abisso con un ponte stabile, anche se per ora rudimentale, sono riuscito a raggiungerla in modo sicuro e continuo, e svelando il suo segreto ed aprirla.
Dovrebbe ora rimanere così.

Severino e Parmenide

26 febbraio 2009

Il colosso con i piedi d’argilla. Il tallone d’Achille.
La casa costruita sulla sabbia. Il castello di carte

Per Parmenide l’Essere è qualcosa che si raggiunge cercando e volendo, e in tal modo viene visto e conosciuto. È arrivato ad esso uscendo dalla “casa della Notte”, superando “la Porta che divide i sentieri della Notte e del Giorno” e imboccando poi “la via maestra” che conduce alla “rotonda Verità”, vale a dire all’Essere che egli, appunto, vede, conosce, descrive, diventando sapiente, arricchendosi di quel tesoro, acquistando quelle qualità.

Per arrivare all’Essere, naturalmente, è necessario lasciare questo mondo d’apparenze, vale dire le  cose distinte e separate e le loro “determinazioni”, che Severino stesso così elenca: “significati, forme, figure, aspetti, situazioni, stati, funzioni, rapporti”.

Le cose distinte e separate e le loro determinazioni diventano poi, per Parmenide, dopo che ha visto e conosciuto la “rotonda Verità”, oggetti di un altro tipo di conoscenza, parimenti raccomandato dalla “dea” che aiuta Parmenide a compiere il suo viaggio iniziatico aprendoli la Porta. Si tratta della conoscenza filosofica e scientifica delle cose e delle loro determinazioni – quelle di prima viste ora nella luce della ragione: via indicata da Parmenide stesso nella seconda parte del suo poemetto e poi iniziata praticamente da Socrate e che ancora oggi continua nei modi della scienza. Fin qui Parmenide: una ricerca, perciò, la “via maestra” che conduce alla “rotonda Verità”, un viaggio fuori dai “sentieri battuti”, un impegno, una precisa volontà.

Ed ora Severino.

Di tutto ciò in Severino, che pur dice di essere tornato a Parmenide per abbeverarsi a quella fonte, non c’è traccia. Non c’è viaggio, non c’è volontà che glielo fa compiere, non c’è benevolenza del Cielo e aiuto, non c’è Porta e perciò passaggio dalla Tenebra alla Luce. C’è solo la cieca e perversa eternità di tutte le cose e delle loro determinazioni. Un esempio: ognuno dei circa sei miliardi d’uomini che oggi abitano la terra – quelli che si vedono, gli altri sono fuori del cerchio dell’apparire –, è un “superdio”; e non solo lui, ma anche ogni starnuto di quando ha il raffreddore. Ogni starnuto è eterno, e non nel modo della scienza che dice che nulla si crea e nulla si distrugge ma soltanto si trasforma, ma in quello di Severino. Per lui nulla si trasforma ma “è” – per sempre. La base di partenza del più grande viaggio della vita e della conoscenza è diventato così il giro di un cimitero. Le morte spoglie sono diventate eterne e immutabili e l’opera che le ha così eternate un pantheon di cose e idee defunte.

Un primato tuttavia l’immensa opera di Severino ce l’ha: è la maggiore fra quelle che il nichilismo diventato condizione normale ha prodotto nel campo della filosofia.

*

Parmenide

Parmenide

Il Frammento 1 del poemetto di Parmenide intitolato Sulla natura,
tratto da I Presocratici, testimonianze e frammenti,
Biblioteca Universale Laterza

Le cavalle che mi trascinano, tanto lungi, quanto il mio animo lo poteva desiderare
mi fecero arrivare, poscia che le dee mi portarono sulla via molto celebrata
che per ogni regione guida l’uomo che sa.
Là fui condotto: là infatti mi portarono i molti saggi corsieri
che trascinano il carro, e le fanciulle mostrarono il cammino.
L’asse nei mozzi mandava un suono sibilante,
tutto in fuoco (poiché premuto da due rotanti cerchi
da una parte e dall’altra) allorché si slanciarono
le fanciulle figlie del Sole. Lasciate le case della Notte,
a spingere il carro verso la luce, levatesi dal capo i veli.
Là è la porta che divide i sentieri della Notte e del Giorno,
e un architrave e una soglia di pietra la puntellano:
essa stessa nella sua altezza è riempita di grandi battenti,
di cui la Giustizia, che molto punisce, ha le chiavi che aprono e chiudono.
Le fanciulle allora, rivolgendole discorsi insinuanti,
la convinsero accortamente a togliere per loro la sbarra
velocemente dalla porta. La porta spalancandosi
aprì ampiamente il vano dell’intelaiatura, i robusti bronzei
assi facendo girare nei loro incavi uno dopo l’altro:
gli assi fissati con cavicchi e punte. Per di là attraverso la porta
subitamente diressero lungo la carreggiata carro e cavalli.
La dea mi accolse benevolmente, con la mano
La mano destra mi prese e mi rivolse le seguenti parole:
“O giovane, che insieme ad immortali guidatrici
giungi alla nostra casa con le cavalle che ti portano,
salute a te! Non è un potere maligno quello che ti ha condotto
per questa via (perché in verità è fuori del cammino degli uomini),
ma un divino comando e la giustizia.
Bisogna che tu impari a conoscere ogni cosa,
sia l’animo inconcusso della ben rotonda Verità
sia le opinioni dei mortali, nelle quali non risiede legittima credibilità.
Ma tuttavia anche questo apprenderai, come le apparenze
Bisognava giudicasse che fossero chi in tutti i sensi tutto indaghi.

Coincidenze. Poesia e filosofia

17 febbraio 2009

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Di personaggi divini e mortali che hanno affrontato il regno della morte, sono entrati in esso e qualcuno è anche riuscito ad uscirne vivo, ce ne sono stati molti.
Ne nomino alcuni.
Nelle religioni mesopotamiche del III millennio a.C. si narra che Ishtar, dea della stella Venere e dell’amore, ma anche della guerra, perciò colei che reggeva la vita e la morte, discese agli Inferi, per riportare alla luce il diletto sposo Tammuz. Non gli riuscì, ma la sua prigionia nella “Terra senza ritorno” provocò la scomparsa della riproduzione umana e animale dalla superficie della Terra. Questa calamità fu di dimensioni cosmiche per cui i Grandi Dèi dovettero intervenire per liberare Ishtar e il suo compagno. Ci riuscirono con uno stratagemma, sostituendo la dea con una copia che rimase negli Inferi al suo posto.
Nella religione della Grecia antica, fra i divini c’è Demetra, la dea delle messi, che è scesa negli inferi per riprendersi la figlia Persefone, rapita e là portata da Ades, fratello di Zeus.
In quella dell’Occidente c’è Gesù, che è morto in croce, è disceso nell’inferno e dopo tre giorni è resuscitato. Poi è salito in Cielo.
Nella preistoria e nel mito, c’è Gilgamesh, che dopo la morte dell’amico è partito per ritrovarlo. È arrivato fino alla “acque di morte” ma non è riuscito a superarle, perciò la prima impresa di tal genere tentata da un mortale è fallita.
C’è Orfeo, il meraviglioso cantore e suonatore di lira, che è sceso nell’Ade per riportare alla luce la diletta sposa Euridice. È riuscito a rivederla e ad arrivare con lei fin sulla porta d’uscita, ma ad un passo da essa, perché si è voltato a guardarla contravvenendo al patto con le Parche che l’avevano proibito, l’ha perduta per sempre.
C’è Ercole, sceso negli Inferi per compiere la più difficile delle sue dodici fatiche: catturare Cerbero, il cane trifauce. Lo ha vinto, incatenato, e lo ha portato fuori da quel profondo a dimostrazione dell’impresa. È stato uno dei pochi che è riuscito ad uscire.
C’è Ulisse, che è entrato nell’Ade per trovare l’indovino Tiresia ed avere da lui indicazioni per tornare ad Itaca. Le ha avute ed è riuscito ad uscire e ritornare in patria.
C’è Enea che è disceso nell’Averno attraverso lo spaventoso fiume dei morti, ha parlato con l’ombra del padre Anchise che gli ha rivelato il destino di Roma che egli stava per fondare, e “in qual modo avrebbe potuto evitare e sopportare qualsiasi fardello”. Poi, attraverso la porta d’avorio ha fatto ritorno ai compiti che lo attendevano nel mondo.
Nella Poesia, personaggi che hanno compiuto il gran viaggio sono stati Dante, Novalis e molti altri.
Dante è entrato nell’Inferno, l’ha visitato ed è uscito da esso preparato per il Cielo.
Novalis nei suoi Inni alla notte canta la sua avventura nel regno tenebroso e come è giunto a ritrovare per sempre Sophie, la giovanissima fidanzata prematuramente scomparsa.
Nel misticismo, l’abisso ha nome “notte oscura”, o “nube della non conoscenza”, o “notte dell’anima”. Come notte oscura l’ha affrontato e superato Giovanni della Croce. Come notte dell’anima Angela da Foligno. Come nube della non conoscenza Riccardo di San Vittore, Pseudo Dionigi, Mosé.
Nella favola c’è Pinocchio, inghiottito dalla balena, e quel ventre è un altro nome e aspetto del regno tenebroso da cui è riuscito a fuggire. È entrato burattino ed è uscito trasformato in bambino: ecco la metamorfosi.
Non diversamente da Pinocchio, gli uomini che hanno compiuto quell’impresa sono diventati eroi, semidèi, poeti, mistici, santi.
Infine, fra gli innumerevoli visitatori del regno dei morti ci sono coloro che ricordano vite precedenti in quella che stanno vivendo. Se sono ritornati, significa che hanno attraversato in qualche modo l’abisso, ma in modo segreto e nascosto, ignoto a loro stessi, mentre ora è chiaro e distinto. Ora c’è un ponte che collega le due sponde e quindi le esistenze fra di loro: ecco la novità. Nomino soltanto alcuni dei più celebri: Virgilio, Cicerone, Plotino, Schopenhauer, Jung, Gandhi, Huxley, Gibran.

In questi nostri tempi di declino e caduta dell’Occidente, con conseguente immersione nelle tenebre, un viaggio simile a quelli di cui ho fatto cenno è toccato a me.
In un campo diverso però, in quello del pensiero filosofico, che non è stato mai percorso prima per intero, anche se c’erano indicazioni della fine specialmente nella sua storia più recente. Ma un percorso così, di tipo nuovo e mai fatto prima d’ora, non è facile che sia capito e creduto: infatti, anche se ho comunicato l’avventura e la scoperta, pochi finora hanno chiesto informazioni circa il metodo adottato e l’hanno tentata a loro volta. Si pensa e si crede perlopiù, mi pare, che sia opera di fantasia, o qualcosa di personale e privato che può interessare soltanto a chi è toccata, una specie di sogno ad occhi aperti che gli altri non colgono, o cui non interessa.
M’è venuta allora recentemente l’idea di abbinare l’intero cammino circolare che ho compiuto alle tante intuizioni ed esperienze di esso, espresse con le parole di poesia, che sono apparse lungo i secoli e millenni, in Occidente ma anche altrove, anzi in tutto il mondo abitato. Ricorrendo alle fonti, questa volta, vale a dire alle parole emerse in quel modo, e scoprendo la loro coincidenza con i pensieri chiari e distinti della filosofia. Mi son detto: se i versi dei poeti sono stati lampi nelle tenebre, se molti hanno creduto ad essi, o comunque, come Paolo sulla via di Damasco, ne sono stati colpiti, e li hanno adottati e seguiti, un po’ di attenzione la riserveranno anche a me, che ho cercato di raccogliere tutti quei lampi in una luce sola, che forse per millenni non tramonterà.

Finora le coincidenze le ho ottenute prendendo come testi a fronte le poesie, ma, se lo vorrà il Destino, se ci saranno risultati dopo questa prova, la stessa cosa potrà continuare con le voci del mito e con quelle dei mistici. Perfino con le leggi e teorie della scienza in certi casi, se sarà necessario o se capiterà l’occasione.

Ma perché comunicare, o cercare di farlo, un cammino così difficile, impegnativo, misterioso, dal momento che la maggior parte degli abitanti di questo mondo arriva qui come in vacanza e a programmare vacanze, o questa sarebbe la scelta dei più se potessero? In altre parole, perché dovrebbero rinunciare a gioie, denaro, amicizie, amori, viaggi sulla terra, o anche al dolce far niente, per seguire un cammino difficile, faticoso, avventuroso, misterioso?
C’è un perché che non lascia dubbi, che non può essere contestato o ritenuto illusorio o superficiale. Perché il cammino cui invito è quello della vita; lo stesso su cui tutti, volenti o nolenti, ci troviamo e in ogni caso per esso siamo costretti ad andare e termina sempre sul ciglio dell’abisso dove inevitabilmente e indistintamente si precipita. Verso quel vuoto immane la stragrande maggioranza è come se fosse condotta per mano e poi gettata, o attirata, come i topi della favola dal suono del pifferaio, e lasciata là cadere.
Dunque, non si tratta di cambiare strada, perché essa è una sola. Si tratta solo di percorrerla in modo diverso, per cui sarà utile confrontarlo con quello normale e comune. Poi ciascuno sceglierà, ma la scelta dipenderà anche dalla sua indole e dalle sue risorse. Si dice oggi dal suo dna.

Primo modo: quello che normalmente e pressoché generalmente viene seguito. Si va ad occhi aperti solo a tratti, quelli che chiamiamo veglie, cui seguono altri tratti a palpebre chiuse, dove si procede come portati. Ma non ci sono solo questi buchi e limiti nella consapevolezza. Il nostro andare saltellante fra luce e oscurità è ciò che accade finché siamo più o meno svegli nella vita, vale a dire dalla nascita alla morte. Ma poi è peggio, anzi immensamente, ferocemente peggio. Dopo si precipita nella tenebra più fonda e nel mistero più fitto. E si piange, ci si dispera: per le persone care che ci lasciano e scompaiono, per noi stessi quando siamo vicini alla fine.
Dunque la prima via, che è poi quella della natura, non richiede volontà e impegno. Si è gettati, si è tolti, si è portati, tutto sembra accadere per caso. O comunque l’impegno è limitato: dura il tempo di una vita. Ed è la più facile perché c’è il treno che chiamiamo specie che ci carica, trasporta e scarica, condensati in seme o sviluppati in pianta, e questo girotondo, dicono gli scienziati, iniziato milioni di anni fa continua senza posa e interruzioni.

E la seconda via? È la stessa, come ho già detto, ma con un altro aspetto. Una specie di sopraelevata che segue il tracciato antico e non è più in mano al caso. Semmai in parte al Destino, perché c’è un patto. E non si è più gettati e tolti, ma si arriva e si parte. Inoltre ci sono ormai indicazioni su tutta la via, anche dal ciglio dell’abisso in poi, fino all’altra sponda. E c’è un ponte che collega le due rive, esile per ora, non molto di più di una corda molle che ho lasciato andare alle mie spalle quando sono passato la prima volta. Ma poi, come ha annotato in quell’occasione, “ci penseranno i tecnici a costruire il ponte. Io credo che si troverà il modo di tirarlo e rafforzarlo e già vedo con l’immaginazione le torri che sorgeranno al posto dei rudimentali ancoraggi che ho costruito io, più alte di quelle del ponte di Brooklyn, più vicine al cielo di quelle che sono state progettate per l’attraversamento dello stretto di Messina; e il solido nastro, che sostituirà l’attuale corda dove si può passare uno alla volta, si stenderà dall’una all’altra sponda e sarà il più lungo, degno di tanto vuoto. Io credo che su di esso passeranno gli uomini di una nuova civiltà.”

Ecco posti a confronto i due aspetti della strada: quello normale e comune e il nuovo, dopo i segnali e le illuminazioni. Non dovrebbero esserci dubbi sulla scelta, però il secondo è costruito sopra il primo, a notevole altezza. È la via della conoscenza, e bisogna arrivare fin lassù se si vuole prenderla e seguirla. Questo è il trauma dell’inizio di ogni cosa.
Tuttavia, quando una strada è indicata e tracciata, come sempre accade per quelle sulla terra, alla fine si arriva ad imboccarla e percorrerla, anche da chi non sa quando è stata costruita e non conosce il nome dell’autore.