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La faccia nascosta delle cose

1 aprile 2012

È necessario che si incominci a conoscere le facce nascoste delle cose fra le quali ci sono anche le nostre. Se non raggiungeremo presto questa via di conoscenza difficilmente riusciremo a superare la minaccia che incombe, perché essa è lo stesso prevalere di quei risvolti sconosciuti. La faccia nascosta non è però inconcepibile; ma piuttosto è inaccessibile dall’io cosciente, insondabile, anche se sul confine fra le due facce sempre ci incontriamo e ci scontriamo; cioè il nostro aspetto noto si scontra sempre con quello sconosciuto o una parte della cosa confina sempre con l’altra. E quando la lotta diventa all’ultimo sangue, allora si viene attratti oltre il limite e alla fin più nulla rimane della faccia che si vede.

I due aspetti ci sono in ogni cosa e in noi stessi, abbiamo detto. In noi c’è il volto e la nuca, il passato e il futuro, la vita e la morte. C’è la faccia visibile della luna e quella invisibile. C’è la notte e il giorno, l’energia controllata e la deflagrazione, la materia e l’antimateria, lo sbocciare e il cadere nella terra; e ogni cosa alla fine passa sul suo confine e risvolta. Ma sull’altra parte noi non abbiamo potere, dall’altra parte non governiamo, nell’altra parte non ci vediamo. E così soltanto sulle facce visibili delle cose e di noi stessi, in successioni continue, provenendo dai risvolti, meniamo la nostra esistenza, ma indifesi però contro l’attacco.

È ben strana questa nostra esistenza: si fa, si fa, e poi siamo inghiottiti; è ben strana questa nostra coscienza: è conoscenza di facciate e non di interni, di volti e non di nuche, di vita e non di morte, di luce e non di tenebre; ma poi, all’improvviso, ogni volta si risvolta in mano la scoperta: l’atomo più non fluisce dolcemente e scoppia, diventa indistruttibile la plastica e soffoca, è aumentata la quantità di viventi oltremisura e c’è svolta nell’odio e distruzione, ogni bene diventa un male quando straripa, come un fiume in piena che rompe i suoi confini. È ben strana perciò la vita umana: un volto stampato da una parte sola, una partenza da una tappa sconosciuta, un movimento che va solo in avanti, un cammino che improvviso si interrompe. E perché, allora, diciamo di sapere, perché si mena vanto ed alterigia, perché ci mettiamo così in mostra, perché non si comincia a dubitare?
Forse perché siamo razza condannata – ecco una risposta che si mostra; e perciò si cammina così in fretta, lungo una direzione prefissata, guardando soltanto da una parte, senza dubitare e rivoltarci; e si procede così perché davanti  c’è la nostra meta: un abisso dove si cade. E non c’è dubbio che si arriverà presto alla fine se si avanza ciecamente in questo modo.

Ma ora voglio comunicarvi una speranza e se sarete capaci di fermarvi un poco e di voltarvi non vi apparirà infondata, altrimenti la mia voce neppure vi giungerà. Vi siete, dunque, fermati, prestate attenzione, riuscite ad allontanare da voi quel verso smisurato che chiamate avvenire, riuscite a pensare ad un cammino circolare che ha notte e giorno nel suo giro, ad un andare che s’intreccia con strade già percorse, a un rientrare nella terra e riaffiorare, all’eterno ritorno delle cose! Se questo per un momento vi riesce, se vi siete già volti verso il nascosto, ecco allora la prima indicazione: c’è stato un tempo della vita spirituale  in cui avete conosciuto il vostro emergere dalle tenebre. Provenendo dall’altra faccia avete superato il confine e siete entrati nell’aperto luminoso dove ancora vi trovate. Di questo accadimento c’è memoria. La memoria è la sapienza e voi siete gli eredi di quell’antica universale conoscenza che ha visto il sorgere e ha intuito il declinare.
Tutto il resto: la filosofia, le scienze, le tecniche, sono soltanto facce di una parte sola, è quest’essere rivolti in un solo verso.

Perciò tutto quello che viene portato alla ribalta, in questo tempo di declino e di risvolto, si trasforma immantinente nell’incontrario. Lo si sente, si intuisce, lo si vede. Rivolgetevi perciò all’inizio della nostra civiltà, alla nascita in quella luce, all’eredità che sta all’inizio della vostra Storia. Rivolgetevi alle parole dei sapienti.

P.S.
In seguito l’appello è stato ascoltato e le indicazioni seguite, ed ora una rotonda via fatta di pietre miliari, impronte, segnali, lampade che illuminano la parte oscura, esili strutture che attraversano abissi, collega le due metà e si può circolare e anche uscire. Si chiama “Via della conoscenza” o “Via dell’eterno ritorno dell’uguale”, e tanta parte di essa è raccontata in questo blog.

La metà nascosta — Terza e ultima parte

20 novembre 2011

Leggi la Prima parte
Leggi la Seconda parte

Jacopo Tintoretto, L’origine della Via Lattea (1575 c.)

34. Insuperabile dal singolo per le vie della natura, preceduto dai tentativi di cui ho detto nel capitolo precedente, sono riuscito ad attraversare il lato oscuro con i mezzi della conoscenza. Come ho potuto procedere nella Notte senza lumi in terra e stelle in cielo.
Da qui comincia l’attacco finale al lato oscuro, dopo che si è giunti alla consapevolezza che esso c’è e che non si può difendersi soltanto volgendoli le spalle o ignorandolo, come hanno fatto per tanti secoli gli abitanti dell’Occidente finché si sono trovati dalla parte in luce, perché alla fine ti trascina nella Notte e tu ti trovi con la testa in basso. D’altronde la sua presenza è stata esaltata e moltiplicata dalla fine del Giorno, quindi dalla graduale scomparsa nel Cielo più alto della parte in luce e conseguente immersione nelle Ombre e nelle Tenebre, e anche volgendosi si troverebbe ormai il Buio, e perciò neppure le difese del passato risulterebbero più valide. Ecco, allora, come io l’ho affrontato.
Il mio cammino solitario nella Notte, è cominciato dall’ultimo campo base, quello dove erano giunti prima di me Nietzsche, Heidegger, Jünger, − e forse qualche altro, di cui non conosco i nomi, perché ho trovato notizie scritte di loro pugno solo di questi tre. O molte informazioni ho ricevuto da personaggi che si sono dichiarati nichilisti; da chi perciò è entrato nella Tenebra e l’ha descritta e in qualche modo anche affrontata, ma non mi risulta che qualcuno sia arrivato in posizione più avanzata dei tre che ho nominato. Ragion per cui posso ora fissare quale partenza per l’ultima tappa la “linea di Mezzanotte”. Quella, dunque, che sicuramente Nietzsche ha visto assieme agli altri, ma che neppure lui è riuscito ad oltrepassare. O l’ha fatto solo in sogno, con un’immagine vicina al Risveglio, quella del giovane pastore che con un morso stacca la testa del serpente che s’era infilato nella sua bocca, di cui ho detto nel capitolo precedente.
Se io affermo che son partito da presso la Mezzanotte dove erano giunti gli ultimi grandi del pensiero occidentale, lo faccio solo ora. Non lo sapevo a quel tempo. Non in modo conscio, almeno. Allora è chiaro: non ho agito come un comprimario, vale a dire come chi conosce a menadito la filosofia e sa dove essa è arrivata e quanto ancora gli aspetta. Allora, piuttosto come uno sherpa. C’era da salvare la pelle, perché in definitiva di ciò sempre si tratta in tal genere d’avventure, − e la salvezza dipendeva dal superamento della linea dove disperatamente e tragicamente s’erano bloccati i titolari della spedizione, uomini illustri di cui io però in quel tempo conoscevo soltanto i nomi e avvicinato le loro opere per curiosità – e perciò via da solo, io il nativo di quelle cime e abissi, a tentare il vuoto più grande che s’apriva appena aldilà del punto raggiunto.
Non ho provato a scendere in fondo all’abisso per poi risalire, perché già in quel tempo − e oggi ancora di più − esso appariva senza fondo, ma ho cercato di beffarlo con un ponte sospeso. Le due rive dove ho fermamente ancorato l’esile struttura si chiamano Tramonto e Aurora, e c’è un sostegno a mezza via, la Mezzanotte, legato al suo opposto: il Mezzogiorno. I due si sostengono a vicenda. Aurora e Tramonto erano già state individuate e determinate, la prima soprattutto da Parmenide, il secondo da poeti, scrittori e filosofi dei secoli diciannovesimo e ventesimo − come ho già avuto modo di indicare in altre occasioni −, anche se non era certamente prevedibile in quei tempi che sarebbero servite come sponde per la costruzione di un passaggio di tal genere. Perciò ho fatto tutto da solo nell’ultima parte. Non molto di più di una corda molle, su cui pochi oseranno avventurarsi; ma già vedo con il pensiero le torri che sorgeranno al posto dei rudimentali ancoraggi che ho costruito io, più alte di quelle del ponte di Brooklyn, più vicine al cielo di quelle che sono state progettate per l’attraversamento dello stretto di Messina; e il nastro che si stenderà dall’una all’altra sarà il più lungo, degno di tanto vuoto. Non consistente di un elemento sottile e leggero formante un semicerchio che è la forma che ha assunto quando l’ho calato io, ma credo che si troverà il modo di tirarlo, che il collegamento fra le due sponde diventerà un rettilineo fra l’Aurora e il Tramonto, cioè un diametro del cerchio Giorno-Notte. Credo che il ponte diventerà una strada sospesa indistruttibile, come l’asse terrestre, che attraverserà la Notte: aperta e illuminata strada di frontiera che collega le sponde vita-morte. [96]

Giunto con quel semicerchio fluttuante nell’Abisso al tutto in una volta del cerchio, e perfino alla futura strada che attraverserà l’Abisso, c’è ora da vedere come ho potuto percorrere la parte gravitante nel Vuoto, che solo alla fine ha cominciato a diventare esile struttura gettata fra le due sponde. C’è da dire, per prima cosa, che già esisteva l’altro semicerchio, quello in alto, percorso e costruito dall’Occidente in più di venticinque secoli, di cui ho parlato varie volte, che come un arcobaleno collega i due poli estremi del suo Giorno, che è poi la luce della ragione, e che nel visibile e tangibile è strade, gallerie, viadotti, rotte che circondano la Terra. Perché la Terra è stata il campo d’esercitazioni di quel cerchio più grande. I suoi ponti sono modelli di quello vita-morte-vita. E c’è l’immenso ponte Aurora-Tramonto, immane cammino di una civiltà sospesa fra l’Abisso e l’Altezza, di cui le tante storie sono le carte topografiche e geografiche. Ebbene, è su quel mezzo giro già esistente che sono rimasto appeso come un ragno per attraversare anche l’altra metà che sta sotto. O soprattutto ad esso, perché mi hanno molto aiutato anche il giorno del ciclo giorno-notte, le stagioni di quello estate-inverno, la veglia dell’infaticabile successione veglia-sonno, la donna nell’unione uomo-donna, l’amore nel giro amore-morte. Tutte cose già dette, ma che qui amo ricordare perché sono gli appigli senza i quali non avrei mai potuto attraversare l’Abisso cui i più hanno assegnato il nome morte. Ma ora bando alle trascorse prove, entro nel cuore del problema.
Come ho potuto procedere nella Notte senza lumi in Terra e stelle in Cielo, con l’Abisso spalancato ad ogni passo, anzi come ho potuto muovere un solo passo?
Perché, senza sapere come e dove, mi tenevo appeso al Giorno avanzavo verso levante dopo la svolta del Tramonto e in tal modo avanzavo nella Notte, passo dopo passo, e segnavo il percorso con la corda molle che scorreva dalle mie mani. Non mi risulta che prima di me qualcuno abbia camminato contemporaneamente nel passato e nel futuro come ho fatto io, diretto ad un’unica meta, l’Alba, quella vista da Parmenide e quella nuova che sarebbe sorta di lì a poco. In questo movimento da funambolo, quando sono arrivato a Mezzogiorno in alto, sotto era Mezzanotte, quando sono giunto all’Alba di venticinque secoli fa c’era la fine della Notte sullo stesso punto, e sono diventati indistinguibili i due momenti. Questo modo di procedere è stato però più frutto dell’istinto che della conoscenza. Un po’ come il bambino che quando comincia a camminare sta attaccato alla gonna della madre per non cadere, così sono stato io. Oggi invece so, e conosco da dove mi giungeva quell’istinto: da chi prima di me aveva intrapreso quell’avventura e aveva superato in qualche modo la Tenebra. Degli eroi mitici, degli Iniziati, dei sapienti, era quell’eredità segreta di cui beneficiavo. Nel tempo che ero impegnato nell’avventura obbedivo a un comando che mi era in tanta parte incomprensibile, ma ora il velo non c’è più, è diventato idea chiara e distinta. Anche a cosa mi appoggiavo e aggrappavo per non cadere fisicamente, − perché ero impegnato anima e corpo in quell’impresa e se cedeva una parte avrebbe trascinato con sé l’altra − ora lo so in modo più sicuro: a quella Via lattea di indicazioni che s’era accesa lungo i miei cammini sulla terra.

Ecco, dunque, la mia avventura: solo un lavoro di ragno che si lascia dondolare nel vento dello Spirito, in attesa di un soffio più forte delle correnti circolari. Un vincere l’Abisso approfittando degli eterni ritorni, della ruota che gira: non è evidente che essa continua a girare anche se ci sono punti morti per i singoli! Un vincere la morte ruotando nella giostra della vita, perciò; opera di trapezista ora che è fatta, che l’ormeggio è stato lanciato e fissato ai sostegni, che un minimo di protezione è stato inventato. C’era comunicabilità fra i rotanti cieli, quelli che fanno riapparire le costellazioni e quelli che fanno ritornare gli uomini, e se si dispone della chiave si può passare dall’uno all’altro; o tenersi aggrappati ad uno per muoversi anche sull’altro, come ho fatto io insomma. Tuttavia non sarebbe bastato il lavoro di funi e il mestiere di funambolo se non avessi ricevuto l’aiuto di una luce che non era quella del sole e neppure quella dell’Essere perché tramontato. Sotto forma di segnali che bucavano come scintille e lampi la Tenebra mi è giunto quell’aiuto, che io traducevo in parole, e le parole sono diventate indicazioni, e il loro insieme la collana che mi ha condotto passo dopo passo dalla Mezzanotte fino all’Alba. Certo, quei segnali sono stati un incontro continuo, a viso aperto, con il mistero, quindi a dirlo con la voce della ragione, anche con l’irrazionale. Ma ho forse mai dichiarato, o anche solo lasciato intendere, che quanto stavo facendo era del tutto razionale! È razionale abbandonare in tanta parte le vie ampie e facili, i vantaggi che offre il denaro, i piaceri della carne, le luci della ribalta, per immergersi nella Notte? Inoltre io ho sempre affermato che nel ciclo Giorno-Notte, specialmente quando si giunge nella metà oscura, la ragione è soltanto un piccolo e incerto lume che serve quanto la lanterna che il viandante teneva in mano quando le strade non erano illuminate. Non certo per vedere lontano, dunque, e ancor meno la meta. E anche nei giri più bassi, quelli che in qualche modo si vedono, si sentono, si toccano, dalla posizione raggiunta sopra di essi, è forse razionale il sonno, la morte, la provenienza della vita dalle profondità della terra e dei corpi? E si smette perciò di dormire, di morire, di provenire dal profondo e dal mistero? Allora, nessuna sorpresa per quanto anch’io non sapevo: non sapevo, − e ancora non so − da dove giungevano i segnali. Oppure lo so: dall’Abisso. Ma non come mi giungono e perché. Una teoria però c’è e la dico. Come ho più volte posto in evidenza e come risulta dal simbolo, anche il ciclo più grande non arriva fino in fondo all’Abisso, − anche perché abisso significa senza fondo − e similmente non si eleva fino alla sommità del Cielo che nessun occhio umano ha visto. In altre parole il Giorno-Notte, anche se è, o diventerà, il ciclo più grande dell’uomo, non scende fino al nulla e non s’innalza fino a Dio. Più semplicemente circola, come un pianeta attorno alla sua stella, come una galassia nel cosmo, come il cosmo nel nulla o in Dio, o, appunto, nell’Abisso. Per cui c’è fondo ancora oltre il più profondo mai raggiunto. Ecco, è da quel fondo che sta sotto il più profondo mai raggiunto dall’Occidente che mi sono giunti i segnali che ho trasformato in parole. Input di un demone mi sono apparsi, com’è voce di Dio quella che giunge dal Cielo, che molti mistici hanno sentito e comunicato.
Comunque, non mi sono mai considerato un privilegiato o un eletto per quella messe continua di indicazioni che mi è stata offerta per tanti anni. Anzi un pensiero così non mi ha mai sfiorato. Perché nulla d’esclusivo mi è mai giunto, nulla di personale. Sono sicuro perciò che si tratta degli stessi impulsi che arrivano in ogni cosa e in ogni vita. Quelli che accendono e spengono le stelle in cielo, che aprono i semi nella terra e le gemme sulle piante, che colorano le gote delle giovani donne a primavera e fanno splendenti di sorriso i loro volti. Quelli che conservano e conducono i viventi lungo i giri giorno-notte, inverno-estate, veglia-sonno, vita-morte. Soltanto che nel Giorno-Notte si arriva anche alla maggiore profondità e perciò si colgono prima gli stimoli, i battiti dei tasti. [97] Prima che essi diventino comandi assoluti, ordini del re, imperativi categorici, non solo nelle cose e animali ma anche nell’umano. Ecco cosa sono le indicazioni che si sono accese lungo la via della Notte: un cogliere dal più profondo e sollevarlo nel più alto, cioè nella luce dell’Essere. Un tradurre gli impulsi in parole; e non più nell’aperto della specie, o non più soltanto in essa, ma nella vita singola, quella della persona, o dell’Io. Quel che è capitato d’altronde a chi mi ha preceduto, eroi, iniziati, sapienti, mistici, filosofi.
Io come loro, con un metodo nuovo che, forse, mi ha portato a maggior profondità e con una qualità di segnali che non dovrebbero andare perduti. In ogni modo, sono serviti a me per procedere nella Tenebra più fonda, fino a spuntare nella nuova Aurora, e li lascio ai presenti e futuri come eredità da spendersi subito o quando giungerà il momento propizio.

35. Una via ora è tracciata per uscire dal lato oscuro, ma non appare per nulla scontato che l’Occidente la segua o soltanto ne prenda atto.
Anche se il cammino non è riservato, c’è da credere, come è accaduto d’altronde in passato, che pochi si metteranno per esso e lo seguiranno fino in fondo, vale a dire fino alla Porta. La quale è aperta a tutti ma è necessario arrivare fin lì per superarla e entrare nella dimensione dove gli opposti coincidono.
Non è per nulla scontato perché anche la pura e semplice conoscenza che c’è una Porta per uscire si trova oggi alla portata di pochi, perché la notizia non è pubblicata e diffusa, e sarà così finché durerà questo tempo rivolto ad altro. All’attività ininterrotta nelle antiche strutture costruite durante il Giorno e al denaro che da essa si ricava, ai beni che si vedono e si comprano, a quelli la cui ricompensa è il piacere fisico immediato. Sembra che il destino si comporti in questi tempi come il domatore del circo, che dà all’animale una leccornia ogni volta che compie correttamente l’esercizio imposto. In cotanta inettitudine e dimenticanza delle proprie origini, avanza l’ombra scura e lascia il nulla dietro di se dopo lo scontro con i residui della luce rimasti nei singoli dopo il Tramonto.
Se non è dunque per nulla sicuro che si esca all’insegna dell’Occidente, almeno in tempi brevi, vuol dire che la nuova terra e il nuovo cielo rimarranno in tal caso ancora a lungo nell’inverno e nella tenebra della Notte più lunga, come semi che attendono di spuntare. Qui la vita di una civiltà non si presenta essenzialmente diversa da quella del singolo.

Ma questa situazione non è priva di conseguenze. L’invasione del lato oscuro come avanza, vela di tenebre gli aspetti di quello manifesto, ed è ciò che sta accadendo in questo tempo. Tempo di Torre di babele, di contrapposizione sempre più dura e feroce. Un aspetto di essa è l’attuale dualismo uomo donna esistente ai nostri giorni, soprattutto in Occidente. Non è difficile dedurre che esso sia la causa prima dell’enorme perturbazione, che comincia dunque dalla coppia e continua nelle famiglie e nei luoghi di lavoro. Poi dal disordine e dai desideri repressi nasce la volontà di potenza della metà maschile incompleta e sola.
C’è pericolo di fine totale dell’umanità se continua questo stato.
Però oggi c’è più tempo a disposizione per attraversare la Notte e il percorso è interamente segnato in modo chiaro e distinto dalle indicazioni della conoscenza.

36. Giunti al termine del cammino nella Notte, la Luce che entra dalla Porta illumina il lato oscuro e appaiono le due metà congiunte, com’era all’inizio.
Il solitario viaggio nel lato oscuro fino all’uscita e alla coincidenza degli opposti non è una mia scoperta. Oppure lo è solo nel senso che oggi viene raccontata. Nel senso che è diventata conoscenza di un giro di cui prima il singolo non aveva coscienza. Lo sapeva Dio, o la Natura, o la specie,  non il singolo. Ma non ci sono dubbi che ci fosse anche prima che lo portassi sulla scena come Giorno-Notte, e in innumerevoli altri modi ed aspetti. D’innumerevoli giri già esistenti il mio, allora, è soltanto l’ultimo, e i precedenti instancabilmente si ripetono dentro la natura e il loro insieme è anzi la natura, il suo aspetto visibile.
C’era anche prima la notte, che sappiamo già essere una sola cosa con il giorno e non due metà separate. C’era il sonno che subentra alla veglia, con sogni che da molto sono stati collegati ad essa e di alcuni si dice che anticipano il futuro, vale a dire la vita che sarà, per cui non si può affermare che ci sia completa estraneità fra le due parti. C’era l’inconscio, che fino a pochi decenni fa era più staccato di quanto lo è oggi dal conscio, e il primo era piuttosto come le cantine e i sotterranei di un palazzo, locali di deposito di ciò che si scartava o non si voleva vedere, frequentati solo dai servi, dove mai gli abitanti dei piani superiori si recavano. C’era la morte, che in tutte le grandi civiltà non sono mai stata disgiunta dalla vita e, specialmente quando il Giorno giungeva al Tramonto, in esse sono sorti individui che hanno fatto esperienza dell’una e dell’altra, intessendo legami fra le due. C’era la donna in unione continua con l’uomo, aspetti viventi e entrambi presenti in carne ed ossa, per quella proprietà eccezionale di essere in due dimensioni contemporaneamente, vale a dire dentro e fuori. Spesso congiunti anche fuori per continuare la specie e un po’ anche se stessi − ecco cos’altro c’è in cima al sentimento dell’amore −, perché il figlio dell’uomo è qualcosa di più del prossimo vicino e lontano. Mi occuperò soprattutto di quest’ultima coppia e il motivo è noto a chi mi ha seguito fin qui: il lato oscuro solo in questo caso è in noi ma anche fuori, ed è la donna per l’uomo, e l’uomo per la donna. Qualcosa di ben visibile e tangibile, dunque, anzi ciò che si guarda e si tocca di più.
In confronto, la visibilità del sonno è fatta di sogni ed essi, come si dice comunemente, non sono “veri”, “reali”. Certamente non come i volti e i corpi delle donne.
Anche l’inconscio non si manifesta, o solo con cenni misteriosi, e quando chiama non lo fa con parole, ma con spinte incontrollabili da dietro e da dentro e non si vede chi spinge e si obbedisce perciò senza sapere. Le parole, quel che riusciamo a dire di quei comandi misteriosi, sono semmai trasformazioni successive che richiedono il traduttore come negli antichi oracoli. O se qualcosa si svela in altro modo, è nella dimensione del sogno che ciò avviene, o nelle apparizioni delle cadute in trance.

Ancor più misteriosa e tenebrosa è la morte. È un abisso, la parte nera del simbolo che appare in copertina. Quando si è vecchi e la vita a poco a poco ci lascia, il suo posto lo occupa lentamente la morte. O arriva anche all’improvviso, quando si ferma il cuore, negli incidenti mortali, nei delitti, nelle guerre. Per cui che la morte confini con la vita non sembra cosa di cui dubitare, io credo, se sempre si trova presso ad essa nelle malattie, nei pericoli, nella vecchiaia, e poi prende il suo posto quando finisce, come la notte del giorno dopo il tramonto. Ma sempre quando c’è l’una non c’è l’altra, e non c’è verso di accostarle più di tanto. Una è il corpo vivo che si muove, parla, ride, piange, lo colora il sangue che scorre. L’altra è spoglia immobile e muta. Che le due abbiano un confine comune perciò è indubbio, e la linea compare spesso all’improvviso. Ma si tratta di due metà imperscrutabili. Sono rispettivamente la parte bianca e la parte nera del simbolo. Perciò io non dirò mai che bisogna scendere fino in fondo al nero per poi risalirlo e raggiungere il bianco, perché è senza fondo. Invece ho indicato di sorprenderlo con l’astuzia se la sua arma è la tenebra e la profondità, insuperabile in altro modo. Un ponte sospeso è la sorpresa, quello che ho costruito dal Tramonto all’Alba, le due sponde su cui ho fissato gli ancoraggi. Soltanto una corda molle per ora, ma che sarà tesa e diventerà un ponte, come ho già spiegato nel capitolo trentacinquesimo. Anche non prendendolo di petto, anzi schivando a bella posta quel confronto impari, è, dunque, l’abisso della morte che ho attraversato. Non quello del sonno, perciò, che ha sponde molto più vicine, − va da giorno a giorno – ed è riuscita la natura a valicarlo senza il ricorso a quella superiore illuminazione che chiamiamo cultura e civiltà. Neppure quello dell’inconscio, anche se, come hanno detto iniziati e sapienti, esso congiunge questa vita con la memoria di quelle precedenti, e l’attraversamento è riuscito ad alcuni. A Buddha, per esempio, e ad altri orientali. Ma per questo motivo non li ho seguiti nel loro metodo, perché la mia via era invece volta ad occidente e non era ancora finita. Se avessi adottata la loro, la cosa più saggia sarebbe stata di affidarmi a quei maestri, come hanno già fatto tanti occidentali. Più che una via costruita nei modi dell’Occidente, che quando incontra montagne le fora, scava trincee, le sbanca, e pianta segnali ad ogni curva, bivio, asperità, lì si tratta, infatti, di sentieri inaccessibili senza l’aiuto di una guida, mentre quella che ho portato fino alla fine che coincide con l’inizio, che qui descrivo, può diventare aperta strada di frontiera fra due dimensioni.
Un lungo panegirico questo mio per riaffermare che di tutte le metà nascoste, una ce n’è di più indicata per arrivare alla coincidenza degli opposti, ed è la donna. Anzi aggiungo qualcosa d’importante a questo punto: dico che l’unità che così si ottiene è quella che ci vuole per poter continuare la via dopo la Porta, altrimenti non si può, come spiegherò più avanti. E c’è ancora di più: nei modi del sensibile la donna non è solo il cammino che attraversa il lato oscuro, che lei in uno dei suoi aspetti porta nel grembo, ma è anche ciò che ci aspetta all’arrivo: è il premio della lunga avventura dopo la sua conclusione. Perciò s’intraprende l’immenso viaggio nei modi della natura, perché già si vede dove si va a finire: dove c’è la luce e la bellezza. Per il bambino appena nato è il volto ridente che si china su di lui. Per l’innamorato è meraviglia e incanto, luce e bellezza assieme. Ci è dato, insomma, di vedere e intendere nel mondo delle cose contrapposte, sia solo per simboli e immagini, sia pure in brevi lampi nell’oscurità, quel che sarà senz’ombra in un’altra luce.

37. La metà originaria va cercata appena prima della Porta, o sulla soglia, perché dopo si entra nella sfera dell’Essere dove non ci sono parti separate e distinte e non si potrebbe procedere diversamente. [98]
Sulla soglia della Porta s’illumina il nascosto e si può riconoscere la metà cercata quando la si incontra, quella che nella dimensione delle parti contrapposte, come ho detto alla fine del precedente capitolo, è soltanto cifra e segnale. Non nel modo del sentimento, che s’accende e si spegne e dura poco, ma in quello della conoscenza e dell’amore trascendente che ha antesignano l’amore platonico. Ed è come dire: la prima volta che sono nato mi è toccato una visione confusa e incerta, ma la seconda volta è chiara e distinta, e posso davvero riconoscere colei che ho anticamente perduta. Particolari, spesso invisibili alla luce del sentimento si possono cogliere con quella che ha illuminato il lato oscuro. Da cui si deduce che dovrebbe essere più facile orientarci per scoprire la metà originaria anche là fuori.

Eccomi perciò, nonostante gli anni, a prendere già a cuore la seconda parte della ricerca. Però sono giunto tardi alla fine della prima e non mi basterà il tempo. O anche se riesco a trovare, non ho più l’età adatta per tutto quello che c’è da fare assieme. Per cui dovrò ritornare a terminare quel che ho incominciato. In ogni modo ho già cominciato a preparare la seconda parte dell’avventura anche se non mi sarà possibile portarla a termine.
Da questo punto in avanti, stranamente non sono più i corpi in primo piano. Per quanto splendidi e pieni di dolcezze non sono più preziosi come prima. Oppure quelli sono come le altre bellezze del mondo di natura, come i fiori e le stelle, verso cui ci si gira e da cui si è anche attirati e presi, perché ci sono pur sempre gli stimoli della natura che vuole che la vita continui nei suoi modi antichi e universali, ed anche perché essi stanno all’inizio dell’avventura umana che è una sola in tanti aspetti e gradi di visione. Ma per la salita fino all’ultimo livello dove qualcuno già si trova, dove si cerca noi stessi e non la specie, quello che non continua da uomo ad un altro uomo per quanto figlio o discendente, ma da sé a sé, non bastano più. Non sono più importanti come prima, non sono indicazioni della via che arriva fino alla meta. Fino all’intelligibile, ha detto Platone all’inizio della filosofia, collegandosi al mito.
Solo i volti sono indicazioni più recenti e perciò più attendibili del cammino. Solo essi portano i segni di grandi solitudini, di profondi smarrimenti, d’intime gioie e speranze. Solo seguendo quelle tracce si può avvicinarsi al segreto e riconoscere. E quando si pone piede in quei paraggi si scoprono le affinità fra chi cerca e chi è cercato, e c’è sempre a questo punto un venirsi incontro e riconoscersi. Affinità elettive le ha chiamate Goethe, un riconoscere fra i fili intricati del nostro amore quel che davvero ci lega. La scoperta dell’altra metà, dico io ora; l’ombrato cielo che sta sotto a quello azzurro e che nulla cede in profondità e bellezza al suo opposto, anzi le mostra di più e di più le esalta, come ha ben detto Novalis nei suoi Inni alla notte; l’anello spezzato lasciato in pegno da chi non è potuto rimanere, e che combacia con la metà in suo possesso quando ritorna dal lungo viaggio nel regno oscuro, a dimostrazione che è lo stesso che ritorna. Allora è il mistero della parte oscura che si svela. Allora non è più dietro alle spalle, o nel profondo, ma davanti. Non è più un incubo che sale dal sogno di cui non si conosce l’estensione e la durata, né il mostro che si muove nelle tenebre sconfinate, ma appare negli occhi aperti e ci vediamo. Si mostra nella luce ed è bellezza. Quando un ritrovamento di tal genere avviene, scompare la solitudine, scompare la limitazione, scompare la morte perché si arriva in due fino al confine e al Passaggio.
Alla Porta da cui si entra nella sfera dell’Essere, ha detto Parmenide. Al Bello, ha detto Socrate, non diverso da Bene, che si raggiunge seguendo la via dell’amore, intermediario fra gli uomini e gli dei. Alla Porta del Paradiso, hanno detto i mistici, ad un passo dall’unione con Dio. “Io ho sempre pensato” ha detto Joseph Campbell “che se si potesse entrare in contatto con il proprio lato femminile (o, se si è donne, con il proprio lato maschile) si conoscerebbe ciò che sanno gli dèi e forse anche di più. Al Sé ha detto Jung. Ha aggiunto che il cerchio è uno dei simboli religiosi più potenti e una delle grandi immagini primordiali dell’umanità e che, considerando il simbolo del cerchio, analizziamo il sé. Da ciò deriverebbe che il Sé è l’unità di uomo e donna, è uomo e donna assieme”. Come nel simbolo del Tao.
Allora anche in altri modi il cammino che conduce fino alla Porta e alla coincidenza degli opposti è stato compiuto, ma l’ultimo che qui presento obbedisce a nuove esigenze che sono sorte e riguardano il singolo qui e non altrove, ora e non in un lontano futuro. Riguardano la sua breve vita, il suo apparire e scomparire di cui poco o nulla si sa, e soprattutto la sua metà nascosta dove sono riposti i segreti. Si tratta allora di prendere coscienza del cammino che c’è già, quello che è stato fatto dalla natura e continuato nel campo della cultura e della civiltà occidentale, e portarlo fino ad un’altra nascita.

38. Un breve riepilogo e la conclusione.
Chi avrà occasione di leggere i miei precedenti libri s’accorgerà che per giungere fino al punto dove gli opposti si incontrano e coincidono ho impiegato alcune decine di anni, dalla prima giovinezza da dove sono partito fino ad oggi.
Perché soltanto oggi non c’è solo quel meraviglioso arrivo dove una nuova luce ha illuminato il lato oscuro, ma ho trovato anche le indicazioni per la continuazione del cammino. Una continuazione a due questa volta, mentre fino a qui è stata una marcia solitaria. Una continuazione a due, ma nella coincidenza. Non più separate le due metà come giorno e notte, veglia e sonno, conscio e inconscio, vita e morte, uomo e donna, ma indissolubilmente unite come nell’amore più grande, e non sarebbe possibile diversamente. Perché ormai è finito il cammino nella dimensione del duplice e del molteplice e dalla Porta raggiunta comincia quello nell’Essere. In una nuova dimensione luminosa, cioè, dove le cose non appaiono solo a metà e perciò non proiettano neppure l’ombra. [99]

Dunque, ho impiegato alcune decine d’anni per compiere il giro, da inizio a fine. Sono partito all’Alba, ho camminato tutto il Giorno per vie già battute e aperte, sono arrivato al Tramonto circa una ventina d’anni fa. Poi la parte più solitaria e misteriosa, quella nella Notte, dove c’erano impronte umane fino al punto più fondo: la Mezzanotte. Ma lì si sono bloccati i miei predecessori, anche i più illustri. Si vede però che era destino che qualcuno raccogliesse l’eredità e facesse tesoro delle loro indicazioni ed esperienze. Perciò eccomi qua a dire e dimostrare che quel fondo è stato superato, e che dopo una marcia al metà oscura una nuova Aurora ha cominciato a splendere sulla via dell’Occidente. Perché se è vero che io ho impiegato alcuni decenni per compiere il giro ho, come dire, forzato le tappe e mi sono avvalso di innumerevoli segnali che mi hanno indicato la direzione. Sotto un certo punto di vista io non ho proceduto neppure a piedi, ma su ruote, su ali, quelle che la scienza moderna e la tecnica mi hanno messo a disposizione, con i sensi resi più penetranti dai microscopi e telescopi, e soprattutto usando le astuzie della ragione e le intuizioni della mente.
Insomma in pochi decenni ho percorso il cammino circolare che l’Occidente ha costruito in molti secoli. Venticinque per l’esattezza, cominciati quando Parmenide è andato oltre la Porta che separava la via della Notte da quella del Giorno. Quella è stata l’Aurora della Grecia e dell’Occidente. Quella anche la mia partenza giovanile immersa nella nebbia, che solo a poco a poco si è diradata, per ritrovare la stessa uscita dopo quasi una vita di ricerca e di cammino, per arrivare alla coincidenza degli opposti.
Tuttavia questo racconto del camino dell’Occidente e mio, non lo espongo ora per riproporre in modo puro e semplice, sia pure in forma telegrafica, cose già dette in altri libri e un po’ anche nelle pagine precedenti di questo, ma per stabilire un confronto fra esso e un altro cammino. Anche di quest’ultimo ho fatto cenno, ma si tratta ora di metterli vicini e di vederli in un confronto. L’altro, che in ordine di successione viene prima, è il cammino che si compie per arrivare a questo mondo, quello del seme maschile che dopo la sua introduzione e dopo un viaggio pieno d’insidie e pericoli dove tutti gli altri partiti assieme a lui soccombono, giunge in vista della cellula femminile e, attirato da lei, s’avvicina e con la sua condiscendenza la penetra e i due si diventano uno solo. Si tratta di un cammino della natura, come ho avuto modo di dire altre volte, che viene iniziato e compiuto nell’assoluta incoscienza di chi poi uscirà nella luce del sole e della mente e diventerà un Io. Capace dalla dimensione luminosa che ha luce raggiunto di osservare e indagare il cammino che ha compiuto nell’oscurità, specialmente se dispone degli strumenti che scienza e tecnica gli hanno messo a disposizione. Incapace però di ripeterlo per sé, di ritornare dopo che la sua vita finirà, di ripercorrere l’antica strada che non ha segnali fatti di parole, né tempi che si ripetono uguali, né luoghi che si presentano alla memoria e di cui si può dire con certezza: sono già stato. Mentre tutto ciò può avvenire, ed è avvenuto finora come eccezione, nel campo che l’Occidente ha aperto, conquistato, popolato. Condizioni di tal genere quelle che ho già nominato: una partenza all’inizio alla prima luce dell’Alba, un cammino circolare che si è svolto nella direzione del Tramonto, la discesa fino all’orizzonte e poi l’ingresso nella Notte, il valico della Mezzanotte, l’arrivo al punto di partenza, come sempre accade a chi percorre un cammino circolare. Il ritorno a casa, insomma, circumnavigando la mente e il cuore. Ebbene, tutto ciò è ormai segnato e s’inciderà nella memoria.
Circa il confronto fra i due cammini, ecco cosa ho ancora da dire prima della conclusione. Sono lo stesso, ma l’uno avviene nell’inconscio, l’altro nel conscio. Uno è quello della specie, l’altro del singolo. Ho affermato del primo che è l’avventura della vita umana nella natura, fino all’uscita e a vederla in faccia. Il secondo invece il cammino nella cultura, anch’esso giunto all’uscita e a coglierla tutta in una volta. O l’avventura nella civiltà occidentale, fino a poterla leggere da inizio a fine; o sulle circonvoluzioni del cervello fino a studiarle; o sulla mente compiendo il periplo di essa.
C’è da dire però che fino alla Porta e all’uscita sono giunto da solo, perché il dualismo l’ho superato con la scoperta del lato oscuro, quello che ha nome sonno, ha nome inconscio, ha nome morte, ha nome donna. E dopo quel punto dove gli opposti s’incontrano e coincidono si può continuare uniti, la metà chiara e quella scura assieme. La luce aldilà mostra lo spazio che ci è offerto per una nuova vita, una nuova casa, un nuovo sviluppo. Allora può sorgere la domanda: perché cercare la metà perduta anche fuori, nonostante ciò che comporta la ricerca e con il rischio di non trovare mai, se si può continuare lo stesso? Rispondo con un’altra domanda: si può conquistare quel dominio rimanendo soltanto così, vale a dire con la metà in sé ora in luce ma non presente in carne ed ossa, come è invece quella fuori? Penso proprio di no. Ho percepito chiaramente quando sono giunto sulla Porta che da quel punto è necessaria la donna, perché è la genitrice secondo il corpo e ci sarà continuazione anche nell’intelligibile nello stesso modo. Come d’altronde è stato previsto fin dall’inizio. Fin da quando la filosofia è nata si sono aperte due vie, quella della conoscenza e l’altra dell’amore. Una portava al Bene e l’altra al Bello, ma Bene e Bello sono due aspetti dello stesso, fin da allora. Così ci ha insegnato Platone, che ha seguiti entrambi i cammini. Ed io credo di essere giunto a provarla la coincidenza dei due.
Per davvero io non aspiro a mondi trascendenti. Quelli sono in mano agli dèi, che li usano come vogliono e li concedono a loro piacere e non miro alla scalata dell’Olimpo, anche perché non è riuscita a coloro che l’hanno tentato nell’antichità e sono stati ferocemente eliminati. [100] Io rimango più in giù, nel trascendentale. Mi basta che la nuova dimensione sia quella dove la possibilità della coincidenza degli opposti si è presentata, e qualcuno l’ha anche vissuta e sta vivendola. Sarebbe il risultato cui ha condotto il grandioso cammino della filosofia e della scienza. Un movimento dal basso, si può dire, un risultato tutto umano, ma poggiando i piedi sulle antiche vie del destino, e perciò forse anche previsto, almeno nel modo dell’evoluzione che continua. Il precedente più vicino è stato il passaggio dei sapienti, da cui è arrivata la luce della ragione per l’uomo occidentale. Ed oggi si aspetta un’altra luce, quella che ci fa vedere l’uno dove ora c’è il due e il molteplice, perché, appunto, illumina la metà nascosta. Mica però l’uomo è cambiato fisicamente quando la Porta che divide i sentieri della Notte e del giorno si è aperta circa venticinque secoli fa: è cambiata la rappresentazione. Ed è quello che accadrà ancora e che già si riesce a vedere e concepire. Ecco perché io dico che apparentemente tutto rimane così e tutto sarà diverso: un modo di concepire il mutamento che ha dei precedenti che si trovano nel Buddhismo Zen. [101] Ecco perché se tutto rimane anche così, in altre parole nel modo offerto dagli occhi del corpo, sono le metà che recitano in questa scena, vale a dire uomini e donne, quelle cercate e le cercanti. Non c’è più necessità di un dio che divida l’ingenua unità primordiale [102] perché le metà ci sono già. Si tratta piuttosto di procedere nel modo inverso: di unire ciò che Zeus ha anticamente diviso dopo che questa possibilità si è manifestata.
La ricerca della metà mancante nel mondo dopo che essa è stata trovata in se stessi, ha anche un altro aspetto che non va sottovalutato né taciuto, come se il dirlo costituisse un peccato della carne. Tale aspetto è il piacere, quello che viene dalle metà in carne ed ossa che si uniscono. Il piacere dei sensi, insomma: degli occhi che vedono, delle orecchie che sentono, delle mani che toccano, del naso che fiuta, delle labbra e della lingua che gustano. Il piacere del sesso, della dolcezza, di ricevere e di donare cose. L’Essere è anche “bellezza e vaghezza che ti prende di donare”, [103] sta scritto su un segnale indicatore che ho visto lungo la via della Notte, prima di giungere alla Porta. Sta scritto nelle Upanisad. “Egli − l’Atman − non aveva piacere; perché il piacere non appartiene a chi sta solo. Desiderò quindi un secondo. (Fino ad allora) la sua estensione era tale quanto un uomo e una donna abbracciati. Li divise in due esseri: questi furono lo sposo e la sposa. Tale è la ragione per la quale Yajnvalkya ha detto: ‘Noi due siamo (ognuno per sé) una metà’. Per questo motivo lo spazio (lasciato vuoto) viene riempito dalla donna”. (Brhad-aranyaka-upanisad). [104]

Mi resta solo da concludere. Quando la coincidenza ci sarà, o si svilupperà come nuova pianta che s’impone perché essa in qualche modo è già affiorata, ci sarà “procreazione nel bello, secondo il corpo e secondo l’anima”. Questa è la nascita nell’intelligibile provenendo dal sensibile. E nell’intelligibile sarà noto quel che oggi è in mano al tutto assieme, tutto in una volta, inteso come Natura e come Essere. Ma non è un’usurpazione, è un’evoluzione, ed è perfino ovvio che accada così se la dimensione che viene raggiunta è appunto l’Essere.
Perciò la conclusione ha questi suoni: il concepimento delle coscienze, simile a quello dei corpi, inizia l’androgino, il terzo dai due, − la coincidenza degli opposti, o il ritrovamento delle due metà che combaciano e la fusione, il ristabilimento del circolo vita-morte. Perché non ci sia più la caduta di una metà divisa nella morte, per non essere più gettati ciecamente nella vita.

AVVISO
L’avventura è poi continuata con l’uscita dal giro delle apparenze e
l’arrivo in Centro. Questa parte finale del viaggio è raccontata nel
libro “L’antica via dei miti e dei misteri – percorsa ora con la
lampada della conoscenza filosofica”, Editrice Leonardo e in vari post
fra i quali “Nietzsche e l’uscita dal cerchio dell’eterno ritorno” e
“Dalla sapienza alla sapienza seguendo la via filosofica
“.

[Fine]


[96] Che l’attraversamento della Notte seguendo il suo giro sia anche l’attraversamento della morte, sarà, mi sembra, la fonte delle maggiori perplessità e forse del rifiuto di molti di continuare su questa via, perché ritenuta non percorribile.. Invece le cose stanno proprio così: anzi, diversamente, sarebbe solo fantasioso questo scritto. Non coglierebbe il cuore del problema, avrebbe soltanto carattere ideale. Sarebbe un’ipotesi, una teoria non dimostrata. Dunque, Notte e morte sono lo stesso; e il superamento dell’una e il superamento dell’altra. Che la morte sia la Notte, l’ha intuito anche R.M.Rilke. Riporto le sue parole su questo punto, contenute nella lettera del 13 novembre 1925: “La morte è la faccia della vita a noi opposta e per noi non illuminata” (Briefe aus Muzot, pag. 332).
[97]
C’è un segnale sulla via della Notte che dice: “Mi sembra che sia Dio che batte i tasti/ di quello che poi appare nella mente./ Sono le battiture che ignoriamo,/ conosciamo soltanto i risultati”. Ciò vale per quanto ci giunge dal Cielo, e perciò il misterioso battitore l’ho chiamato Dio. Per quello che arriva dall’Abisso ho preferito invece il nome Demone.
[98] In un modo che può sembrare assurdo, l’ingresso nella sfera dell’Essere è già unità delle due parti e quindi essa c’è già a quel punto. D’altronde c’è unità anche quando la metà nascosta sembra escluderla, perché appare soltanto la parte in luce, ma c’è anch’essa assieme a quel che appare, e quindi, di fatto, l’unità non manca: E’ soltanto cifrata, è un enigma non svelato, un problema irrisolto.
[99] Anche nella Gerusalemme celeste le cose non proiettano più l’ombra perché…
[100] Hanno tentato la scalata all’Olimpo i Giganti, figli di Gea, fecondata dalle gocce del sangue di Urano evirato, e i Titani. Ma gli uni e gli altri furono sconfitti: i primi da Zeus e da Ercole che si sono alleati contro di loro e colpiti e dispersi sono stati inghiottiti dalla terra; i secondi anch’essi da Zeus, che li ha rinserrati nel Tartaro e affidati alla custodia degli Ecatonchiri.
[101] “Per chi non abbia ancora studiato lo zen, le montagne sono montagne e le acque, acque. Ma se riesce a intuire le verità dello zen attraverso l’insegnamento di un buon maestro, allora per lui le montagne non sono più montagne e le acque non sono più acque; ma più tardi, quando avrà realmente raggiunto il luogo della pace (avrà cioè raggiunto il nirvana), allora le montagne ritorneranno ad essere ancora montagne per lui, e le acque, acque”.
[102] È opinione diffusa fra i dotti che lo stato primigenio fosse sì quello dell’unità, ma nel modo della natura, dove non ci sono individui ma specie. Un’immensa casa comune, mensa comune, giaciglio comune, e ciò vale sia per i miti che per le religioni.
[103] L’Essere è il risveglio,/quindi anche luce che sta al risvegliare/ e corolla di fiore che così appare./ Quindi anche bellezza/ e vaghezza che ti prende di donare./ Perciò anche amore/ e dolore che ti coglie di lasciare./ E si va alla ricerca di altra luce/ perché non si spenga il giorno della vita,/ e siamo giunti a una nuova sortita dell’Essere,/ alla luce della mente/ e per un varco ancora più recente./ Ma poi rimane soltanto il risvegliato/ e si andrà a cercare ancora/ dove si è occultato l’Essere,/ Fino a un risveglio
[104] S. Freud, Il perturbante, Bollati Boringhieri, pag. 249.


La metà nascosta — Terza e ultima parte

5 novembre 2011

Leggi la Prima parte
Leggi la Seconda parte

Egon Schiele, Autoritratto doppio (1911)

33. I tentativi di superamento del lato oscuro degli ultimi due secoli, presenti nelle opere che ho nominato e riassunto.

Dei tentativi più antichi ho parlato un po’ nelle presentazione e nelle pagine precedenti, e di più in altri libri: Il ciclo e il varco, Compendio e Circolo della conoscenza, e li indico qui a chi vuol saperne di più. Ma si è trattato in passato di avventure avvenute non nell’interiorità ma in campi esterni e lontani. Nel Cielo degli dèi, per esempio, o sulla Terra e nelle sue profondità, o ancora più giù, nel Tartaro. Mentre da un paio di secoli a questa parte c’è stato un avvicinamento fin oltre il confine fra il mondo e l’Io. Il demone, il mostro, la tenebra, l’ombra, il doppio, il sosia, il gemello sconosciuto, non li incontriamo più fuori ma in noi stessi, o ciò che poi appare esce di lì ed è come una proiezione, un fantasma, un ectoplasma, e i nomi con cui è stato chiamato bel li si addicono. Il luogo preciso è la nostra metà ignota, la faccia opposta e non illuminata, che non possiamo vedere o che a pochissimi finora s’è mostrata. Non solo non la conosciamo ma di essa normalmente ci sfugge anche la presenza, oppure gli volgiamo le spalle per non vedere e non sapere. Essa però è ormai l’arena dello scontro finale e quelli precedenti potrebbero essere serviti soltanto come allenamenti, o battaglie veramente accadute e vinte, ma con l’aiuto di potenze esterne. Per certi aspetti e forme la metà oscura non è neppure completamente invisibile o ignota. È, per esempio, la nuca rispetto al viso; il retro opposto al davanti; il procedere soltanto in una direzione con il passato che si chiude e si perde dietro le spalle, come la scia del mare dietro l’imbarcazione che avanza. È l’emergere dal sonno nella veglia pur non conoscendo il cammino che si è percorso dentro quel buio misterioso. Ma questi sono lati opposti antichi, ai quali lungo i millenni si è un po’ rimediato per ciò che attiene alla loro visibilità e alla possibilità di aggirarli da fuori. Così oggi ci vediamo la nuca o le spalle con lo specchio, riusciamo non soltanto a procedere ma anche a retrocedere come i gamberi, oppure ci volgiamo e si ritorna indietro, da certe altezze si scende, da certe profondità si risale. Ma non da tutte, dunque. Non quando sono l’inconscio e la morte. Inoltre, anche se siamo giunti a vedere la nuca con l’uso degli specchi, se si esce dal sonno, se abbiamo illuminato le strade della notte con luci artificiali per continuare il cammino dopo il tramonto, non perciò anche si conosce. Non perciò si sa perché siamo tabula rasa da un lato e dove andiamo ogni notte, perché conoscere significa avere esperienza diretta, aprirci al mistero, svelarlo. È come vedere il triangolo rettangolo, prima che Pitagora scoprisse il rapporto che esiste fra i suoi lati e lo dicesse. O molti hanno visto le oscillazioni del pendolo e una mela cadere prima che Galileo e Newton formulassero le leggi della caduta dei corpi e della gravitazione universale, ma solo dopo quei ciechi accadimenti, anche se erano sotto gli occhi di tutti sono stati svelati nel loro perché. Ebbene, anche nuca, sonno, tempo che ha una sola direzione, sono soltanto presenze antiche e misteriose e tali rimarranno finché non saranno aggirate ad occhi aperti e mente sveglia, finché oltre al tempo dell’andata non conosceremo anche quello del ritorno. Si saprà davvero solo alla fine del giro più grande, quello che sto qui descrivendo e di cui ho un po’ anticipato la meta e il risultato. Si saprà del sonno, cos’è, perché si entra in esso ad ogni giro, solo quando questa minore profondità e larghezza accesa solo a tratti da qualche sogno, diventerà visibile per intero da una quota più bassa, quella raggiunta per l’attraversamento della morte.
Comunque, non solo io ho un po’ svelato la meta dove siamo diretti e anticipato il momento dell’arrivo. Mi hanno preceduto gli antichi. Soltanto che io ho attribuito all’uomo quello che loro hanno sospettato appartenere agli dèi, a Giano bifronte per esempio, che ha una faccia che guarda il futuro e un’altra è rivolta al passato, e la seconda, in qualche raffigurazione è volto di donna.
Molte apparenze del lato oscuro sono state, dunque, superate, ma non quella che ancora non si vede come tenebra ma lascia soltanto segni del passaggio: corpi senza vita, che si disfano, croci nei cimiteri, dolori nei cuori, smarrimento nelle menti. Quelle che sono state superate in tutto o in parte: notte, sonno, inconscio, bene esprimono il lato oscuro, perché sono buie anch’esse, e perché siamo riusciti in qualche modo ad aver ragione di esse. Completamente o parzialmente è stato possibile anche misurarle e ordinarle: si sa quanto è lunga la notte, quando inizia e finisce, come varia il suo corso lungo l’anno; anche del sonno è noto quando inizia e come si svolge, quali sono le sue fasi e quante; e l’inconscio si è cominciato a sondarlo per ritrovare in quella tenebra avvenimenti scomparsi e riportarli alla coscienza. Ma della morte sono poche le notizie e, se non c’è la fede che le sostiene, sembrano soltanto fantasie.
Della morte si può dire con certezza che se non si riesce a superarla inghiotte. Perciò i personaggi delle opere letterarie che ho precedentemente nominato distruggono la donna amata, che è la possibilità che hanno di superare l’abisso, e cadono loro stessi in quel baratro. Oppure da quell’inghiottitoio della vita salgono i mostri delle Tenebre e sono essi a impedire il passo a chi si avventura. E siccome, ormai, in quell’oscurità ci siamo e soprattutto con essa che abbiamo a che fare. E in noi, siamo noi, e perciò non si può neppure confidare in qualcuno che come l’eroe antico vinca la mortale battaglia liberando così la terra di tutti, com’è accaduto in passato.
Passo a illustrare alcune intuizioni sulla possibilità d’uscita dal lato oscuro, contenute nelle opere di cui ho parlato, o in altre di quei tempi.

a) Il modo empirico per liberarsi dalla paurosa e insidiosa presenza del lato oscuro, pensato da Maupassant nella novella Lui, come s’è visto, è sposarsi, quello d’altronde che viene seguito normalmente e pressoché generalmente. Sposarsi è il superamento nei modi della natura perché lato oscuro è anche il cammino periglioso nel grembo materno; è il passaggio attraverso le forme primordiali della vita che ci hanno costituito ed espresso lungo le ere dell’evoluzione biologica, e che dalla posizione umana dove ci troviamo appaiono mostruose. Un cammino lungo e pieno d’incubi prima di arrivare presso l’uscita e l’ultimo tratto è il più difficile e pericoloso: un tunnel che separa due mondi diversi, quello interno dove chi sta per arrivare ha vissuto fino a quel momento nella protezione e l’altro esterno, e l’uscita potrebbe risultare fatale per lui. Lo era certamente fino a pochi decenni fa, prima che il corpo diventasse oggetto della scienza e della tecnica che ha trovato soluzioni ai pericoli antichi.
Ma di questo cammino che avviene nel grembo, che è uno dei tanti lati oscuri della natura, la natura è giunta a conclusione da tempi immemorabili e le forme mostruose che sono pietre di quel cammino alla fine si sono sciolte e mutate nel bambino che esce, nella luce che l’illumina, nel volto bello e sorridente della madre che l’accoglie. Mentre quello che stiamo compiendo ora avviene nel ventre dell’Occidente, nella sua metà misteriosa e tenebrosa, e siamo spesso mostri in quel vagare. Quelli che escono dalle pagine dei poeti e scrittori che ho precedentemente citato e quelli che si materializzano sempre più in mezzo a noi. Sempre più luogo di sviluppo di forme non ancora uscite dalle trasformazioni in atto per raggiungere una nuova identità l’Occidente dopo il Tramonto. Comunque io qui lancio frecce con la punta luminosa oltre la Notte, dico che si può uscire dagli Inferi. La capacità d’intendere il mutamento e di volerlo per ora sembra rara, perché ancora si pensa di rimediare al declino e alla caduta facendo ricorso alle categorie che hanno sostenuto e illuminato lungo l’arco Diurno. Ma non sono più sufficienti dentro il Buio.

b) Anche nel racconto intitolato Solitudine Maupassant intuisce che è comunque e sempre la donna − la sua compagnia e il procedere assieme −, che potrebbe aiutarlo ad uscire dal sotterraneo della vita dove si trova, e che sta percorrendo da solo a tentoni, nel buio, senza che appaia luce di sbocco. Sarebbe la fine della sua terribile solitudine. Ma è illusorio, egli dice. Illusorio – dico io ora −, perché non viene percepita come la metà di se stesso che manca e che si può trovare. Perché ciò accada è necessario arrivare alla fine della circumnavigazione di sé e alla coincidenza degli opposti.
Oppure − continua Maupassant − una luce s’accende ad intermittenza anche durante il cammino, quella dell’amore, o comunque quella dell’attrazione fisica e del desiderio della congiunzione, ma, egli stesso costata, è illusorio un risultato così, vale a dire dettato, imposto, e non frutto di ricerca e di scoperta. Soprattutto nel secondo caso è illusorio, come ben si sa, quando dopo lo sfogo la donna diventa addirittura ingombrante e si vorrebbe disfarsene. O comunque, come ha scritto Maupassant, dopo basta una parola sola a rivelarci l’errore, a mostrarci, come un lampo nel buio il buco nero fra noi.
Ed ecco la spiegazione di una situazione siffatta. Perché l’amore, normalmente e pressoché generalmente, non è luce dell’aperto, quella di fine tunnel. È lampada interna lungo il cammino misterioso della natura, che s’accende nell’oscurità e si spegne in essa lasciandoci di nuovo nelle tenebre. Di tal genere sono soprattutto le mere congiunzioni sessuali e la natura si serve di esse perché qualcosa avvenga in un’altra sfera, nel ventre della donna. Lì si compie ciò che è prescritto da tempo immemorabile, ma allora a nostra insaputa. Il tunnel verrà percorso per intero, gli opposti s’incontreranno, la congiunzione avverrà, le due metà diventeranno una cosa sola.
Giunti a questo punto, è superfluo che qualcuno faccia presente quasi a smentita che non sempre accade così, che sono innumerevoli i casi di fallimento, e che, dunque, anche la via della natura ha problemi e difficoltà simili a quella che si è aperta nel pensiero di qualcuno dopo il Tramonto. No, la via della natura è intera, da principio a fine, e si parte, si arriva e si sbocca. E i fallimenti, allora? Soltanto un metodo, che non tiene conto di quanti partono perché è importante soltanto che qualcuno arrivi. Anzi si abbonda enormemente alla partenza, più sono i partecipanti più sembra degna l’avventura, come accade anche quassù con le maratone di New York e di Milano, ma il vincitore è sempre uno solo. Nel caso degli spermatozoi, sono duecento milioni i partenti e anche lì uno solo arriva. La natura non bada a spese e se ci sono impedimenti o fallimenti, essa ripete le gare, le moltiplica, instancabilmente, in campi diversi, con nuove motivazioni. Oggi con le regole della democrazia. Dicono infatti i musulmani che conquisteranno il mondo con le pance delle loro donne, e sta avvenendo davvero così, perché ciò che oggi vale anche negli ordinamenti umani è la quantità.
E i personaggi che di tanta commedia sono la parte più in vista, vale a dire gli uomini e le donne che congiungendosi danno il via alle gare nascoste e misteriose! Sono solo comparse, quasi tutte. Solo degli obbedienti ai segreti impulsi. Può sembrare strano, ma è quello che succede: si recitano di qua piccole parti di una commedia il cui svolgimento completo avviene altrove e perciò di essa non si sa quasi niente. Per questo motivo i presunti protagonisti sono solo dei fuoriuscenti nel palcoscenico della vita, da quinte che sono buchi neri, ignoti a se stessi nella veste di scena che indossano.

c) Nella favola di Andersen intitolata L’ombra, c’è un modo di superare il lato oscuro che solo la poesia poteva intravedere. La figlia del re, che nelle favole è la donna per eccellenza, non la conquista il filosofo, da cui l’ombra s’è staccata, ma l’ombra stessa. Ora bisogna riandare a quanto ho già detto dell’ombra e di chi l’ha persa per capire il significato del tentativo compiuto da Andersen, che se non è arrivato alla soluzione però gli è andato vicino. Comincio dal filosofo – così è chiamato nella favola −, colui che ha perso la sua ombra ed è solo una metà: un impegnato nelle opere del giorno, dunque, e a quel tempo non era ancora sceso il buio. Uno dedito alla luce della ragione, che molto più di quella del sole permette di distinguere, ordinare e misurare le cose che il sole fa apparire agli occhi di carne, ma insufficiente ad illuminare anche il Buio che stava arrivando. Un filosofo illuminista, si potrebbe concludere. Ci troviamo, infatti, con questa vicenda nel secolo dei lumi, che può essere riassunto con la frase: la ragione umana ha in sé tutti i lumi per dirigere la sua vita e il suo pensiero. E si trattava invece degli ultimi accecanti bagliori di quell’Astro al Tramonto. Pochi decenni dopo, infatti, c’erano già altri titoli che prevalevano: Tramonto dell’Occidente, Eclisse della ragione, La crisi delle scienze europee, Breviario del caos.
A questo punto si può ben capire perché il filosofo ha perso l’ombra. Perché è venuto meno il potere della ragione che in qualche modo lo esercitava anche sul lato oscuro, magari soltanto per confinarlo nella presunta palude dell’irrazionale, e quando esso ha l’aspetto di donna per sottometterla e usarla a piacimento, com’era accaduto per millenni. Un distacco quello dell’ombra che proprio da quel tempo ha cominciato a moltiplicarsi nella società e poi è dilagato a macchia d’olio. Oggi ha invaso tutto l’Occidente, ed anzi si sono invertite le parti. È il lato oscuro che domina e minaccia. Una minaccia, d’altronde, che è già presente nella favola: infatti l’ombra non solo conquista la figlia del re a danno del suo antico padrone, ma lo fa condannare a morte.
Se ora si esamina un po’ la natura dell’ombra, ecco cosa c’è di completamente nuovo, sia pure manifestato nei termini pressoché indecifrabili di una favola. Essa è, dunque, l’altra metà dell’uomo, vale a dire quella femminile. Perciò è l’uomo femmineo che conquista la figlia del re e si unisce a lei in matrimonio. Quasi un amore saffico quindi il finale della favola, e sotto l’aspetto qui perseguito il tentativo d’attraversamento del lato oscuro per raggiungere l’unità in quel modo, non completamento privo di senso. Infatti ai nostri giorni si sta manifestando anche così l’avventura in corso, anche se si tratta d’espedienti che non raggiungono lo scopo, anche se sono solo tentativi mal riusciti. Altri metodi simili sono gli slittamenti dell’uomo verso la sua metà femminile e della donna verso quella maschile che nei casi più evidenti danno vita a tante strane commistioni di uomini con uomini e donne con donne, o anche di coppie formate di un uomo e di una donna, ma dove i primi hanno rinunciato a quella che è stata la loro caratteristica di un tempo per poter convivere con le donne che rispetto a un recente passato hanno invece sviluppato di più la loro parte maschile.
Soltanto che tutto ciò sta avvenendo senza che se n’abbia piena coscienza, senza che siano manifeste le cause prime del mutamento che sono il Tramonto dell’Essere e il passaggio dal Giorno alla Notte. Quasi spinti perciò, seguendo segreti impulsi come quelli che adopera la natura sui singoli per continuare la specie. Ma davvero è tutto come prima, con l’imperante natura che comanda e i suoi figli che obbediscono ricevendo in cambio il piacere dei sensi, come gli animali del circo le caramelle dopo ogni esercizio riuscito? Non proprio, io direi, se c’è stata la favola di Andersen, quella di Novalis, i racconti di Maupassant e di altri, le intuizioni dei poeti, i tentativi dei filosofi, ed ora la soluzione che qui propongo. Tuttavia la stragrande maggioranza va avanti senza sapere seguendo la natura per cui ecco la grande novità: c’è cultura e natura assieme in questo andare, specie e individuo stanno collaborando. Perciò ci sarà non soltanto eterno ritorno della specie, ma anche del singolo andando avanti in questo nuovo modo.

d) Nella favola Giacinto e Fiordirosa di Novalis, il lungo viaggio nella “terra del mistero” si conclude con il ritorno al luogo di partenza e soprattutto a Fiordirosa. Così ritrovata, non è più soltanto la giovane di cui era innamorato e che aveva lasciato per trovare Iside, “la madre delle cose, la vergine velata”, ma è lei stessa quella divinità. Ecco a cosa è servito il lungo e periglioso viaggio: a trovare l’altra parte di sé, che poi è anche un ritrovare se stesso. A ciò corrisponde anche il significato che ha la fiaba per Novalis: vertice della conoscenza poetica e anticipazione profetica della nuova età dell’oro. La quale per Novalis è il superamento della contrapposizione tra natura e spirito, fra due parti, insomma, che ora sono separate e spesso in lotta mortale. Nella fiaba la nuova età dell’oro è il sollevamento del velo di Iside e compare Fiordirosa, o anche se stesso. Da questa coincidenza degli opposti comincerà la nuova visione del mondo, quel che apparirà agli occhi di chi non è più sconosciuto a se stesso per metà.

e) Ma è soprattutto negli Inni alla notte che il lato oscuro, che si chiama anche morte − quella della fidanzata Sophie scomparsa in giovanissima età −, appare come Notte e le due oscurità s’incontrano e si fondono. Notte più bella del giorno, sacra, ineffabile arcana, germe per “diventare Io”. “Senza tempo e senza spazio è il (suo) dominio”, mentre “misurato fu alla luce il suo tempo” [89]. Notte che è donna: è Sophie. Notte che con volto severo si piega sul poeta e “sotto i riccioli che senza fine s’intrecciano, mostra la cara giovinezza della madre”. Ecco finalmente un primo aspetto noto e caro dell’impenetrabile segreto di sempre, quello delle origini.
C’è, dunque, un intreccio d’antiche oscurità − notte, sonno, morte −, che cominciano ad apparire con i volti femminili di chi se n’è andato e verso cui il poeta si dirige e dove vuole entrare anche lui. Anche se ciò dovesse comportare la rinuncia della vita, anche se fosse necessario privarsi di essa per seguire il suo sogno. “Il vero atto filosofico è un suicidio – ha detto Novalis. Questo è l’inizio reale d’ogni filosofia, a tanto mira il bisogno del discepolo in filosofia, poiché solo questo atto risponde a tutte le caratteristiche dell’azione trascendente” [90].
Negli Inni alla notte ci sono tante intuizioni del cammino perché esso non sia solo andata. Ci sono tante indicazioni per il ritorno a casa circumnavigando la notte. Seguendo perciò l’altra metà del Cielo buia e sconosciuta. E a questo punto non solo nel modo stabilito dalla natura, quello nel ventre della donna fino all’uscita, ma anche in quello che se lei è il cielo della notte, è tutto il tondo cielo che è necessario conoscere per poter ritornare; se è l’altra metà, e soltanto su essa che si può volgersi per raggirare l’abisso. Così, infatti, egli conclude il canto: “Tu mi hai rivelato che la notte è vita – mi hai fatto uomo – consuma con ardore spettrale il mio corpo, così che io mi congiunga etereo più intimamente con te e la notte nuziale duri in eterno” [91].

f) Nella Principessa Brambilla di Hoffmann il superamento del lato oscuro è il ritorno “in patria” di re Ofioch e della regina Liris . “Eravamo in una contrada lontana e deserta, oppressi da terribili incubi, ed ora ci siamo ridestati in patria… Ora finalmente ci riconosciamo in noi stessi e non siamo più come creature abbandonate!– e così dicendo si abbracciarono con l’espressione dell’amore più fervido”. Il primo segno del ritrovamento e ritorno è stato il loro riso, che prima era l’espressione dell’innocenza inconsapevole, di un abbandono ignaro ed ottuso alla vita e poi diviene simile al riso del pastore di Così parlò Zarathustra. “Se la luminosità che splendeva nel volto della regina Liris e per la prima volta conferiva vera vita, vero fascino celeste ai suoi bei lineamenti, non avesse già dimostrato com’erano cambiati i suoi sentimenti, ognuno l’avrebbe compreso ora, dalla maniera come essa rideva. Giacché questo riso era così profondamente diverso dalle risate con cui una volta essa aveva tormentato il re, che molte persone intelligenti suggerirono l’idea che non fosse lei a ridere, ma piuttosto un essere meraviglioso nascosto nel suo seno. E a re Ofioch successe su per giù lo stesso”. [92]

g) Nel Faust di Goethe, è Margherita che salva Faust dopo che la prima clausola del patto con Mefistofele ha termine con la morte del firmatario, ed entra in vigore la seconda. La prima suonava così: “Io m’impegno di qua al tuo servizio e di stare al tuo cenno senza mai tregua e riposo”. E la seconda: “Ma quando ci ritroveremo di là, mi dovrai rendere la pariglia”. Quindi toccava ora a Mefistofele di disporre di Faust a suo piacimento, ma soprattutto per le preghiere di Margherita alla Madonna perché lo salvi, il patto viene annullato e Faust non diverrà preda del Signore delle tenebre. Ancora una volta c’è la donna in fondo all’avventura e dipende da lei la conclusione. Dipende dall’eterno femminino con cui Goethe concluderà la sua opera. [93] Dopo il salvataggio, il viaggio fino all’uscita nel regno celeste Faust lo farà assieme a Margherita, incaricata dalla Madonna di fargli da guida. In due, dunque, per il resto del viaggio, fino alla rinascita. Ma non è così che accade sempre in natura quando si sono superate tutte le prove richieste e si arriva alla meta! E la meta non è sempre la donna, la metà nascosta che appare e così diventa soluzione e premio!
C’è la cellula femminile che attende lo spermatozoo alla fine del suo viaggio solitario e pieno d’insidie e di pericoli, e dopo averlo accolto comincia la fusione e il cammino fino a nuova vita. Per congiungersi con l’ape regina che in un mattino luminoso si lancia nel volo nuziale, ebbra d’altezza, ben diecimila fuchi l’inseguono levandosi da tutte le arnie del luogo. Ma uno solo la raggiunge e la feconda, quello che riesce a seguirla fin sopra le nubi, oltre il volo degli uccelli. Per raggiungere le acque sorgive che è la meta della loro avventura, i salmoni, che vivevano nelle acque profonde e tranquille dell’Atlantico lasciano quella pace e sicurezza. Maschi e femmine migrano a migliaia, salgono in superficie, si dirigono verso le foci dei grandi fiumi e superando rapide e cateratte li risalgono, fino alle sorgenti montane. Per essi l’acqua dolce è irrespirabile e molti muoiano prima di riuscire a modificare il loro apparato respiratorio, molti cadono nelle secche, altri sono trascinati da improvvise piene, altri ancora sono fermati dalle chiuse, sbranati dai lucci, dalle lontre, dagli uccelli rapaci, dagli orsi che li attendono ai varchi. Ma quelli che raggiungono la meta depongono le uova, le fecondano, e dalla coppia nasce il molteplice, l’innumerevole.
Così alcune delle grandi imprese che hanno aperto le vie della vita sulla terra e che vengono ripetute per mantenerla e conservarla; e perché su esse altre di tal genere vengano ideate e intraprese. Simili a quelle sono state infatti le nuove avventure dell’uomo in una luce che è più solo quella del sole e delle stelle. Ne nomino alcune.
L’odissea di Ulisse che per ritornare nella sua isola, nella sua casa e dalla sua sposa, ha attraversato l’isola dei Latofagi dove l’insidia era l’oblio; quella dei Ciclopi, i mostri figli della Notte; quella di Circe che tanti anni lo ha trattenuto con le catene della seduzione; quella dei Feaci dove c’era la fanciulla Nausicaa che tratteneva, cioè la bellezza. Ha attraversato il paese dei Cimmeri dove il giorno non appare mai, ed è sceso nell’Ade per trovare Tiresia e avere da lui le indicazioni della via ritorno. Non c’è aspetto del lato oscuro che non abbia superato.
L’attraversamento dell’Inferno e del Purgatorio di Dante, per ritrovare Beatrice e salire con lei i gironi celesti fino a dove tutto appare
Le giostre spesso mortali dei cavalieri medievali, dove il premio era la donna vagheggiata o amata.
Le avventure nella foresta dei cavalieri della Tavola rotonda, che la penetravano dove l’oscurità era più fitta, scegliendo i punti dove non c’erano vie e sentieri, e combattevano i mostri che essa nasconde, li vincevano e liberavano l’amata che tenevano prigioniera.
Simile a questi anche il cammino di Faust, che l’ha portato fino alla celeste Margherita. E c’è qualcosa di più che apparirà anche in questo scritto, alla fine: c’è poi il cammino assieme di Margherita e Faust fino al Paradiso.
E così è anche la mia avventura. M’accorgo d’aver attraversato la Notte più lunga e tenebrosa per vedere in te il mio segreto e quello del mondo percepito, che normalmente presenta solo una faccia.

h) In Così parlò Zarathustra, il premio per chi percorre tutto il ciclo dell’eterno ritorno fino al punto dove il passato e il futuro s’incontrano, compreso quindi il lato oscuro, è la visione che appare dell’uscita. Lì Nietzsche ha visto il portone carraio. Però quel passaggio era chiuso e perciò chi arriva, spinto in un giro che mai si ferma, riprenderebbe l’infaticabile girotondo se non vede, o il portone non s’apre. Come, infatti, accade di solito: i passanti neppure sanno di ritornare e tanto meno s’accorgono di varchi in quel giro.
Terribile ripetizione ha chiamato Nietzsche l’eterno ritorno, il peso più grande. Quello che ha trascinato anche lui. Ma prima di essere ripreso dalla bufera infernale che mai non si ferma, la possibilità di superarla l’ha almeno intravista. È la visione notturna, nel profondo silenzio di mezzanotte, del pastore, cui un serpente, simbolo dell’eterno ritorno, s’era infilato in bocca. E l’uscita dal terribile incatenamento è il morso del pastore alla testa del serpente. Un morso che la stacca e lui la sputa lontano. Così liberato, da oppresso che era e sul punto di soffocare, “balzò in piedi. Non più pastore, non più uomo, − un trasformato, un circonfuso di luce, che ‘rideva’! Mai prima al mondo aveva riso così un uomo, come ‘lui’ rise! Oh, fratelli, udii un riso che non era di uomo, − e ora mi consuma una sete, un desiderio nostalgico, che mai si placa. La nostalgia di questo riso mi consuma: come sopporto di vivere ancora! Come sopporterei di morire ora!”.

Protagonisti che, rispetto agli antichi, sembra abbiano fallito le loro prove questi che ho appena nominato, riassumendo le loro opere, o solo alcuni sono giunti ad intuire delle possibilità di salvezza. Protagonisti che a differenza dei grandi eroi del passato hanno ceduto alle Tenebre, alla Notte, o sono stati ghermiti da esse, oppure hanno barattato il loro aldilà sconosciuto per una continuazione della vita e della gioventù in questo mondo, nei modi che si è visto.
Prima di arrivare a vedere in modo nuovo la donna, quella in noi ma che appare anche fuori in tanti modi, si è dovuto percorrere il tenebroso, pauroso, misterioso cammino che negli ultimi due secoli è stato ombra, sosia, doppio, mostro, e sottostare ai patti con il principe delle tenebre. Quel cammino, insomma, che ho descritto e che ha impegnato, sconvolto, ottenebrato e portato alla morte prematura, poeti e scrittori dei secoli scorsi, quelli che ho citato ed altri. Eroi vinti dai mostri che dovevano affrontare, ma qualche risultato, come s’è visto, è stato ottenuto, non sufficiente tuttavia a farli giungere vittoriosi e indenni, e in altri casi a salvarli.
Le difficoltà incontrate, le paure, le angosce, di chi si trovato ad affrontare il suo lato oscuro hanno influito anche sul loro stato fisico e sulla durata della loro vita. Hoffmann temeva d’impazzire e “talvolta credeva di avere di fronte l’immagine speculare di se stesso in carne ed ossa, il suo doppio, e altre figure spettrali mascherate”. [94] Quando scriveva la notte, spesso svegliava la moglie affinché li vedesse anche lei. È morto a quarantacinque anni di una malattia nervosa.
Allan Poe negli ultimi dieci anni della sua vita si diede all’oppio e all’alcool, viene trovato per le strade di Baltimora in stato di incoscienza e in preda a una crisi di delirium tremens. Ricoverato in ospedale, muore la mattina del 7 ottobre a soli quarant’anni.
Maupassant portava in sé “quella doppia vita interiore che è al contempo la forza e la miseria dello scrittore. Scrivo perché sento, e soffro di tutto ciò che esiste, perché lo conosco fin troppo bene e soprattutto perché io, senza poterlo godere, lo vedo in me stesso, nello specchio dei miei pensieri”. [95] Ricorse con sempre maggior frequenza ad ogni sorta di narcotici e come egli stesso ebbe ad affermare, alcune delle sue opere sarebbero state scritte sotto l’influenza di tali sostanze. Tentò il suicidio. Morì anch’egli giovane, all’età di quarantatré anni.
Nietzsche manifestò gravi segni di squilibrio mentale fin dal 3 gennaio 1889 a Torino. Ricoverato in una clinica per malattie nervose prima a Basilea e poi a Jena, venne dimesso nel marzo del 1890. Le sue condizioni però continuarono a peggiorare, era soggetto a frequenti attacchi d’ira, urlava, era violento. A partire dal 1893 rimase immobilizzato a letto, accudito dalla madre e dalla sorella. Morì il 25 agosto 1900.
Dunque poeti e scrittori del doppio, hanno spesso pagato con la vita breve o con la caduta nel vizio l’incapacità di venire a capo dell’abisso, vincendo i mostri che salivano dalle tenebre. Le loro poesie e racconti sono i segni premonitori di una sconfitta annunciata. Oppure, almeno nel modo empirico che la natura ha concesso e perciò senza una vera conoscenza della soluzione, si è intuito che è la donna che salva, e viceversa, perché anche lei non può rimanere a metà. Quel che d’altronde in natura accade sempre, ma questa volta è stata intuita la validità dello stesso metodo anche per il ciclo della conoscenza e alcune pietre miliari di esso sono state piantate.
Una decadenza perciò la situazione dei moderni rispetto agli antichi? Sotto un certo aspetto, sì. C’è da notare però che il lato oscuro ora non è più la metà ignota della terra com’era ai tempi di Gilgamesh, di Ulisse, di Cristoforo Colombo, non è più il sotto terra dov’era posto l’Ade e l’Inferno dantesco, o la faccia nascosta di Zeus, che neppure lui sapeva di avere. Ma ora il lato oscuro è il se stesso ignoto, è la propria metà nascosta, è la sconosciuta anima. Questo appare chiaramente in tutte le opere che ho nominato e riassunto, ma specialmente nel Faust, nel Ritratto di Dorian Gray, dove i protagonisti vendono l’anima al diavolo in cambio della giovinezza e di eccezionali poteri di cui far uso nella parte manifesta.

[Continua]


[89] Novalis, Inni alla notte, II, Mondadori, 1982, pag. 70.
[90] Novalis, Opera filosofica, I, frammento 54, Einaudi, pag. 345.
[91] Ivi, pag. 69.
[92] E.T.A. Hoffmann, La principessa Brambilla, Einaudi, pag. 61. Così ha commentato il mutamento Claudio Magris nella nota introduttiva: “Prima della caduta e del riscatto, le risate opache e incessanti di Liris erano state l’espressione dell’innocenza inconsapevole, di un abbandono ignaro ed ottuso alla vita; dopo il maleficio e la liberazione, con l’esperienza della tragicità esistenziale e del suo superamento, la gioia vitale di Liris diviene un riso Zarathustriano, un’ebbrezza cosciente dei beni e dei mali del mondo eppur esultante “in essi e con essi”: l’estasi dionisiaca che accetta il dolore e ne fa una fonte di felicità, che fissa un limpido sguardo sulla vita e intona un nietzcheano Ja – und Amen – Lied.
[93] “Tutto il fuggente/ non è che simbolo: qui l’indigente vita si fa, l’inesprimibile/ qui realtà; Femineo eterno/ ci trae al superno! (J.W. Goethe, Faust, Mondadori 1941)
[94] O. Klinke, Hoffmanns Leben und Werke vom Stanpunkt eines Irrenarztes, Halle 1902.
[95] Sur l’eau, 10 aprile.

La metà nascosta — Terza e ultima parte

2 ottobre 2011

Leggi la Prima parte
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Ermafrodito dormiente

Verso il superamento e l’illuminazione del lato oscuro. Da ciò il ritrovamento anche fuori della metà originaria anticamente perduta, la reintegrazione dell’unità e la continuazione del cammino nella luce dell’Essere, dove non c’è dualità e molteplicità

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Coincidenza degli opposti è anche quella di vita e morte, i due estremi più grandi. Perciò se si arriva ad una delle tante unità più facili da raggiungere, si apre la via anche dell’ultima. Ecco perché ho indicato fin dall’inizio quella fra uomo e donna, la più vicina, con cui esistono già collegamenti naturali e continui.

Quella fra uomo e donna è, poi, l’unione più ricercata, che viene perseguita e realizzata normalmente e continuamente. Da tutti nel primo modo, quello di natura, e da molti anche nel secondo, vale a dire quello della ricerca dell’anima gemella, e anch’esso qualche volta è riuscito, come si è visto fin dall’introduzione e poi di seguito, anche se si è sempre trattato d’avvenimenti accaduti come fuori del loro ambiente, come fiori primaverili che sbocciano in pieno inverno, in nicchie protette, esposte al sole, e anch’io ne ho visti. Se è già accaduto e accade, non c’è da disperare per il futuro. Anzi io do queste indicazioni per favorire e indirizzare la ricerca dell’altra metà e, una volta individuata, cercare e riconoscere quel che davvero ci lega. La qual cosa non accade mai solo sul piano fisico, anche se ci sono anche lì molti indizi e segni. Ma poi bisogna salire gli altri piani. Io sono arrivato a quello dove è in atto un mutamento: il passaggio dalla luce della ragione a quella dell’Essere, che ha di più rispetto all’altra: in essa si pensa e si vede nel modo dell’unità delle parti e non della loro contrapposizione. La strada ormai c’è e l’ho segnata con qualcosa di più, io spero, delle briciole di pane adoperate dai fanciulli della favola di Hänsel e Gretel, che poi gli uccelli del bosco hanno beccato. Spero che siano pietre miliari le mie che resteranno, ma poi potrebbero appartenere a un cammino troppo lontano da quelli normalmente battuti. Anzi stanno proprio là i segnali e allora che ci pensino il destino e la necessità a proporli o a costringere ad essi, pena altrimenti la continuazione in questo stato, con la vita breve e la perdita d’ogni ricordo delle precedenti. Invece, per quanto riguarda la ricerca della metà sul piano che ho chiamato delle metamorfosi nel senso d’Ovidio, o delle mutazioni nel senso dei contemporanei ecco la sorpresa: non l’ho trovato vuoto. Lo immaginavo così o quasi, perché non ho mai incontrato nessuno lungo il cammino da cui sono giunto, che poi, come dirò fra poco, è simile a una corda molle gettata fra le due sponde dell’abisso più grande che si chiama morte, e prima di me non c’era neppure quella. Perché, inoltre, è la via della filosofia, o meglio della sua prosecuzione oltre il Giorno della ragione dopo che l’Essere è tramontato, cui s’è aggiunto l’aiuto diretto della sapienza. E i grandi filosofi del ventesimo secolo che mi hanno preceduto, come ho già raccontato e come dirò meglio in seguito, non sono riusciti a compierlo per intero. Si sono fermati sulla linea di Mezzanotte, e solo in sogno o come divinando l’hanno superata. Se, dunque, nemmeno loro sono riusciti a superare l’Abisso, potevo a ragione immaginarmi che non avrei trovato nessuno. Invece la sorpresa. Saranno arrivati da altre vie, mi son detto. Ci sono pure quelle dell’Oriente, scorciatoie impervie che solo i maestri conoscono e sono loro a far da guida. Oppure le ha portate il vento del cambiamento, quello che misteriosamente spira dove vuole e quando vuole. Perché per giungere alla meta non è necessario che si sappia in modo chiaro e distinto. Si può essere anche essere trasportati, come un seme da un continente all’altro attraversando l’oceano, se ci sono correnti ascensionali, e meglio ancora se un vortice solleva fino a dove non ci sono più perturbazioni e si comincia a veleggiare fino a nuove terre della vita.

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Ho affermato che raggiungendo l’unità di uomo e donna nel modo della coincidenza degli opposti, vale a dire consapevolmente, si ottiene anche quella di vita e morte, e a ben guardare non c’è neppure da sorprendersi più di tanto di questo mio dire. Perché uomo e donna anche nelle congiunzioni che già avvengono, perfino in quelle che si limitano al puro e semplice rapporto carnale, sono già il superamento dell’Abisso quando il risultato è un’altra vita. Lo è nel modo della natura madre delle specie, ma indubbiamente è così, perché continua la vita che proviene dall’ignoto. E anche le congiunzioni che avvengono nella dimensione dell’amore, quelle dei due corpi e un’anima sola, seguono per prima cosa la via della natura e il risultato è lo stesso. Un bimbo nasce nel primo caso e uno nasce nel secondo. Però nell’ultimo ci dovrebbe essere qualcosa di più. Una voce s’aggiunge al muto ciclo della natura. Voce che può diventare segnale per chi si deve svegliare dopo la Notte, e quando sente il trillo può ricordare che è l’ora che ha deliberatamente predisposto prima di lasciare la precedente vita.
Io però sono anche dell’idea che l’eredità del segnale e dell’ora, una volta stabilita e assegnata, sarà trasmessa e potrà essere usata anche indipendentemente dalla collaborazione diretta del singolo, quella che possiamo dare nel corso della nostra vita, vale a dire indipendentemente dalla posizione che uomini e donne occupano nella scala dell’amore. Indipendentemente anche dal nostro cercare qui ed ora il lato oscuro nelle dimensioni che ho detto. Come avviene per ogni eredità d’altronde, compresa quella della luce della ragione che è toccata a tutti gli abitanti dell’Occidente fin dall’inizio. Sarei anche in sintonia con ciò che si dice dello Spirito, che soffia dove vuole e quando vuole, o anche confermerebbe quanto gli antichi pensavano dell’anima: che essa scende dal cielo quando un corpo si forma sulla terra. Tuttavia il metodo di preparare quell’evento qui e ora aiuta certamente, anzi è qui che si costruisce la via per chi arriva da lontano.

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Dell’unità uomo-donna, uguale a essere che può generarsi da sé ed è perciò immune dalla morte, ci sono esempi nelle religioni, nei miti, nelle dottrine segrete, nella sapienza, nell’arte. Ecco una breve escursione in quelle remote plaghe. Gli dèi sono androgeni per loro essenza. “Poiché tutti gli attributi coesistono nella divinità, si deve precedere che coincidano in essa, sotto forma più o meno manifesta, anche i due sessi”,[78] ha scritto Mircea Eliade nel suo Trattato di storia delle religioni. E più avanti: “Sono innumerevoli i casi in cui la divinità riceveva il nome di “padre e madre”[…]. “Moltissimi miti raccontano come la divinità trasse da se stessa la propria esistenza, modo semplice e drammatico di affermare che la divinità basta completamente a se stessa. Lo stesso mito ricomparirà, basato questa volta su una metafisica raffinata, nelle speculazioni neoplatoniche e gnostiche, alla fine dell’antichità”. [79] Se tutti gli dèi erano androgeni, alcuni mostravano apertamente questa loro natura che era il fondamento della loro immortalità, anche se poi molti preferivano abitare stabilmente la dimora celeste, tanto che il loro lato oscuro era perfino dimenticato e sconfinava nel mistero. Di quelli che non la nascondevano o ignoravano ne nomino alcuni.
In Grecia Dioniso, con le sue discese agli Inferi e risalite, paragonabili ogni volta ad una morte seguita da risurrezione. “La natura di Dioniso esprime l’unità della vita e della morte, e perciò anche la loro alternanza, e l’apparire e lo scomparire come una moneta che lanciata in aria cade con una faccia o con l’altra. Per questo, Dioniso costituisce un tipo di divinità radicalmente diverso dagli Olimpi. Era forse, fra tutti gli dèi, il più vicino agli uomini? In ogni caso ci si poteva avvicinare a lui, si giungeva a incorporarlo, e l’estasi della mania dimostrava che la condizione umana poteva essere oltrepassata”. [80] In Grecia, come Dioniso anche Ermafrodito, il figlio di Ermes ed Afrodite, [81] e lo stesso Eros, il dio dell’amore (il primo degli dei, secondo Platone). [82]
Nel pantheon indiano la più importante copia divina Shiva-Shakti, nella manifestazione chiamata “il Signore Mezzo Donna”, è rappresentata con un unico corpo. Shiva ne è il fianco destro, la sua sposa quello sinistro.
In Egitto bisessuale era Horus, nato da Iside e da Osiride dopo il suo smembramento e successiva ricomposizione in uno stato di vita latente, di vita e morte assieme. E il figlio, somigliante al padre, era, appunto, fra le altre cose, bisessuale. Uomo e donna assieme: e non è la coppia uomo-donna, quando si uniscono, quando si fondono nell’amore, un giro intero, vita e morte assieme che si succedono ininterrotte!
Il dio del tempo illimitato degli Iranici, Zurvan, che gli storici greci traducevano con Cronos, era anche lui androgino. Da Zurvan sono poi nati i due fratelli gemelli, Ohrmazd e Ahriman, rispettivamente il dio della luce e quello delle tenebre, che perciò hanno anch’esse un’origine comune. Gli dèi che le simboleggiano lo fanno intendere chiaramente: l’una e l’altra sono solo aspetti diversi della stessa realtà che si danno il cambio sulla scena. Per chi le osserva isolatamente, sembrano separate e in conflitto, ma il saggio coglie la loro origine comune, anzi un solo medesimo essere, visto sotto il duplice aspetto di manifestato e non manifestato.
Se dalla religione passiamo al mito, in esso una unità siffatta l’ha raggiunta Tiresia. Si narra che un giorno mentre camminava nella foresta vide due serpenti che si accoppiavano. Pose il suo bastone tra essi e fu trasformato in una donna. Visse come una donna per un certo numero di anni. Poi, mentre Tiresia donna camminava nella foresta, vide ancora una volta due serpenti accoppiarsi: pose tra loro il suo bastone e fu di nuovo trasformato in uomo. In tal modo uno dei più grandi veggenti che il mito ha prodotto, cui si è rivolto anche Ulisse per sapere se sarebbe ritornato alla sua isola e alla sua casa, ha conosciuto il suo lato oscuro: la donna quando si trovava nelle sembianze di uomo e viceversa, e perciò poteva divinare. Il tempo era un tutt’uno in lui, era il cerchio, il futuro che incontra il passato, perché in un cerchio allontanarsi significa tornare. Conoscenza del futuro quello di Tiresia, o più in generale del lato oscuro, che neppure gli dei possedevano, né quelli del celeste Olimpo, né quelli del profondo Tartaro, perché i primi erano solo nella luce e gli altri solo nelle tenebre, mentre Tiresia aveva i piedi in entrambi i domini. Perciò un giorno anche il sommo Zeus si rivolse a lui perché fosse arbitro in una controversia sorta fra lui e la moglie Era. Il motivo della contesa suonava così: chi godeva di più nel rapporto sessuale, se l’uomo o la donna. E ovviamente nessuno dei due aveva prove e argomenti determinanti da far valere, poiché ognuno conosceva solo una faccia della medaglia, vale a dire il lato dove si trovava. Tiresia, che essendo stato trasformato dai serpenti prima in donna e poi in uomo, possedeva la conoscenza di entrambi e sapeva perciò anche quel che li distingueva, quindi più di quanto sapessero le divinità ognuna per sé, così rispose: “Ebbene, la donna, e nove volte più dell’uomo”. Ad Era non piacque il verdetto dell’indovino e lo fece diventare cieco. Allora Zeus, per compensare l’ingiustizia, diede a Tiresia il dono di profetare, vale a dire di conoscere nel presente il passato e il futuro. Quindi Tiresia è stato un aspirante all’immortalità e uno dei primi che in qualche modo l’ha raggiunta, anche se Ulisse l’ha trovato negli Inferi assieme agli altri defunti. Ma si trattava di un’ombra speciale, perché tutte le altre s’aggiravano come vani spettri dimentichi di tutto, ma a lui Proserpina ha concesso di non perdere il senno antico. [83]
Nel campo della sapienza, Ermete affermò che tutti gli esseri, sia animali che non animali, hanno i due sessi, perciò ritenne che Dio, la causa di tutte le cose, unisse in sé indissolubilmente il sesso maschile e quello femminile, di cui egli credeva che Cupido e Venere fossero gli aspetti visibili agli uomini. E Valerio Romano sostenendo il medesimo principio, cantava Giove onnipotente come Dio genitore e genitrice [84].
Nella Gerusalemme celeste l’albero della conoscenza del bene e del male, − che nel Paradiso terrestre rappresentava gli opposti, il bene e il male ma anche ogni altro, che è stato la causa del distacco di Eva da Adamo, e che perciò sono stati cacciati −, non c’è più. C’è l’albero della vita, il superamento del dualismo, la coincidenza degli opposti, la contemporanea conoscenza dei due, in ultima analisi la vita e la morte assieme in un continuo avvicendamento, ciò che è proprio di Dio o è Dio, cui anche le prime due creature aspiravano.
Alla fine dei tempi, per Paolo di Tarso ci sarà la riconciliazione dei contrari: “Non vi è né schiavo né uomo libero, né uomo né donna”.[85] Nel Vangelo di Tommaso è detto: “E quando farete del maschio e della femmina una cosa sola in modo che il maschio non sia più maschio e la femmina non sia più femmina…, allora entrerete nel regno”.[86] “Ogni anima e ogni spirito,” si legge nello Zohar ebraico, “prima di penetrare in questo mondo, è composto da un maschio e una femmina uniti in un solo essere. Quando discende su questa terra, le due parti si separano e si animano in due corpi diversi. Al momento del matrimonio, il Santo, li unisce di nuovo come prima, e di nuovo essi costituiscono un solo corpo e una sola anima, formando così la destra e la sinistra di un individuo… Questa unione, tuttavia, è influenzata dalle azioni dell’uomo e dal modo in cui si comporta. Se l’uomo è puro e la sua azione è gradita a Dio, egli viene unito alla parte femminile della sua anima, che faceva parte di lui prima della nascita”. [87] In un frammento da un testo apocrifo, chiamato Il vangelo degli Egizi, conservato da Clemente Alessandrino [88] ci viene detto che il Redentore, interrogato su quando sarebbe venuto il Suo regno, avrebbe risposto: “Quando quei due (maschio e femmina) saranno uno solo, nell’esterno come nell’interno, e il maschio con la femmina non sarà né maschio né femmina”.
Uno dei simboli principali dell’ermetismo alchemico era Rebis (letteralmente “due cose”), l’androgino cosmico, rappresentato iconograficamente sotto la forma di una creatura umana bisessuale. Rebis nasceva dall’unione del sole con la luna o, in termini alchemici, tra lo “zolfo sofico” e il “mercurio sofico”. Chi poteva ottenerlo, si trovava di fatto in possesso della pietra filosofale; poiché la pietra si chiamava anche Rebis o “l’androgino ermetico”.
In tempi relativamente recenti, Ritter, illustre medico amico di Novalis, ha detto: “Eva è nata da un uomo senza l’aiuto di una
donna; Cristo è nato da una donna senza l’aiuto dell’uomo; l’androgino nascerà da entrambi. Ma l’uomo e la donna si fonderanno assieme in un unico fulgore”. Per Bauder, un medico seguace di Boehme e Swedenborg, “L’androgino è stato all’inizio del tempo e ci sarà anche alla fine del tempo. L’uomo primordiale è stato Androgino: Adamo-Eva”. Nel romanzo di Balzac intitolato Séraphîta, chi porta questo nome è una strana creatura di malinconica e insolita bellezza, la quale nasconde un grande “segreto”, un “mistero” impenetrabile che riguarda la sua struttura umana. Infatti, il misterioso personaggio ama ed è amato, nello stesso tempo, da Minna – che lo vede come un uomo Séraphîtüs – e da Wilfrid, ai cui occhi si presenta come una donna, Séraphîta. Questo perfetto androgino nacque da genitori che erano stati discepoli di Swedenborg.
Mi fermo qui con le citazioni, ma anche questa lista può essere allungata quanto si vuole con altri casi del passato, e altri si aggiungeranno che ancora non sono presenti o noti al pubblico. Perché si sta andando verso questi nuovi territori della mente e del cuore. Oggi, infatti, stanno aumentando i casi di ermafroditismo presenti nella natura, dell’uomo e donna che intrecciano i loro corpi a formare cerchi, il bianco e il nero che diventano bianconero. Ma si tratta, in questa fase di confusione e di marasma, di forme premature, tentativi, abbozzi. Tali si presentano i pederasti, le lesbiche. Quando non ci sarà più cieca commistione, sorgerà l’androgino, quello che abiterà dopo la Porta. Comunque, non si può escludere che egli già ci sia se il suo progetto è da molto che esiste.


[78] Mircea Eliade, Trattato di storia delle religioni, Universale scientifica Boringhieri, 1976, pag. 435.
[79] Ivi, pag. 438.
[80] Mircea Eliade, Storia delle credenze e delle idee religiose, Sansoni Editore, pag. 402.
[81] “Per gli uomini sono Hermes; per le donne sono Afrodite: reco gli emblemi di entrambi i miei genitori (Anthologia Graeca ad Fidem Codices, vol. II). “Una parte di lui è suo padre, in tutte le altre è sua madre” (Marziale, Epigrammi, 4, 174).
[82] Platone, Convito.
[83] “O di Laerte sovrumana prole”/ – la dea rispose – “ritenervi a forza/ io più oltre non vo’. Ma un’altra via/ correre in prima è d’uopo: è d’uopo i foschi/ di Pluto e di Proserpina soggiorno/ vedere in prima, e interrogare lo spirito/ Del Teban vate che, degli occhi cieco,/ puro conserva della mente il lume;/ di Tiresia, cui sol die’ Proserpina/ tutto portar tra i morti il senno antico./ Gli altri non son che vani spettri ed ombre.” Odissea, Libro X, versi 608-618.
[84] Nicolò Cusano, La dotta ignoranza, cap. XXV.
[85] Paolo Di Tarso, Lettera ai Galati, 3: 28.
[86] Logion 22, trad. di Puech; cfr. logion 106; “Quando farete di due uno, diverrete figli dell’uomo”.
[87] Zohar, i, 91b.
[88] Stromata, III, 13,92.

La metà nascosta — Seconda parte (29 a-b)

6 settembre 2011

Leggi i capitoli 1-27 della Prima parte
Leggi il capitolo 28 a della Seconda parte
Leggi il capitolo 28 b della Seconda parte
Leggi il capitolo 28 c della Seconda parte
Leggi il capitolo 28 d della Seconda parte
Leggi il capitolo 28 e della Seconda parte
Leggi il capitolo 28 f della Seconda parte
Leggi i capitoli 28 g e 28 f della Seconda parte
Leggi il capitolo 28 i della Seconda parte
Leggi il capitolo 28 l-m-n della Seconda parte


Capitolo 29

Continua la presenza del lato oscuro nelle opere letterarie e artistiche del nostro secolo, il ventunesimo

Una metà nascosta

Perdendo il lato oscuro, l’ombra nel caso di Peter Schlemibl e Andersen, o ingaggiando con i tanti suoi travestimenti una lotta senza quartiere, spesso mortale − Maupassant con una presenza invisibile che assorbiva il suo riflesso nello specchio, Goethe con Mefistofele, Dostoevskij con il sosia, Oscar Wilde con il ritratto, Stevenson con il mostro in cui si trasformava, Shelley con Frankenstein, Novalis con la terra del mistero e la vergine velata, Tieck con l’ignoto lontano e la donna del bosco, Kafka con l’incubo −, l’uomo si è trovato esposto tutto da una parte e in lotta mortale con l’altra. Dalla stessa sua parte, cioè, anche il lato oscuro, come quando, levandoci il vestito, ci tiriamo addosso il retro. Il tal modo ha perso anche l’orientamento nella dimensione delle cose contrapposte, vale a dire il senso del mondo che aveva abitato e percepito fino a poco tempo prima. Senza lo spessore l’uomo dopo il Tramonto: non più il bene sopra il male, per esempio, o viceversa, ma con i due dalla stessa parte. O l’uno e l’altro appaiono sull’unica scena disponibile dandosi il cambio, come nelle immagini televisive che scorrono ininterrotte, dove alla figura del Papa benedicente segue quella della prostituta d’alto bordo che i conduttori delle reti e dei programmi si contendono per fare audience. Questa situazione è stata illustrata per certi aspetti da Herbert Marcuse, nel saggio L’uomo a una dimensione, che ha avuto molto successo negli anni della contestazione giovanile.

Ho detto che nei due secoli precedenti, l’ottocento romantico e il novecento, l’uomo ha cominciato a perdere soprattutto la donna in sé, vale a dire l’altra parte più vicina, ancora strettamente legata a lui, tuttavia, dai legami indistruttibili della natura. Sono essi l’attrazione fisica, la ricerca del piacere, il desiderio della bellezza, i tanti altri impulsi che spingono al coito perché continui la specie. Perciò ha preso sempre più piede l’usa e getta, e si rompe il giocattolo per cercare di capirlo, di vedere come funziona, per cercare di rendere intelligibile quel che è oscuro, misterioso. Così Faust sarà la causa della rovina di Margherita, Dorian Gray provocherà la morte di Sibyl, Hide calpesterà ferocemente la bambina che ha fatto cadere.
Fin qui, però, si è trattato perlopiù di previsioni, progetti, sperimentazioni isolate, ma verso la fine del secolo appena trascorso qualcosa ha cominciato a montare sempre più e continua in questo inizio del terzo millennio. Il lato oscuro, anticipato dai poeti, scrittori e filosofi di cui ho detto, ora sta dilagando non solo in opere letterarie, artistiche e nei media, ma anche davvero, come si è soliti dire quando si passa dalle parole ai fatti. Il mostro dalle innumerevoli teste non appare più solo sulla carta, tela, marmo, suono, proiezione e non colpisce più soltanto quei primi che si son trovati più esposti, ma spesso è presente anche in carne ed ossa e in tale veste opera, e ciò che più confonde e inganna è che esso ha spesso il volto e l’aspetto di giovani, belli e gentili, angeli decaduti che conservano ancora le loro sembianze celesti. Gli orrendi delitti di questo tipo non si contano più, di essi sono piene le cronache.
Non più trattenuti dalle grandi muraglie che impedivano la loro salita fino al regno degli uomini, quelle erette dai miti e dalle religioni per contenere a quei tempi le orde devastatrici di Gog e Magog, o i demoni Koka e Vikoka della tradizione indù, e neppure dalla barriera luce-tenebra che è stata sostenuta e difesa dalla ragione che respingeva nelle tenebre l’irrazionale, i mostri compaiono e dilagano, entrando nei corpi e nelle menti degli uomini come alieni venuti dallo spazio. Spesso si presentano, come ho detto, con aspetti angelici, com’è accaduto in un caso recente che ha sconvolto l’intera nazione. Quello di Novi Ligure del 22 febbraio 2001 in cui Erika, una ragazzina di sedici anni, bionda, “faccia d’angelo” ha ucciso la madre e il fratellino con il concorso del suo ragazzo, Omar, di un anno più vecchio, anche lui di gentile aspetto. Con novantasette coltellate li hanno uccisi, inseguendo, dopo i primi colpi, le vittime ferite e supplicanti pietà. Tutti gli italiani hanno sentito incombere il lato oscuro, perché la famiglia dove è avvenuto il massacro poteva essere benissimo quella di ognuno di loro. In ciascuna poteva nascondersi l’assassino sotto mentite spoglie.
Dunque, ciò che nei secoli scorsi appariva una previsione minacciosa e che colpiva soltanto i più sensibili − poeti, artisti, filosofi −, è arrivata e si è diffusa come un’epidemia. A ben guardare, oggi tutto l’Occidente è lato oscuro, e non conoscendo la via per uscire, sopravvive perché attaccato ancora alle strutture costruite lungo i venticinque secoli di cammino nel Giorno. Ma si tratta ormai di vecchie vestigia, come le opere d’arte nei musei, di cui si adorna per conservare e difendere il potere mondiale che ha conquistato. Sono patrimonio dell’umanità e guai a chi le tocca e le si vuole anzi imporre al resto dell’umanità. Ma sotto c’è la vita opulenta, viziata, degradata. Quella che scorre assieme alle vestigia sugli schermi dei cinema e delle tv. Specialmente in quest’ultima il succedersi e sovrapporsi dei due lati è continuo e infaticabile e soprattutto i bambini vivono in quest’ultima dimensione dove si sono sciolte come neve al sole tutte le barriere fra giorno e notte, conscio e inconscio, bene e male.
Come ho già fatto per le opere letterarie dei secoli scorsi, ecco ora due delle attuali, e mi impegno di già di inserirne delle altre.

Stephen King
a) Il lato oscuro nel romanzo La metà oscura di Stephen King.

Non c’è più nessun aspetto di tipo metafisico nell’odierna letteratura dell’horror, quella che ha di mira l’altra metà del giro della vita, con le sue tenebre e i mostri che abitano in esse e da esse salgono superando il confine. Nelle opere dei secoli precedenti, soprattutto il diciannovesimo e ventesimo, sopra e sotto gli orrori umani c’è sempre il Cielo degli dei olimpici, l’Inferno dei demoni, e i destini trascendenti, come nel Faust di Goethe e in altri scrittori che ho citato. E per questo motivo gli autori di tal genere sono entrati a far parte della eletta schiera dei classici a pieno titolo e non di quella dei cultori dell’horror. Per le loro teorie sulla vita, dunque, per i propositi di salvezza che si pongono, per le potenze esterne cui ricorrono e alle quali si affidano. Ma ora tutto si è spogliato di ciò che era “ideale”, poi diventato “sovrastruttura”, ed ora si è sciolta anche quella; ed è rimasto soltanto l’uomo nudo con la sua parte a giorno e quella a notte, la veglia e il sonno che si popola d’incubi, la sua vita isolata e il sovrastare ininterrotto della morte, finché non cala come un falco sulla preda.
Di tal genere La metà oscura: nudo e crudo confronto fra le due parti di un primitivo intero, quello dell’inizio della vita nell’utero, che doveva scindersi in due gemelli e uno solo è nato, perché l’altro è stato fagocitato dal primo poco dopo il concepimento. Ma di lui rimarrà uno spettro inscindibile, come la morte lo è della vita. E ci sarà una lotta fino all’ultimo respiro fra le due parti, fra il nato, diventato un celebre scrittore, e il non nato, ma non inesistente.
Si può dire, in generale, che l’ingresso dell’Occidente nel Buio – che solo per pochissimi finora ha l’aspetto e i limiti della Notte mentre per gli altri è Tenebra di cui non conoscono la fine, o esistenza nelle luci artificiali della tecnica −, ha favorito la metà oscura dell’uomo. Anzi di più. Oggi essa si trova inserita nel suo ambiente, come i pipistrelli nella notte, come le larve nella corteccia e nei tronchi degli alberi, come i semi nella terra. E le indicazioni di risveglio sono troppo lontane e isolate. L’inverno è appena all’inizio.
Ora la trama del romanzo di King.

Thad Beaumont, il personaggio principale del libro, è uno scrittore della metà oscura. A undici anni compose il suo racconto Davanti alla casa di Marty che gli fruttò una segnalazione speciale della rivista American Teen e il secondo premio, che però non gli fu assegnato perché gli mancavano ancora due anni per essere un teenager americano a pieno titolo. In quell’anno fu colpito da numerose prolungate crisi di mal di testa che lo fecero soffrire in modo mostruoso. Fu diagnosticato un tumore e operato, e quando il chirurgo gli aprì il cervello, si presentò ai suoi occhi qualcosa di cui aveva letto, ma che mai si era aspettato di vedere personalmente e di esserne testimone. “Dalla superficie uniforme della dura madre sporgeva un occhio umano, cieco e malformato. Il cervello pulsava leggermente. L’occhio pulsava con esso. Sembrava quasi che cercasse di ammiccare. Era stato quell’effetto di ‘occhiolino’ a far fuggire terrorizzata l’infermiera della sala operatoria”… “Oltre all’occhio, trovarono parte di una narice, tre unghie e due denti”[78] Si trattava, come il chirurgo spiegherà dopo molti anni allo sceriffo Alan Pangborn, incaricato delle indagini d’orribili delitti che in un primo tempo erano stati attribuiti a Thad Beaumont, del gemello di Thad che egli, quand’erano ancora nella pancia della madre, avevaavviluppato e inglobato”. Di fronte al manifesto disgusto espresso dall’incredulo sceriffo, il dott. Pritchart si era affrettato ad aggiungere: “Non stiamo parlando di Caino che aggredisce improvvisamente Abele e lo uccide con una pietra. Questo non è stato un omicidio, ma la conseguenza di un processo biologico che ancora ci sfugge. Un segnale negativo, forse, fatto scattare dal sistema endocrino della madre. A voler essere precisi, non possiamo nemmeno parlare di feti, nel nostro caso, perché all’epoca dell’assorbimento nel ventre della signora Beaumont c’erano al più due masse di tessuti organici, probabilmente non ancora umanoidi. Nella fase evolutiva degli anfibi, possiamo presumere”.[79] L’assorbimento però non fu completo e qualcosa rimase del gemello nel corpo di Thad, cioè quell’occhio, la narice, tre unghie e due denti che il chirurgo aveva estirpato come fosse un tumore, e la causa che aveva messo in moto “quella massa di tessuti, che probabilmente solo un anno prima era ancora di dimensioni microscopiche” era stato il racconto Davanti alla casa di Marty.
Dopo l’operazione al cervello, il giovane continuerà a scrivere i suoi romanzi neri, ma quello che gli darà maggior successo, intitolato La macchina di Machine, lo firmerà con lo pseudonimo di George Stark e continuerà così anche con altri. Quella prima volta che decise per lo pseudonimo, gli capitò un fatto strano: “infilò un foglio di carta nel rullo della sua macchina da scrivere per cominciare quel nuovo romanzo, con la quale precedentemente aveva sempre operato, ma subito dopo lo tolse, perché non riusciva a districarsi con i tasti come fosse un inesperto, e cominciò a scrivere a mano”. Pensò: “George Stark non aveva una buona intesa con le macchine da scrivere”. Dopo quel primo successo, altri ne seguirono firmati con lo pseudonimo, ma la violenza e la ferocia in essi contenuta, che sconvolgevano lo stesso autore, lo fece decidere di mettere fine a quella virtuale collaborazione. “In altre parole, confessare tutto”[80], vale a dire la sua vera identità.
Per ragioni pubblicitarie fu inscenato un vero e proprio funerale, anche se la bara era vuota e c’era soltanto un nome fittizio scritto sul coperchio. Ma le cose non finirono lì e non si trattò di un’innocua messinscena. Da quel giorno, ebbe inizio una catena d’orrendi delitti commessi su coloro che avevano deciso per quel funerale e l’avevano portato ad effetto. Quello della giovane donna Miriam Cowley fu il terzo della serie. Tornata a casa dopo la giornata di lavoro, “infilò la chiave nella grossa serratura Krieg … e invece di sentirla scivolare nella toppa con la solita, rassicurante serie di scatti, l’uscio si aprì di qualche centimetro sotto la spinta… Capì subito che qualcosa non andava… e incominciò a indietreggiare dalla porta. Lo fece quasi subito ancora prima che l’uscio avesse concluso il suo breve spostamento verso l’interno, ma era già troppo tardi. Una mano sbucò dall’oscurità, saettando come un proiettile attraverso lo spiraglio di cinque centimetri fra porta e stipite. Le artigliò la mano… Le imprigionò il polso destro con la mano destra prima che avesse anche il tempo di pensare, e strattonò la donna verso di sé con tutte le sue forze. La porta sembrava di legno, ma naturalmente era di metallo, come tutte le brave porte di casa in quella Grande Mela bacata. Colpì il profilo della porta blindata con il lato della faccia. Ci fu un rumore sordo. Due denti le furono troncati all’altezza della gengiva e le tagliarono la bocca […] lo zigomo si spezzò come un ramoscello.
Si accasciò, semisvenuta… Miriam gemeva, cominciava a riaversi.
L’uomo biondo si tolse di tasca il rasoio a manico e lo aprì. La lama scintillò nella luce fioca dell’unica lampada che aveva lasciato accesa, quella sul tavolino del soggiorno”…
“Voglio che tu faccia una telefonata, ciccina. Nient’altro” […] “Voglio che ti sporgi per fare il numero di Thad Beaumont”…
“Agenda”, mormorò lei. Ormai la sua bocca si era gonfiata troppo perché riuscisse a chiuderla e diventava veramente difficile capirla… Adagio, dolorosamente, lei scandì: “A-gen-da”. Gli indirizzi. Non ricordo il numero”.
Il rasoio fendette l’aria scendendo verso di lei… Lacrime cominciarono a sgorgarle dagli occhi. “Non ricordo”, gemette.
“E va bene”, le concesse. “Va bene, ciccina. Sei sconvolta. Capisco. Non so se vorrai crederci o no, ma provo persino compassione. E sei fortunata, perché si dà il caso che io conosca il numero a memoria. Lo conosco quasi meglio del mio, si potrebbe dire. E sai una cosa? Non ti costringerò nemmeno a farlo, da una parte perché non ho voglia di starmene qui seduto ad aspettare che si geli l’inferno” […] Si sporse in avanti e cominciò a comporre il numero […] “Parlagli”, le disse l’uomo biondo. “Se risponde la moglie, dille che è Miriam che parla da New York e che vuol parlare al suo uomo. So che hai la bocca gonfia, ma vedi di farti riconoscere da chi ti risponde. Fallo per me, ciccina. Se non vuoi ritrovarti con la faccia ridotta come un ritratto di Picasso. Fai la brava con me.”
“Cosa… cosa dico?”
L’uomo biondo sorrise. Era un bel tocco sul serio. Bello succoso. Tutti quei capelli. Altri sommovimenti nella zona sotto la cintura. Si andava risvegliando qualcosa, laggiù.
Il telefono squillava. Lo sentivano entrambi… Si udì lo scatto del ricevitore che veniva sollevato all’altro capo del filo. L’uomo biondo aspettò di sentire la voce di Beaumont che diceva “Pronto?”, poi con la velocità di un serpente che attacca si chinò e fece scorrere la lama del rasoio sulla guancia sinistra di Miriam Cowley, separandone una fetta di carne. Sgorgò sangue di getto. Miriam gridò.
“Pronto!” abbaiò Beaumont. “Pronto? Chi è?, dannazione?”
Sì, sono proprio io, figlio di puttana, pensò l’uomo biondo. Sono io e tu sai che sono io, non è vero?
“Digli bene chi sei e che cosa sta succedendo qui!” Latrò a Miriam. “Avanti! Non fartelo ripetere!”
“Chi è!” gridò Beaumont. “Che cosa succede? Chi è?”
Miriam strillò di nuovo. Il suo sangue macchiò i cuscini color frumento del divano. Ora non aveva più solo una goccia sul vestito: il tessuto ne era inzuppato.
“Fai come ti dico o ti stacco la testa dal collo con questo coso!”
“Thad, c’è un uomo qui!” urlò Miriam nel microfono. Il terrore e il dolore la facevano parlare di nuovo con chiarezza. “C’è un uomo cattivo qui! Thad C’È UN UOMO CATTIVO QUI…”
“DIGLI COME TI CHIAMI!” tuonò lui e face saettare la lama del rasoio nell’aria passandole a un centimetro dagli occhi. Lei si ritrasse, guaendo.
“Chi è? chi…”
“MIRIAM!” strillò lei. “OH THAD NON LASCIARE CHE MI TAGLI DI NUOVO NON LASCIARE CHE QUEST’UOMO MI TAGLI DI NUOVO…”
George Stark calò la lama del rasoio sul cavo attorcigliato del telefono. La segreteria sparò un unico latrato rabbioso d’energia statica e si zittì.
Era abbastanza soddisfatto. Sarebbe potuto essere migliore; avrebbe potuto farsela, avrebbe veramente voluto sbattersela. Era da un pezzo che non provava più il desiderio di sbattersi una donna, ma questa gli aveva fatto venire voglia e avrebbe dovuto rinunciare. Troppe urla. I conigli (gli abitanti degli appartamenti vicini) sarebbero tornati a metter fuori la testa dalle loro tane, fiutando nell’aria la presenza del grosso predatore che si aggirava nella foresta, poco oltre la zona rischiarata dai loro miseri focherelli elettrici da bivacco.
La donna stava ancora strillando.
Era evidente che aveva perso tutti i suoi pensierini felici.
Così Stark l’afferrò nuovamente per i capelli, le rovesciò la testa all’indietro finché ebbe gli occhi rivolti al soffitto, finché urlò al soffitto, e la sgozzò.”[81]
Un’altra della lista era cancellata. Rimanevano: “quello che aveva scritto l’articolo (del funerale) sulla rivista, e quella lurida femmina che aveva scattato le foto, specialmente quella della lapide. Una cagna schifosa, sissignori, una vera troia, ma avrebbe chiuso gli occhi anche a lei.
E quando fossero stati tutti sistemati, sarebbe venuto il momento di quattro chiacchiere con il signor Thad. Senza intermediari; brevi manu. L’ora di far intendere ragione a Thad. Dopo che li avesse sistemati tutti, era più che sicuro che Thad sarebbe stato pronto ad intendere le sue ragioni. In caso contrario, conosceva modi di aprirli gli occhi.
Era in fondo un uomo sposato. Sposato a una donna molto bella, un’autentica regina dell’aria e delle tenebre.
E aveva dei figli…”.[82]
Incolpato di quei crimini efferati, Thad, perché le impronte digitali lasciate sui luoghi dei delitti corrispondevano perfettamente alle sue, il gruppo sanguigno A negativo era come il suo, le cicche trovate erano della stessa marca di sigarette che lui fumava, e pure le impronte verbali erano uguali alle sue, e, come per le impronte digitali, non era mai capitato di trovarne di identiche appartenenti ad altri. Ma poi i numerosi e inattaccabili alibi lo scagionarono. Perciò ricorrendo all’universale principio, sempre valido in casi del genere, per il quale quando tutto il possibile è stato indagato ed escluso quel che rimane è l’impossibile da cui non si può sottrarsi, quell’impossibile era George Stark, un fantasma, la metà oscura di Thad. O così egli sognò una notte. Ma come poteva uno pseudonimo acquisire un’identità reale ed andarsene in giro ad ammazzare la gente? Poi il sogno divenne realtà quando un giorno “chiuse gli occhi che Dio gli aveva collocato sul volto e aprì quello che Dio gli aveva donato nella mente… quello che brillava nella sua metà oscura”.[83] Infine, anche lo sceriffo Alan finì per convincersi che l’assassino fosse un mostro tornato dalla tomba e precisamente il gemello di Thad. Stark divorato da Thad quand’era ancora in utero, era dunque stato portato all’esistenza dall’opera La macchina di Machine e dagli altri romanzi firmati con suo nome, e poteva mantenersi in essa soltanto se tale produzione fosse continuata. Perciò era indispensabile la collaborazione di Thad, perché sapeva scrivere quei romanzi e Stark ci metteva poi di suo la cattiveria estrema e la natura criminale. Perciò quella minaccia: che alla fine della serie programmata di delitti sarebbe arrivato il momento di far intendere ragione a Thad. In caso contrario, se non fossero bastate le esecuzioni in corso, conosceva i modi di convincerlo: le avrebbe continuate con la bella sposa del suo gemello e i suoi figli. La loro vita in cambio della sua.
Stark giungerà presto alla fine dell’elenco delle vittime predestinate e con loro saranno assassinati tutti i poliziotti incaricati di proteggerli. Poi lo scontro con Thad, presente lo sceriffo Alan. Avrà la meglio Thad, ma non perché gli è stato superiore. Erano la stessa cosa e se n’era accorta Liz, la moglie di Thad. Anche se apparivano diversi, “erano immagini speculari lo stesso. La somiglianza era sconcertante proprio perché non c’era un solo elemento che li accomunasse nell’aspetto. L’identità era sottintesa, celata in profondità fra le righe, ma così lampante da tramortire: il vezzo di incrociare i piedi tendendo i muscoli, di divaricare rigidamente le dita contro le cosce, e il ventaglio improvviso di minuscole grinze tutt’intorno agli occhi”.[84] Se n’era accorta così tanto che osservandoli assieme “l’orrore le drenò il sangue dalle guance perché non riusciva più a distinguerli”.[85]
Avrà la meglio Thad perché egli difendeva la famiglia e i figli, perciò aveva ancora legami molto forti con la metà chiara. E solo perché ancora si galleggia, l’Occidente non è andato sotto, perché si tiene sollevato con i poteri che gli sono forniti dalla tecnica ed è illuminato dalle luci da essa prodotte. Perciò la metà scura alla fine ha dovuto ritirare il suo demone, vale a dire Stark, alias Machine, il mostro che uccideva col rasoio. Per riportarlo nel fondo oscuro dal quale era emerso, per scortarlo “nel suo viaggio di ritorno alla terra dei morti”[86], sono stati incaricati gli uccelli psicopompi, “araldi dei morti viventi”: stormi sterminati di passeri che hanno spolpato Stark per renderlo più leggero e così trasportarlo in volo nelle tenebre da cui era giunto.
Ma non sarebbe finita quella minaccia. Lo dice lo sceriffo Alan presente a quel sogno spaventoso e angoscioso sofferto ad occhi aperti. Perché una parte di Thad era “affascinata da Stark. Una parte di lui era ammaliata… dalle tenebre della sua anima”. Perché “anche se Thad non capiva chi era, ma forse lo capiva sua moglie, stare vicino a lui era come stare vicino a una grotta dalla quale era sbucata una creatura da incubo. “Adesso il mostro non c’è più, ma non si ha lo stesso voglia di avvicinarsi troppo alla grotta da cui era saltato fuori. Perché potrebbe essercene un altro. Probabilmente no, la mente lo esclude, ma le emozioni… Quelle suonano un’altra musica, vero? Dannazione! E anche se la grotta resterà vuota per sempre, ci sono i sogni. E i ricordi… Ed è da te che è cominciato tutto, Thad. Tutto risale a te”.[87]
Per il resto del mondo, tuttavia, era ancora una follia credere non solo in un fantasma vendicativo, ma addirittura nel fantasma di una persona che non è mai esistita. Solo per coloro che avevano assistito all’incubo uscito dal sogno esso non era più irreale: per Thad, per sua moglie Liz, e per lo sceriffo Adam, gli unici che avevano partecipato a quell’assurdo avvenimento e assistito a quella fine. Solo tre fra gli innumerevoli abitanti dell’Occidente che tengono accesa la luce della veglia in un cambio della guardia che dovrebbe essere continuo, ma che ha cominciato a mostrare davvero zone oscure sempre più frequenti ed ampie. Ma per tutti gli altri la metà oscura è ancora sogno soltanto. Ma davvero, − nel senso che sarà sempre così, da una parte il sogno e dall’altra la veglia −, o più semplicemente essi non hanno ancora occhi per i mostri come Stark, e vedono invece al suo posto il gemello Thad? Non si assomigliano, infatti! Perciò stanno così le cose per coloro che non erano presenti, vale a dire per quasi tutti: è Stark che ammazza ma è Thad che appare. Ma poi qualcosa sembra filtrare del mistero: sembra troppo ovvia la conclusione che sia la metà visibile che ammazza. E allora ecco la soluzione che s’affaccia. La dirà lo sceriffo Alan, ancora in parte incredulo anche lui, nonostante abbia visto e toccato. “Ma può darsi che gli scrittori INVITINO gli spettri; insieme con attori e artisti, sono i soli medium che la nostra società accetta senza riserve. Inventano mondi che non sono mai stati, li popolano di persone che non sono mai esistite, e poi c’invitano ad accompagnarli nelle loro fantasie. E noi lo facciamo, no? Sì, lo facciamo. Anzi PAGHIAMO per poterlo fare”.
Vale a dire: poeti, scrittori, filosofi anticipano visioni che anche gli altri vedranno in faccia, anziché su specchi come gli incubi.

*

b) Il lato oscuro nel romanzo di Stephen King Buick 8

La separazione fra luce e tenebra, esterno e interno, visibile e invisibile, veglia e sonno, vita e morte, è stata intesa in tanti modi e chiamata con tanti nomi, e ancora li conserva, resi imperituri dalla loro insopprimibile presenza nella natura o nei libri che sono diventati dei classici, vale a dire testi fondamentali dell’umano sapere universalmente noti. Ciò che separa le due metà, normalmente è chiuso, ma può aprirsi, anzi si apre ogni qualvolta il vivente passa da una dimensione all’altra, e in tal caso il confine è un passaggio, che è stato percepito anche come porta. Passaggi antichi della natura, ma continuamente in funzione, sono i fori sulla terra da cui entra il seme in autunno ed esce il germoglio a primavera; la vulva del corpo femminile dove viene introdotto il seme della vita animale e umana ed esce il cucciolo e il bambino; l’alba che è il momento e il luogo dove la notte finisce e nasce il giorno; la bocca di balena da cui sono usciti a nuova vita il profeta Giona e Pinocchio; la bocca di caverna da cui Parsifal, dopo una lunga permanenza nelle profondità, è uscito rinnovato per conquistare il santo Graal; le Symplegades formate da due scogli rocciosi nel Mar Nero che si muovevano l’un contro l’altro sotto l’azione di forze oscure e impedivano il passaggio, ma Giasone, il capo degli argonauti diretti alla conquista del Vello d’oro, riuscì a superarli, e da quel giorno sono rimasti aperti e immobili in quel mare; la Porta del Cancro, volta a Borea, da cui entravano le anime per incarnarsi; la Porta del Capricorno, volta a Noto, da cui invece le anime uscivano dopo l’esperienza terrena, per andare a ricomporsi nell’unità precedentemente lasciata,
Se poi si passa dai cicli di natura a quelli nel pensiero e nella conoscenza, s’incontrano altri aspetti e altri nomi del passaggio. Per Ermete Trismegisto e per Buddha esso si è aperto sulle loro vite precedentemente vissute e perciò il suo nome è memoria; per i cristiani è la Pasqua di resurrezione; di ritorno dagli Inferi dove ha conosciuto il suo destino, Enea è uscito dalla Porta d’avorio; per Nicolò Cusano Porta del Paradiso è quella che separa il mondo delle cose contrapposte dalla coincidenza dei contrari, ed è la stessa da cui sono stati cacciati Adamo ed Eva. Nella scienza fisica la porta da cui ha fatto capolino l’universo si chiama Big Bang, che da un punto che era quando è uscito ha continuato a crescere fino ad occupare l’attuale spazio sferico del diametro di circa quindici miliardi di anni luce. E ora dentro a tanto universo e alle menti che lo esprimono ci sono i buchi neri; fra il visto e il non visto dall’uomo le soglie assolute e quelle differenziali; nella fisica atomica c’è il principio di indeterminazione; in matematica il pi greco che è un’indeterminata apertura nei cicli, anche in quello dell’eterno ritorno che tanta pena causò a Nietzsche fino a condurlo alla pazzia, o che solo pochi in altri tempi e altri modi hanno scoperto; in matematica anche l’incompletezza esistente nei sistemi formali che pone dei limiti anche ad essa, che sembrava non ne avesse.
Questo è l’elenco, certamente incompleto, dei confini, dei passaggi e delle porte individuate con un nome, alcune anche recenti come le ultime della serie che appena esposto. Ebbene, quasi a comprova che la lista è solo un abbozzo e forse non finirà mai, un altro nome si è aggiunto, recentissimo. Si chiama Buick 8 il nuovo passaggio e l’ha scoperto Stephen King, ed è quello che ha posto come titolo del suo ultimo romanzo dell’horror. Buick 8, egli ha detto, è “una meditazione sull’indecifrabilità degli eventi della vita e l’impossibilità di trovare un significato coerente”, e non è solo opera di fantasia o un’immagine onirica. Quell’automobile posta sul limite “in cui il nostro universo conosciuto finisce e comincia l’oscurità” è esistita davvero. È quella che l’ha investito o una sua eguale, e l’ha lasciato per molto tempo sul filo fra la vita e la morte. Poi la sua continuazione di qua è dipesa da particolari minimi e privi di senso.
Come antro di caverna perciò la Buick, come la bocca della balena, come un ingresso agli Inferi, come un buco nero, e a questi paurosi e misteriosi passaggi King l’ha accomunata. L’automobile si trova nel capannone B di una stazione di polizia della Pensylvania, in deposito, ricuperata da una stazione di servizio dove era stata abbandonata, ed è guardata a vista per i fenomeni che da essa si sprigionano, sempre più strani, sempre più terrificanti. Periodicamente, dalla vettura sprigionano bagliori, provoca sparizioni di cose, animali, persone, fra cui il poliziotto Curtis Wilcox. Dal bagagliaio “partorisce” orribili creature, simili a pipistrelli, pesci, scarafaggi, un essere alieno. Ma quando escono dalla macchina questi mostri non durano, si decompongono, si sciolgono, marciscono, come il “pesce”, di cui riporto la descrizione.
“George, (uno dei poliziotti di guardia) vide il cofano posteriore della Buick sollevarsi e riabbassarsi al centro, una sola volta, rapidamente. Fece per raggiungere la porta laterale con l’intenzione di entrare a indagare. Poi rammentò di che cosa si trattava, un’automobile che a volte mangiava la gente”. […] Andò a chiamare il collega: “Sandy, è meglio che vieni”. George era in piedi sulla soglia dell’ufficio, e sembrava spaventato e senza fiato”. I due attraversarono insieme il parcheggio, entrarono nel capannone e proprio in quell’istante ci fu un altro tonfo. Il bagagliaio della Buick si aprì con uno scatto verso l’alto e ne schizzò fuori il pesce. “La cosa giaceva a terra, non più pesce di quanto un lupo sia un animale domestico, malgrado somigli molto a un cane. E, in ogni caso, quel pesce era pesce soltanto dalla coda ai tagli violacei delle branchie. Al posto di una testa di pesce […] c’era una massa nuda e intrecciata di filamenti rosa sottili e rigidi per essere tentacoli e troppo grossi per essere capelli…”. Poi, in breve, la cosa pesce aveva cominciato a marcire “e Sandy aveva la sensazione che, una volta cominciato il processo, se ne sarebbe andata rapidamente. Anche da fuori, con la porta chiusa, poteva sentirne l’odore. Un tanfo acre e acquoso di cavolo, cetriolo e sale” […]. “Il pesce stava subendo qualcosa di ben più radicale di una semplice decomposizione; stava cedendo. Si stava arrendendo al cambio di pressione o forse al mutamento di ogni cosa, del suo intero ambiente vitale”.
Il mistero appare indecifrabile, e l’unico che vorrebbe arrivare ad una spiegazione è Ned, il figlio del poliziotto scomparso. Vorrebbe che quella storia avesse, come ogni altra di qui, “un inizio, un centro e una fine in cui viene spiegata ogni cosa”. Senza il lato oscuro, insomma. Ma, come i poliziotti che si alternano di guardia hanno intuito, la Buick 8 è il passaggio verso un altro mondo, il “luogo in cui il nostro universo conosciuto finisce e comincia l’oscurità” dove si può essere attirati in quell’abisso. Ned, dopo aver ascoltati i racconti dei colleghi del padre scomparso dove manca sempre il finale, affronta la Buick. Non riuscirà a scoprire la fine, ma neppure soccomberà. “Prima o poi” ci sarà una risposta, è la piccola concessione alla speranza.
Un buco nero la Buick 8 più di quanto lo sono quelli in cielo, più di quelli visti dai poeti, scrittori e filosofi dei secoli precedenti, perché allora si cominciava a intravederli dal Tramonto dell’Occidente, mentre ora è Tenebra profonda ed appaiono da essa: ombre orribili dall’Ade, diavoli dall’Inferno. Ma, come si sa dal cielo della notte, il momento più buio è quello che precede l’alba; o dove è più grande il pericolo, spunta anche il salvatore.


[78] Sthephen King, La metà oscura, Sperling & Kupfer, pag. 9.
[79] Ivi, pag. 377.
[80] Ivi, pag. 377.
[81] Ivi, pagg. 143-148.
[82] Ivi, pag. 149.
[83] Ivi, pagg. 170-171.
[84] Ivi, pag. 427.
[85] Ivi, pag. 434.
[86] Ivi, pag. 455.
[87] Ivi, pag. 464.

La metà nascosta — Seconda parte (28 l-m-n)

21 agosto 2011

Leggi i capitoli 1-27 della Prima parte
Leggi il capitolo 28 a della Seconda parte
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Leggi il capitolo 28 c della Seconda parte
Leggi il capitolo 28 d della Seconda parte
Leggi il capitolo 28 e della Seconda parte
Leggi il capitolo 28 f della Seconda parte
Leggi i capitoli 28 g e 28 f della Seconda parte
Leggi il capitolo 28 i della Seconda parte

l) Il lato oscuro nella fiaba simbolica Giacinto e Fiordirosa di Novalis

Novalis, Giacinto e Fiordirosa (1798-99)

Giacinto lascia la patria e la donna amata diretto alla “terra del mistero” per trovare Iside, “la madre delle cose, la vergine velata”. Cammina per valli e boschi, per monti e fiumi, chiedendo a uomini e belve, a rocce e piante, notizie della sacra dea. “Ridevano alcuni, tacevano altri, mai otteneva una risposta”. Ma egli non si dava per vinto. Attraversò “luoghi irti e selvaggi, mentre nuvole e nebbia imperversavano sulla sua via: ed infuriava sempre più la tempesta; deserti immensi di sabbia e terra arroventati egli trovò poi”. Finché un giorno arrivò alla dimora che cercava “nascosta tra palme e deliziose piante d’ogni sorta”. Immensa la dimora, innumerevoli le stanze, introvabile il Sancta Sanctorum della dea. Egli si assopì in quell’estenuante ricerca e si lasciò guidare dal sogno, e in tal modo giunse al “cospetto della vergine divina”. Sollevò il velo della misteriosa “e gli cadde fra le braccia Fiordirosa”. [72]

*

m) Nelle favole di Ludwig Tieck il lato oscuro trascina dalla sua parte il protagonista, e quelli che gli sono vicini e che l’amano, soprattutto le donne, subiscono gli effetti di quel mutamento

Johann Ludwig Tieck (1773-1853)

Nel racconto La montagna runica Cristiano, il giovane protagonista, lascia la pianura dove abitava, dove lo sguardo che spaziava tutt’intorno incontrava solo prati verdeggiante “e rigogliosi campi di grano e giardini”; abbandona la madre e il padre che “amava i fiori e le piante, e, instancabile, per l’intera giornata, si dedicava tutto a sorvegliarle e curarle. Arrivando al punto d’asserire che, quasi, egli parlava con loro”, e va verso la brulla e rocciosa montagna. Ben presto coglie da una radice “i sospiri e i lamenti che dovunque nella natura tutta si percepiscono, quando si stia ad ascoltare”, e la radice, come si sa, è il lato oscuro dei fiori e delle piante. Poi incontra la donna del bosco, nella veste di creatura bellissima, di cui mai aveva visto l’eguale, ma capace di mutare in uno “straniero”, e “in una vecchia orribile”, “vestita di luridi cenci”. Egli riuscirà tuttavia a ritornare da quella “regione straniera lontana”, o a svegliarsi come da un sogno, e ritroverà la pianura, anche se non era la stessa da cui era partito. Sposerà la bionda Elisabetta anche se non potrà fare a meno di dirgli la sera stessa delle nozze: “No, tu non sei quell’immagine che una volta in sogno m’affascinò, e che non c’è verso che io possa del tutto dimenticare; ma, ci non ostante, la felicità mia è completa”. Dopo nove mesi nascerà Eleonora. Per mantenere la famiglia farà il giardiniere e il contadino. Ma poi s’accorgerà “di aver perduto la vita in un’illusione”. Un’illusione Elisabetta, che già non era più il fiore di ragazza che aveva conosciuto; un sogno Eleonora; un sogno la sua opera di contadino e giardiniere, volta a crescere una dolorante ed effimera vita. Non si era “curato d’una felicità sublime ed eterna”, quella che aveva intravisto nella montagna, “per guadagnarne una fugace e temporanea”. E abbandona la moglie e la figlioletta, abbandona la pianura e il lavoro in essa, per ritornare lassù. La sua partenza, diventata definitiva, provocherà la morte prematura del padre, come già era accaduto alla madre quando la prima volta se n’era andato, e getterà nel bisogno la sua famiglia. Ed egli stesso errerà per la montagna “con una giacca a brandelli, a piedi scalzi e con un colorito bruno nerastro, bruciato dal sole, con una lunga barba ispida”, parlando con la “donna del bosco” ora nell’aspetto d’orribile megera.
In un’altra fiaba intitolata Eckart il fido e il Tannenhäuser, il giovane Tannenhäuser perde l’amore di Emma di cui era innamorato che gli preferisce un altro, uccide il rivale il giorno delle nozze, in fuga dopo il delitto giunge alla sua abitazione che la madre era appena morta di dolore per lui, abbraccia il padre “con tutto l’affetto di quand’era bambino”, che gli muore fra le braccia, e sconvolto e delirante viene come trascinato “lontano, in un ignoto lontano”. Era come se uno spirito maligno volgesse tutte le potenze dell’anima sua verso la tetra sede infernale e laggiù lo lasciasse scivolare. “Nella più profonda oscurità della notte − racconta il protagonista – ascesi un alto monte ed invocai il nemico di Dio e degli uomini con tutta la forza del mio cuore, tanto che ebbi la sensazione ch’egli mi avesse udito. Le mie parole lo tirarono fuori: ad un tratto mi fu vicino ed io non ne ebbi paura”. Farà un tentativo di uscire dal lato oscuro: si recherà a Roma dal papa per ottenere “la remissione delle colpe”. Ma non gli sarà concessa e dopo il ritorno ucciderà anche Emma, che rimaneva l’unico impaccio nella sua corsa verso la “residenza d’un tempo”, e trascinerà con sé nella perdizione Federico, l’amico più caro.

Rispetto alla favola Giacinto e Fiordirosa di Novalis, in quelle di Tieck non c’è il superamento del lato oscuro. Non c’è la coincidenza della donna del bosco con Elisabetta, né con Emma. Ciò che prevale è l’oscurità della natura che appare a volte nella veste di madre e a volte in quella di matrigna. Un grembo di dimensioni cosmiche, che a volte è bello e accogliente più di ogni altra cosa e a volte no, e si è attirati nell’immenso vortice dove non ci sono più lo spazio e il tempo, come nel regno delle Madri di Goethe. Quindi uno smarrimento e una perdizione, ma che a volte appaiono dolcemente consolanti. Com’è ogni grembo di donna d’altronde, dove si entra e non si potrebbe fare a meno ed anzi non c’è desiderio più grande. E le consolazioni sono i figli, che sono pur sempre i premi di chi percorre quel cammino tenebroso.

*

n) Il lato oscuro nel racconto La metamorfosi di Kafka

Framz Kafka, La metamorfosi (1915)

Il lato oscuro nel racconto intitolato La metamorfosi è un incubo emerso dal sonno: un insetto orribile e gigantesco che non viene fugato dal risveglio, perché esso non è più completamente distinto dal suo opposto, il sonno, e i due si confondono. Sorto, dunque, dal profondo, l’incubo non svanisce perché rimane dentro un altro Buio, quello che ho chiamato Notte dell’Occidente, e vi rimane, finché non verrà eliminato da quelli che sono stati i familiari del trasformato in insetto, i quali invece continuano a svegliarsi come prima e si trasformano in aguzzini. Il motivo l’ho indicato: solo pochi hanno avuto antenne tanto sensibili da captare il declino e la caduta dell’occidente. Solo pochi hanno vissuto l’esperienza di quella trasformazione. I più sono passati sotto l’orizzonte ad occhi chiusi e mente spenta ed ora si trovano nel nichilismo. Ma è diventato “condizione normale” e non capiscono più il cambiamento, o percepiscono confusamente che tutto, proprio tutto, si sta deteriorando e marcendo.

Ecco un breve riassunto del racconto.
“Gregor Samsa si risvegliò una mattina da sogni tormentosi (e) si ritrovò nel suo letto trasformato in un insetto gigantesco. Giaceva sulla schiena dura come una corazza e sollevando un poco il capo poteva vedere la sua pancia convessa, colore marrone, suddivisa in grosse scaglie ricurve; sulla cima la coperta, pronta a scivolare via, si reggeva appena. Le sue numerose zampe, pietosamente esili se paragonate alle sue dimensioni, gli tremolavano disperate davanti agli occhi”. [73] Un mostro innocuo e maldestro che seminerà il panico nella sua famiglia composta, oltre che da lui, da una sorella e dai due genitori, e in coloro che avranno la sorte di vederlo. Accudito dapprima dalla sorella che lo riteneva ancora il fratello cui era capitata un’inspiegabile sventura e lo trattava come tale, sarà poi trascurato anche da lei e, alla fine, abbandonato, perché “così non si poteva andare avanti”. Lo disse ai genitori alla presenza di Gregor. “Non voglio pronunciare il nome di mio fratello davanti a questa bestiaccia e dico soltanto: dobbiamo cercare di liberarcene”. [74] La nostra disgrazia è di avere creduto per troppo tempo che sia Gregor. Ma come potrebbe esserlo? “Se fosse stato Gregor si sarebbe già reso conto che la convivenza di esseri umani con una bestia simile non è possibile e se ne sarebbe andato spontaneamente. Noi non avremmo avuto più il fratello, però avremmo potuto continuare a vivere serbando un buon ricordo di lui. Ma così questa bestia ci perseguita, caccia via i pensionanti, vuole impadronirsi evidentemente di tutto l’appartamento e farci dormire per strada”. [75]
A eliminare il mostruoso insetto ci penserà il padre, che gli scaglierà contro una mela, e il cadavere verrà gettato nella spazzatura dalla zelante serva che rivolgendosi al capo famiglia con in sorriso di compiacimento così comunicherà la notizia: “Non si preoccupi più di come sbarazzarsi di quella roba di là. È tutto sistemato” [76].
Tante altre opere di questo tipo, con il lato manifesto in lotta mortale con quello scuro, esistono nella vasta letteratura e vedrò di allungarlo questo elenco. Anzi mi sembra che non ci sia libro di poeta e filosofo, scritto dopo il Tramonto, dove questa impari lotta non sia in primo piano. Una regola che valeva anche prima, tuttavia, anche se aveva altri nomi il lato oscuro, o non c’era un contatto così diretto come ai nostri giorni per cui sarebbe parso eccessivo usare per esso i nomi sosia, gemello, doppio; anche se la morte non sembrava la metà nascosta della vita, indissolubilmente legata ad essa dal rapporto vita-morte che si doveva andare a scoprire per saperne di più di noi stessi, perché il proposito antico contenuto nelle parole conosci te stesso potesse fare davvero un passo avanti. D’altronde alcuni degli scrittori dei nostri tempi che meglio esprimono l’Occidente d’oggi, ben sanno che è “l’inevitabilità della propria morte il vero grande tema della letteratura dell’orrore: il nostro bisogno di venire a patti con un mistero che può essere compreso solo con l’aiuto di una immaginazione colma di speranza”. [77]
Dunque, una lotta che c’è sempre stata fra le due parti di cui sono fatti l’uomo e la donna e che sempre è stata espressa, che è la madre di tutte le battaglie, ed io ho invitato a prenderne atto e osare, portando esempi insigni di chi ci ha preceduti. Ma per ora pongo la parola fine alle ricerche nel passato e continuo con la letteratura dei nostri giorni, quella appunto dell’angoscia, dell’incubo, dell’orrore, la più consona ad esprimere la situazione dell’uomo odierno e dell’ambiente dove vive: nell’Occidente accampato nella Notte, anzi per i più nelle Tenebre sconfinate.

[Continua]


[72] Novalis, Fiabe romantiche, a cura di Italo Maione, UTET 1942.
[73] F. Kafka, La metamorfosi, Tascabili economici Newton, pag. 15.
[74] Ivi, pag. 60.
[75] Ivi, pagg. 60-61.
[76] Ivi, pag. 65.
[77] Da una intervista a Stephen King, apparsa sul Corriere della Sera in occasione dell’uscita del suo ultimo libro Tutto è fatidico.

La metà nascosta — Seconda parte (28i)

7 agosto 2011

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Leggi il capitolo 28 b della Seconda parte
Leggi il capitolo 28 c della Seconda parte
Leggi il capitolo 28 d della Seconda parte
Leggi il capitolo 28 e della Seconda parte
Leggi il capitolo 28 f della Seconda parte
Leggi i capitoli 28 g e 28 h della Seconda parte

Mary Shelley, Frankenstein, o il moderno Prometeo (1818)

i) Il lato oscuro nel romanzo Frankenstein, di Mary Shelley.

Ne ho già fatto cenno: sono soprattutto scienza e tecnica che hanno consentito all’uomo di mantenersi artificialmente nel suo lato manifesto e di conservare in esso ricchezza e potere, ciò che sta accadendo soprattutto ai nostri giorni con l’Occidente in netta superiorità di forza rispetto agli altri popoli e con i suoi abitanti dediti agli agi, ai vizi, ai divertimenti e alla vita nell’abbondanza. Si sta anche tentando di rendere imperitura questa situazione, puntando sulla durata non solo dell’Occidente, ma anche dei suoi singoli abitanti cui si sta promettendo vita sempre più lunga, e non solo. Anche vita perpetua, che si può ottenere, dicono gli scienziati, con la clonazione. Modi, insomma, per non andarsene più dalla luce del sole e da quella della ragione, diventata anche quest’ultima a portata di mano come lo è stata l’altra, trasformata in torce e in lumi che rischiaravano i cammini notturni e i bivacchi degli antichi. Bene anche per me, io dico ora, perché mi ha permesso di compiere il cammino nella Notte come avanguardia, e quindi con un sostegno di dietro le spalle e con la possibilità di comunicazione e di rientro. In altri tempi, vale a dire senza l’appoggio e la protezione della mia pur decadente civiltà alle spalle, e senza la luce della ragione ridotta a lampada per la lunga Notte, non sarei riuscito a tanto. Ma poi c’è anche l’altro aspetto: il dominio incontrollato che l’Occidente esercita sugli altri popoli e lo sfruttamento che perseguita, usando ed abusando. Ma questo è un altro aspetto che non c’entra con il lato oscuro di cui mi sto occupando.
Dunque, è soprattutto la scienza applicata, che determina la permanenza dell’Occidente nel lato che ha occupato per circa venticinque secoli, e che sarebbe finito se non fosse stato trasformato in mondo artificiale; e determina la posizione dell’occidentale: ricco, pasciuto come un porco in brago, per la maggioranza dedito alla cura del corpo, alla sua esibizione, alla pornografia, alla pedofilia, alla caccia dei soldi da ottenere senza riguardo ai modi. Ebbene, la tecnica come deus ex machina è stata posta in luce soprattutto nel romanzo Frankenstein, un mostro costruito con quel mezzo, l’alter ego di Frankenstein scienziato, il padre” che gli ha dato la vita. Unico romanzo di tal genere scritto da una donna, un po’ per vendetta io direi: non è stata la donna occidentale, infatti, a subire avversità e privazioni a causa dell’Occidente! Ma soprattutto per profondo intuito femminile. L’uomo con in mano la scienza vuole, infatti, sottometterla ancora una volta, privandola anche del potere esclusivo di cui ha goduto finora, quello di generare. Per infondere lui la vita in un corpo costruito con parti d’altre salme, razziate negli obitori e nelle tombe, torturando “gli animali vivi per animare la creta inerte” e profanando “i segreti del corpo umano”. Risulterà un mostro orrendo “che neppure Dante avrebbe saputo concepire”. “Nessun mortale avrebbe potuto reggere all’orrore di quel volto! Una mummia ritornata in vita non avrebbe potuto essere più spaventosa”. [62]
E quel mostro, simile a quelli di produzione maschile di quel tempo, si dedicherà ai più efferati delitti contro i familiari ed amici del suo creatore, Victor Frankenstein, − di cui porterà il cognome, come un figlio quello del padre. Ucciderà il suo fratellino, strozzandolo; provocherà la condanna a morte di Justine, mettendogli in tasca la collana che il bambino portava al collo, per cui sarà ritenuta lei l’assassina; strozzerà Clerval, il suo più caro amico; ucciderà nello stesso modo la sua sposa, Elizabeth, la sera stessa delle nozze; sarà la causa della morte del padre, “vittima di un colpo apoplettico” dopo che ha saputo dell’ultimo delitto; e alla fine anche della sua, distrutto dalla fatica e dagli stenti durante un inutile inseguimento fino ai ghiacci polari.
Fino a questo punto, il “demonio”, il “mostro”, come l’ha chiamato fin dall’inizio il suo “creatore”, non si distingue dagli altri demoni, fatti di male e di perversione. Il signor Hide del romanzo di Stevenson, per esempio, gli assomiglia. E così saranno, a mano a mano che si entra sempre più profondamente nella Tenebra, i personaggi del lato oscuro dei romanzi dei nostri tempi, come si vedrà; e così saranno chiamati i protagonisti dei più efferati delitti della cronaca dei nostri giorni. A questo punto, perciò, finirebbe la storia di Frankenstein se fosse stata scritta da un uomo. Ma questa volta l’autrice è una donna, l’altra metà del cielo, la metà nascosta, e qualcosa accade di completamente nuovo. Il lato oscuro non è più descritto da chi sta dall’altra parte, vale a dire da quella maschile che perciò non vede davvero, ma dalla stessa e muta la rappresentazione. Il lato oscuro a questo punto difende se stesso, inconsciamente si difende, ecco la novità. La quale deve essere stata intuita anche dai lettori se il romanzo ha avuto tanto successo e non mostra segni d’invecchiamento. Anzi rivisto in questo nostro clima di ingegneria genetica e di clonazione umana è come se non fosse passato il tempo per esso. Ma ecco cosa è successo di nuovo.
Frankenstein, “figlio” di Victor, non è un mostro nel suo intimo, là dentro è un angelo. Mostro diventa a poco a poco, dopo che è stato rifiutato dallo stesso “padre” e poi da tutti gli uomini e donne con cui è venuto a contatto, che inorriditi fuggivano appena lo vedevano. Il primo abbandono l’ha subito da Victor stesso che l’ha così raccontato. “Come descrivere le mie emozioni dinanzi a quella catastrofe, o come dare un’idea dell’infelice che, con cura e pene infinite, mi ero sforzato di creare?” […] “Avevo desiderato il successo con un ardore che trascendeva ogni moderazione; ma ora che vi ero giunto, la bellezza del sogno svaniva, e il mio cuore era pieno di un orrore e di un disgusto indicibili. Incapace di sopportare la vista dell’essere che avevo creato, mi precipitati fuori del laboratorio e passeggiai a lungo su e giù per la mia camera da letto, senza decidermi a prendere sonno”.

Rifiutato dal suo “creatore”, il “demonio” tenterà poi con altri umani. Con la famigliola formata da Agatha, Felix e dal loro padre cieco De Lancey, e in seguito anche da Sofie, la fidanzata di Felix. Si nasconderà presso la loro casa nel bosco e, senza farsi mai vedere, li aiuterà, ed essi penseranno che si tratti di un misterioso benefattore. Imparerà da loro molte cose, specialmente il linguaggio, sperando un giorno di potersi presentare e farsi accogliere, perché “più li osservava, più aumentava il suo desiderio di chiedere loro protezione e affetto; il suo cuore bramava di essere conosciuto e amato da così buone creature: vedere i loro sguardi rivolti a lui con simpatia rappresentava il limite massimo delle sue ambizioni. Non osava neppure pensare che si allontanassero da lui con sdegno e terrore. Mai veniva respinto il povero che bussava alla loro porta. Lui chiedeva, è vero, tesori più grandi di un poco di cibo o della possibilità di riposo: chiedevo bontà e simpatia; ma né dell’una né dell’altra mi credevo indegno”.[63] Invece sarà respinto, cacciato, bastonato.
L’occasione propizia s’era presentata un giorno che il padre era solo in casa.
“Quando mi accinsi a mettere in opera il mio piano”, ha raccontato il povero mostro, “le gambe mi vennero meno e caddi a terra. Mi rialzai, e, facendo appello a tutte le mie energie […] con rinnovata decisione mi appressai alla porta della casa. Bussai. – Chi è – disse il vecchio. – Avanti − entrai. – Scusate il disturbo – dissi. – Sono un viandante che ha bisogno di un poco di riposo; vi sarei molto grato se mi permetteste di restare qualche minuto accanto al fuoco. − Entrate – disse De Lancey. – Cercherò di fare del mio meglio per sopperire alle vostre necessità; ma, disgraziatamente, i miei figli sono assenti, e temo mi riuscirà difficile procurarvi qualcosa da mangiare, perché sono cieco.
− Non disturbatevi, mio gentilissimo ospite. Ho di che mangiare; mi occorrono soltanto calore e riposo.
Mi misi a sedere e seguì una pausa di silenzio. Sapevo che ogni minuto mi era prezioso, ma ero incerto circa il modo di dare inizio al colloquio, quando il vecchio mi rivolse la parola.
− Dal vostro modo di esprimervi, straniero, credo che siate mio compatriota; siete francese?
− No, ma sono stato educato da una famiglia francese, e comprendo soltanto quella lingua. Sto per recarmi a chiedere protezione da alcuni amici che amo sinceramente e sul cui favore ho qualche speranza. Sono tedeschi?
− No, sono francesi. Ma cambiamo argomento. Sono una creatura disgraziata e sola; mi guardo attorno e non ho al mando parente o amico. Le brave persone presso le quali mi reco non mi hanno mai visto, e ben poco sanno di me. Sono pieno di timori perché, se fallissi il mio scopo, sarei per sempre un reietto sulla faccia della terra.
− Non disperate. È certo una grande sfortuna non avere amici; ma il cuore dell’uomo, quando non siano in gioco interessi personali troppo evidenti, trabocca di amore fraterno e di carità. Fidate, quindi, nelle vostre speranze, e se questi vostri amici sono buoni e amabili, non disperate.
− Sono buoni, sono le migliori creature di questo mondo; ma, disgraziatamente, sono prevenuti contro di me. Sono animato da buone intenzioni; la mia vita è stata fino ad oggi inoffensiva e, in un certo senso, benefica. Ma un fatale pregiudizio ottenebra i loro occhi, ed essi vedono un detestabile mostro là dove dovrebbero vedere un amico sincero e affettuoso.
− Si tratta certo di una grande sfortuna; ma, se siete davvero senza colpa, non potete convincerli di ciò?
− È quello che sto cercando di fare, e proprio per questo nutro grandissimi timori. Voglio molto bene a questi amici; da parecchi mesi, anche se essi non lo sanno, mi comporto ogni giorno nel modo più benevolo nei loro confronti. Ma essi credono che io voglia nuocere loro, ed è questo pregiudizio che devo superare.
− Dove abitano questi amici?
− Nei dintorni.
− Il vecchio fece una pausa, poi continuò: − se volete confidarmi con la massima sincerità i particolari della vostra storia, può darsi che possa fare qualcosa per convincerli. Sono cieco, e non posso trar giudizi dal vostro aspetto, ma nelle vostre parole c’è qualcosa che mi persuade della vostra sincerità. Sono un povero esiliato, ma sarebbe per me un piacere grandissimo essere in qualche modo utile a una creatura umana.
− Uomo eccellente! Io vi ringrazio e accetto la vostra generosa offerta. Con questa vostra benevolenza mi sollevate dalla polvere, e sono certo che, con il vostro aiuto, non sarò respinto dalla società e dalla simpatia dei vostri simili.
− Il Cielo non voglia, anche se voi foste un criminale; perché questo potrebbe solo spingervi alla disperazione e non volgervi alla virtù. Anch’io sono disgraziato; sono stato condannato assieme alla mia famiglia, per quanto innocente; giudicate, quindi, se posso comprendere le vostre sventure.
− Come posso ringraziarvi, mio ottimo e solo benefattore? Dalle vostre labbra ho sentito per la prima volta un accento gentile; sempre ve ne sarò grato, e questa vostra comprensione mi rende sicuro del successo con gli amici che sto per incontrare.
− Potrei conoscere il nome e l’indirizzo di questi amici?
Feci una pausa. Era, pensai, il momento della decisione, il momento che avrebbe potuto concedermi o sottrarmi per sempre la felicità. Cercai invano la fermezza sufficiente per rispondergli; lo sforzo mi tolse ogni energia e caddi a sedere su una sedia, singhiozzando forte. In quel momento sentii i passi dei miei giovani protettori. Non avevo un istante da perdere , e, afferrando la mano del vecchio, gridai: − l’ora è giunta! Salvatemi e proteggetemi! Voi e la vostra famiglia siete gli amici che cerco. Non abbandonatemi nel momento della prova!
− Gran Dio! – esclamò il vecchio. – Chi siete?
− Allora entrarono Felix, Safie e Agatha. Chi può descrivere il loro orrore e il loro sgomento quando mi videro? Agatha svenne, e Safie, incapace di soccorrere l’amica, si precipitò fuori dalla casa. Felix balzò in avanti e, con forza sovrumana, mi strappò dal padre, alle cui ginocchia mi ero afferrato. In un impeto d’ira, mi buttò a terra e, mi colpì violentemente con un bastone. Avrei potuto farlo a pezzi, come il leone con un’antilope. Ma, stretto da profonda amarezza, il cuore mi mancò, e mi trattenni. Vidi che era sul punto di ripetere il colpo quando, vinto dal dolore e dall’angoscia, uscii dalla casa e, nella confusione generale, senza che alcuno mi notasse, corsi nel mio rifugio”.[64]
Dopo questo nuovo fallimento, per non rimanere perdutamente solo, costretto a nascondersi continuamente in caverne e boschi e in balia delle forze avverse della natura, il mostro farà l’estremo tentativo con il “padre”. Gli chiederà una cosa “ragionevole e modesta, che gli crei una creatura dell’altro sesso orrenda come lui. Un misero compenso” egli aggiunge, “ma è tutto quello che posso ottenere, e me ne accontenterò. Saremo due mostri esclusi dal mondo, è vero, ma proprio per questo più grande sarà il nostro reciproco affetto. Le nostre vite non saranno liete, ma innocue, e libere dall’angoscia che ora provo”.[65]
In un primo tempo Victor accetta alla condizione che il mostro lasci l’Europa e fugga il consorzio umano, e arriva vicino alla conclusione, ma poi, pensando che i due potevano avere dei figli e che “sulla terra si sarebbe propagata una progenie diabolica che avrebbe potuto rendere precaria e piena terrore l’esistenza dell’uomo”, [66] la distrugge. A questo punto la vendetta di Frankenstein creatura diventerà irrefrenabile, quella che ho detto all’inizio, che toglierà al suo creatore i familiari, l’amico, la giovane moglie appena sposata. Victor, distrutto dal dolore, continuerà a vivere solo per la vendetta. Ma come rintracciare e uccidere “un animale in grado di abitare caverne e tane” e vivere in luoghi dove l’uomo non può neppure avventurarsi? Perciò sarà una folle ricerca la sua e un folle inseguimento, seguendo le indicazioni che il demone gli lasciava per via. In una era scritto: “Seguimi; mi sto dirigendo verso i ghiacci eterni del nord, dove tu soffrirai le torture del freddo e del gelo a cui io sono insensibile. Se mi segui abbastanza da presso, troverai qui vicino una lepre morta; mangiala e rimettiti in forze. Vieni, mio nemico; dobbiamo ancora lottare per la nostra esistenza; ma, prima che quel momento arrivi, dovrai sopportare ancora molte ore durissime e angosciose”.[67]
Così il folle inseguimento di Victor, finché non fu costretto a fermarsi, vinto dalle fatiche e dalle privazioni. Fu raccolto da una nave e spirò fra le braccia del comandante al quale aveva raccontato il suo dramma. Quando il mostro, la cui ombra furtiva era stata vista sui ghiacci che circondavano la nave, venne a saperlo, entrò nella cabina dove giaceva il corpo esanime del suo creatore. Il comandante della nave lo vide e voleva vendicare Victor, ma fu fermato dalle esclamazioni di dolore e d’orrore di quella creatura orribile, china sulle bara: “Ecco la mia ultima vittima; in questo delitto è il compimento dei miei crimini. La mia miserabile esistenza volge al termine. Oh, Frankenstein, creatura generosa e devota! A che vale ora che io ti chieda di perdonarmi? Io, che ti ho implacabilmente distrutto uccidendo tutto quello che amavi…”. In una pausa di quel tumultuoso sfogo, “di quel mugolare rimproveri selvaggi e incoerenti contro se stesso”, quasi non osando “levare nuovamente lo sguardo al suo viso, perché nella sua bruttezza c’era qualcosa di terrificante e di soprannaturale”,[68] il comandante trovò il coraggio di affrontarlo così: “Miserabile ipocrita! Se colui che tu piangi vivesse ancora, ancora sarebbe l’oggetto, ancora sarebbe la preda della tua vendetta. Non è pietà quella che tu senti; tu piangi solo perché la vittima della tua malignità si è sottratta al tuo potere”. [69] “Oh, non è vero, non è vero, − interruppe il mostro − anche se tale può essere la tua impressione… Una volta i miei sogni erano allietati da visioni di virtù, di fama e di gioia. Una volta mi illudevo di incontrare esseri che, perdonandomi il mio aspetto esteriore, potessero amarmi per le qualità che ero in grado di dimostrare. C’erano in me pensieri di onore e di devozione. Ma ora il peccato mi ha messo più in basso del più spregevole animale… Quando passo in rassegna la serie spaventosa delle mie imprese, non posso credere di essere colui il cui animo era una volta pieno di sublimi aneliti, alla bellezza, alla bontà. Ma così è: l’angelo caduto si è trasformato in un demone maligno.” [70] Poi, continuando: “Non temere che io possa essere lo strumento di futuri misfatti”. Morirò. “E non credere che sarò lento nel compiere questo sacrificio. Lascerò la tua nave… raggiungerò l’estremità più settentrionale del globo; drizzerò il mio luogo funebre e ridurrò in cenere questo mio miserabile corpo perché i miei resti non possano illuminare il curioso insensato che avesse in animo di creare un altro essere come me… Morto è colui che mi ha messo in vita, e quando anch’io non sarò più, il nostro ricordo svanirà rapidamente. Così dicendo, balzò dal finestrino sulla lastra di ghiaccio che galleggiava accanto alla nave. In breve fu spinto lontano dalle onde, e si perdette fra le tenebre”. [71]
Così si sono distrutte le due metà dello stesso, dove una aveva il gentile aspetto umano ma frugava nelle tenebre dei cimiteri, sezionando i cadaveri per comporre con le loro parti il demone; e l’altra quello del demone che ambiva di raggiungere la bellezza, la bontà, la gioia. Ognuna incompleta, dunque, e cercante l’altra. E così sarà ancora e sempre per l’uomo; o finché non riuscirà a superare la sua metà tenebrosa e arrivare dove gli opposti s’incontrano e coincidono.

[Continua]

[62] Mary Shelley, Frankenstein, Corriere della Sera – I grandi romanzi, pag. 60.
[63] Ivi, pagg. 139-140.
[64] Ivi, pagg. 140-143.
[65] Ivi, pag. 154.
[66] Ivi, pag. 176.
[67] Ivi, pag. 219.
[68] Ivi, pag. 236.
[69] Ivi, pag. 237.
[70] Ivi, pag. 238.
[71] Ivi, pag. 240.

La metà nascosta — Seconda parte (28g-28h)

17 luglio 2011

Leggi i capitoli 1-27 della Prima parte
Leggi il capitolo 28 a della Seconda parte
Leggi il capitolo 28 b della Seconda parte
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Leggi il capitolo 28 d della Seconda parte
Leggi il capitolo 28 e della Seconda parte
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Edgar Allan Poe (1809-1849)

g) Il lato oscuro nella novella William Wilson di Edgar Allan Poe

C’è in questa novella un’inversione di ruolo. Dopo il Tramonto o le sue avvisaglie, il cammino dell’Occidente è avvenuto passando dal Giorno alla Notte e perciò il protagonista in primo piano è sempre stato il lato manifesto, quello che lasciando la luce incontrava il buio, ed era sempre lui a raccontare. Questa volta chi narra è invece l’altro, come se, già caduto in basso, egli si volgesse alla sua parte luminosa che ha appena lasciato. Infatti, William Wilson studente quindicenne, portava già in sé i germi della lussuria e quelli del crimine che si svilupperanno e prolifereranno nella più avanzata giovinezza e nella maturità.
La parte luminosa ha la veste di un ragazzo, che frequenta la stessa scuola di William. All’inizio i due non si conoscono e sembra che non abbiamo niente in comune. Ma poi si presentano somiglianze in continuazione. Anche quel ragazzo si chiama William Wilson come il protagonista. Sono entrati nella scuola del reverendo Dr Bransby lo stesso giorno. La data di nascita è per ambedue la stessa: il diciannove gennaio 1813. Hanno uguale statura e vestono allo stesso modo. Sono “stranamente somiglianti anche nella corporatura, nella fisionomia”, nel modo di camminare. Si vociferava, nelle classi superiori, di una loro parentela. Si contendono loro due la palma negli studi, nei giochi, nelle competizioni, ma con una differenza sostanziale: che il primo Wilson usa delle sue doti per esercitare il suo dispotismo, e non ce n’è uno maggiore di quello “che la mente di un adolescente esercita sui suoi compagni più deboli”, mentre l’omonimo gli si oppone, rifiutando pubblicamente di credere nelle sue asserzioni e di sottomettersi alla sua volontà. Perciò, nonostante fossero compagni inseparabili, l’insofferenza del primo per il secondo aumenta in continuazione fino ad acquistare “la caratteristica del vero odio”. A questo punto accadono due fatti importanti. Una sensazione da cui non riesce a liberarsi opprime il Wilson oscuro: quella d’aver conosciuto il suo omonimo “in un’epoca profondamente lontana, in un passato profondamente remoto”. Ed entrando una notte, furtivamente, nella sua stanza da letto mentre dormiva e “scostando lentamente e senza far rumore le fitte tende che lo circondavano”, mentre “un torpore, un gelo invasero istantaneamente tutto il suo corpo” [60] e mentre “il suo cervello era sconvolto da una moltitudine di pensieri”, s’accorge con orrore che quello che vede non è solo il frutto di una perfetta imitazione, ma lui stesso. Atterrito, fugge dalla scuola, “per non rientrarvi mai più”.
Ma non riuscirà a liberarsi dal suo lato luminoso. Lo incontrerà in ogni parte dov’egli si recherà e sempre nei momenti in cui sta attuando i suoi maggiori misfatti. “Lo ammonisce a Eton, distrugge il suo onore a Oxford, frustra le sue ambizioni a Roma, impedisce la sua vendetta a Parigi, ostacola il suo perverso amore a Napoli e i suoi intrighi in Egitto”. Esasperato per questi smascheramenti che lo costringono a cambiare continuamente ambiente e vittime, una sera decide di affrontarlo in duello. Lo scontro è breve. In pochi secondi “lo spinge con forza verso la parete, con la sua spada, e trafigge più volte il suo petto”. Così l’epilogo raccontato dal protagonista. “In quel momento qualcuno tentò di aprire la porta. Mi affrettai per impedire l’intrusione, quindi tornai dal mio moribondo avversario. Ma quale linguaggio umano può adeguatamente descrivere quello stupore, quell’orrore che s’impadronì di me, davanti allo spettacolo che si presentava ai miei occhi? Il breve istante in cui avevo distolto lo sguardo era bastato per produrre un totale cambiamento nella disposizione dell’altra estremità della stanza. Un grande specchio, così mi sembrò nel mio turbamento, si trovava adesso dove prima non c’era nulla, e mentre, in preda al terrore, mi avvicinavo ad esso, la mia immagine, ma con il volto pallido e insanguinato, avanzava verso di me, con passo debole e malfermo. Così mi parve, dico, ma non era. Era il mio avversario, era Wilson che mi stava di fronte nell’agonia della sua dissoluzione. La sua maschera e il suo mantello giacevano a terra, dove li aveva gettati. Non c’era un filo del suo vestito, non un tratto dei suoi intensi e singolari lineamenti che non fossero, in perfetta identità, i miei!” […] “Tu hai vinto e io soccombo − egli disse − ma da questo momento anche tu sei morto, morto al Mondo, al Cielo e alla Speranza! Tu esistevi in me, e nella mia morte, in questa immagine che è la tua, vedi come hai completamente assassinato te stesso”. [61]
Perché il tenebroso Wilson è morto anche lui come il suo omonimo luminoso? Perché uccidere la propria parte diurna, quella, appunto, che abita il Mondo, il Cielo e la Speranza scritti con la maiuscola − la Luce più alta come io la chiamo −, significa rimanere nel Buio senza più alcuna possibilità d’uscita, abitatori perenni di essa come i dannati e i demoni. O significa la caduta nella morte, in profondità illimitate, da cui non c’è ritorno come singolo.

*

Robert Louis Stevenson, Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde (1886)

h) Il lato oscuro nel romanzo Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hide di R.L. Stevenson.

Il doppio del dottor Jekyll è il signor Hyde, che questa volta non è ombra, o immagine, o altra presenza misteriosa, ma lo stesso protagonista che si trasforma in mostro, ed ora è un lato ora l’altro. Stevenson inscena il grande tema della duplicità della natura umana, anticipando le scoperte della psicanalisi e della psicopatologia del profondo, dice la critica ancora oggi. Ma la natura umana è sempre stata duplice, soltanto che era prevalente un lato. Fino a Tramonto, almeno nella struttura sociale ed economica, prevaleva il bianco: l’uomo era uomo nel senso comune e generale e la donna era donna. Vale a dire non c’erano i pubblici gay e le pubbliche lesbiche, o in misura molto ridotta. Non c’erano le famiglie di coppie dello stesso sesso. Questo poteva accadere nella sfera privata, a ricordo perenne della duplicità della natura umana. La quale, però, costretta in un certo modo dalle leggi di Dio e degli uomini, rimaneva presente da una sola parte. Perciò, che Stevenson ai suoi tempi abbia riportato in auge la duplicità della natura, non avrebbe costituito una gran cosa, avrebbe ripetuto solamente un antico tema e non risulterebbe spiegato l’incredibile successo, ottenuto dal suo libro fin dalla prima edizione. Esso era dovuto a ben altra cosa: al farsi avanti del doppio, la natura sconosciuta, tenebrosa e mostruosa dell’uomo che aveva ormai superato il confine segreto della luce, quello tenuto chiuso da tanti divieti divini e umani lungo tutta la storia dell’Occidente. Nel Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hide, a differenza delle altre opere che ho preso fin qui in considerazione, non c’è in primo piano la vittima femminile, l’agnello sacrificale sull’altare del lato oscuro maschile, ma qualcosa di simile non poteva mancare. C’è una bambina con la quale Hide si è scontrato in una scura mattina d’inverno. L’ha fatta cadere e poi l’ha calpestata. Tranquillamente è passato sopra quel piccolo corpo, e poi l’ha abbandonato che gridava, lì per terra. Indicativa, inoltre la reazione della moglie di Stevenson, che ascoltata la storia che il marito aveva appena finito di leggerle, ha distrutto il manoscritto. È la reazione della donna che ha intuito il pericolo che si stava scatenando, quello che sta colpendo a morte tante donne nella nostra epoca, e ha cercato di eliminarlo. Ma non era mostro che si potesse distruggere solo impedendo che la notizia del suo manifestarsi fosse diffusa, né era Stevenson che lo aveva evocato. Giungeva dalle Tenebre, era “non solo diabolico, ma inorganico”, aveva “la firma di satana nel volto”. Stevenson ne ha soltanto dato notizia, e perché non si perdesse quell’avvenimento ha riscritto l’opera in tre giorni.
Si noti inoltre che l’ombra, il doppio, il riflesso, il mostro, Satana stesso, provengono dal lato oscuro: sonno, inconscio, morte. Sono presenze oniriche, emersioni dal profondo, storpi fin nel fisico. Nel caso del romanzo di Emerson, lui stesso ha affermato che Hyde era un incubo, e alla fine, come s’è visto, la figura tenebrosa ha invaso quella luminosa e ha preso il suo posto.

[Continua]

[60] Edgar Allan Poe, Tutti racconti, Mursia, pag. 204.
[61] Ivi, pagg. 211-212.

La metà nascosta — Seconda parte (28f)

3 luglio 2011

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Oscar Wilde (1854-1900)

f) Il lato oscuro nel romanzo Il ritratto di Dorian Gray di Oscar Wilde.

Anche nel romanzo Il ritratto di Dorian Gray c’è il patto con il diavolo. Il tentatore veste i panni di lord Henry Wotton, un dandy cinico, decadente, beffardo, dissacratore, per cui “la giovinezza è l’unica cosa che vale la pena di avere” e “solo i mediocri non giudicano secondo le apparenze… Il vero mistero del mondo è ciò che è visibile, non ciò che è invisibile”.[49] Una vera e propria anticipazione della civiltà dell’immagine, quella che ora è proposta alle masse dai media. Quella della televisione “spazzatura”, delle riviste pattinate, dei calendari di donne e uomini nudi.
La prima volta che lo vede nello studio dell’amico pittore, dove sta posando per un quadro che lo ritrae, lord Henry dice a Dorian, bellissimo ma ancora candido e ingenuo: “Lei ha soltanto pochi anni da vivere veramente, perfettamente e pienamente. Quando la sua giovinezza se ne andrà, la sua bellezza svanirà con lei, e di colpo scoprirà che non ci saranno altri trionfi per lei, e dovrà contentarsi di quei miseri trionfi che la memoria del passato renderà più amari delle sconfitte. Ogni mese che passa la porta più vicino a qualcosa di orrendo. Il tempo è invidioso di lei e dichiara guerra ai suoi gigli e alle sue rose. Diventerà giallastro, con le guance cave e gli occhi spenti. Soffrirà orribilmente… Faccia fruttare la sua giovinezza finché la possiede! Non dilapidi l’oro dei suoi giorni ad ascoltare i noiosi, o a cercare di rimediare a un fallimento senza speranza, o a regalare per niente la sua vita agli ignoranti, ai dozzinali, ai volgari. Questi sono i traguardi malsani e i falsi ideali della nostra epoca. Viva! Viva la vita meravigliosa che è il lei! Faccia in modo che nulla si perda di lei. Cerchi sempre nuove sensazioni. Non abbia paura di nulla… Il nostro secolo vuole un nuovo Edonismo, e lei ne può essere il simbolo visibile. Con la sua personalità, non c’è niente che lei non possa fare. Almeno per una stagione il mondo le appartiene… Non c’è nulla al mondo all’infuori della giovinezza!”.[50] Dopo questo panegirico sulla bellezza e la giovinezza e il terribile ammonimento sulla sua brevità, a Dorian “balenò la piena realtà di quella descrizione”, e, guardando il suo ritratto che l’amico pittore aveva appena finito, “il sentimento della propria bellezza sopravvenne in lui come una liberazione”, e rimirando “l’ombra della propria avvenenza” formula il desiderio: vorrei “rimanere sempre giovane, e che (fosse) il quadro a diventare vecchio! Per questo darei ogni cosa. Non c’è cosa al mondo che non darei! Darei la mia anima per questo!”.[51] Una preghiera che sarà sinistramente esaudita, come si vedrà più avanti. Dunque, il massimo della manifestazione nel lato chiaro in cambio dell’anima, che poi, come s’è visto è l’altra metà, quella che completa e chiude il giro e che una volta aggirata e svelata ci eleva dalla sfera delle cose contrapposte a quella della coincidenza degli opposti, vale a dire dall’apparire all’essere.
La rinuncia dell’anima è, ancora una volta, soprattutto la rinuncia della donna, come dirà lo stesso Dorian dopo una vita di scelleratezze e delitti, quando vorrebbe ritornare indietro, a prima del patto. L’incapacità d’amare sarà la causa della morte di Sibil Vane, “una fanciulla di neppure diciassette anni, con un viso come un fiore, una testina greca con un’acconciatura di capelli, e occhi che erano pozzi viola di passione, e labbra che erano come petali di rosa” [52], attrice di parti drammatiche. Era la cosa più bella che Dorian avesse mai visto. Quando Sibyl incontra Dorian e s’innamora follemente di lui, avviene una metamorfosi di segno inverso a quella accaduta al giovane. Lui aveva rinunciato all’anima per apparire nel pieno fulgore della sua giovinezza e durare così, lasciando invecchiare il ritratto, mentre Sibil, investita dall’amore, rinuncia ad apparire nelle parti delle eroine che interpreta. Non riuscirà più a recitare proprio la sera che Dorian aveva invitato gli amici lord Henry e il pittore Basil, l’autore del suo ritratto, provocando la loro delusione e ironia. “Perché ho recitato così male stasera” – spiega Sibyl. “Perché reciterò sempre male. Perché non reciterò più… − Dorian, Dorian − gridò −, prima di conoscerti, recitare era la sola realtà della mia vita. Vivevo soltanto nel teatro. Pensavo che fosse tutto vero. Una sera ero Rosalinda, un’altra sera ero Porzia. La gioia di Beatrice era la mia stessa gioia, e i dolori di Cordelia erano i miei dolori. Credevo in tutto. Le persone comuni che lavoravano con me mi sembravano tanti dèi. Le quinte dipinte erano il mio mondo. Conoscevo soltanto ombre, e mi sembravano realtà. Poi sei venuto tu, amore mio meraviglioso, e hai liberato la mia anima dalla prigione. Mi hai insegnato cos’è veramente la realtà. Stasera, per la prima volta in vita mia, ho capito la vacuità, la falsità, la stupidità della vana parata alla quale ho sempre preso parte. Stasera, e per la prima volta, sono stata consapevole che Romeo era orribile, e vecchio, e truccato, che il chiaro di luna sul giardino era falso, che lo scenario era volgare, che le parole che dovevo pronunciare erano irreali, non erano le mie parole, non dicevano quello che volevo dire. Mi hai portato qualcosa di più elevato, qualcosa di cui l’arte intera è soltanto un riflesso… Quando sono entrata in scena stasera non capivo cosa mai fosse sparito da me. Pensavo che sarei stata magnifica, e ho scoperto che non riuscivo a far nulla. Di colpo mi sorse nell’anima il senso di tutto questo, e fui felice di saperlo. Li sentivo fischiare e sorridevo. Che potevano saperne di un amore come il nostro? Portami via, Dorian … Odio il palcoscenico. Potrei simulare una passione che non sento, ma non posso simularne una che mi brucia come il fuoco.” [53] Così Sibyl spiegò a Dorian il suo fiasco terribile sulla scena, ma crudele e violenta fu la sua reazione. “Hai ucciso il mio amore – gridò −. Tu eri solita accendere la mia immaginazione, ora non accendi neanche la mia curiosità. Non hai più alcun effetto di me. Ti amavo perché eri meravigliosa, perché avevi genio e intelligenza, perché facevi rivivere i sogni dei grandi poeti e davi forma e sostanza alle ombre dell’arte. Hai gettato via tutto ciò. Sei superficiale e banale. Dio mio! Com’ero pazzo ad amarti!… Me ne vado… Non voglio essere scortese, ma non posso più vederti. Mi hai deluso. Ella pianse silenziosamente e non rispose, ma si trascinò vicino a lui. Le sue piccole mani si protendevano ciecamente intorno, e sembravano cercarlo. Dorian si volse sui tacchi e lasciò la stanza. In pochi istanti fu fuori del teatro”. [54]
Dopo l’abbandono che è la causa del suicidio di Sibyl, inizia il mutamento del ritratto. Appare in esso, anziché sul volto del giovane Dorian, la prima “linea di crudeltà attorno alla bocca”. Vedendola, dapprima meravigliandosi, poi riflettendo, gli tornò in mente “Il folle desiderio di conservare intatta la sua bellezza mentre il volto sulla tela avrebbe mostrato il peso della sua passione e dei suoi peccati; e che l’immagine dipinta fosse segnata dalle rughe della sofferenza e del pensiero, mentre egli avrebbe conservato il fiore delicato e la grazia della giovinezza di cui era allora appena consapevole”. [55] Ebbene, quel desiderio s’era dunque avverato, il patto era diventato operante. Da quel giorno le trasformazione si succederanno ininterrotte, manifestazioni di una vita sempre più dissoluta e criminale. Perché nessuno si accorgesse di quegli orribili mutamenti, Dorian nasconderà il ritratto in un locale abbandonato della soffitta e chiuderà la porta a chiave per impedire alla servitù di entrare. Tuttavia uno lo vedrà per volere dello stesso Dorian: l’autore del quadro, l’amico Basil Hallward, prima di venire ucciso dal giovane con una coltellata. Vedrà l’orrenda corruzione dell’anima di Dorian perché lui stesso glielo concede, come se fosse Dio, o in dispetto a Lui. Perché Basil gli aveva appena detto: “Vorrei vedere la tua anima … Ma solo dio può farlo”. E Dorian: la vedrai fra poco. “Viene a vedere il tuo stesso lavoro”. [56] Lo portò nella stanza segreta e quando l’ebbe davanti agli occhi “un grido d’orrore uscì dalle labbra del pittore”. Un volto orrendo sogghignava verso di lui dalla tela. “C’era qualcosa nella espressione che lo riempiva di disgusto e di repulsione. Santo cielo! Era il viso di Dorian Gray che stava guardando. L’orrore, qualunque esso fosse, non aveva ancora del tutto distrutto quella meravigliosa bellezza. C’era ancora dell’oro nei capelli diradati. E un’ombra di rosso sulla bocca sensuale. Gli occhi opachi avevano mantenuto un po’ del loro colore azzurro, le nobili curve non avevano del tutto abbandonato le narici cesellate e la gola perfetta. Si, era proprio Dorian. Ma chi lo aveva ritratto? Gli sembrava di riconoscere il proprio pennello, e la cornice era di sua invenzione. L’idea era mostruosa, ed egli sentì paura. Afferrò la candela accesa e la accostò al quadro. Nell’angolo a sinistra vide il proprio nome, tracciato in lunghe lettere di vermiglione acceso. Era un’indegna parodia, una qualche satira ignobile e infame. Non aveva mai dipinto quel quadro. Eppure era proprio il suo. Lo sapeva, e si sentì come se il suo sangue si fosse tramutato, nello spazio di un attimo, da fuoco in ghiaccio stagnante. Il suo quadro! Che cosa significava? Perché era cambiato? Si voltò, e guardò verso Dorian Gray con gli occhi di un folle. La sua bocca si contraeva, e la sua lingua riarsa sembrava incapace di articolare. Si passò la mano sulla fronte umida di sudore vischioso”.
Ma non gli bastò il tempo per uscire dall’incubo e riaversi. Dorian “corse verso di lui e affondò il coltello nella grossa vena dietro l’orecchio, spingendogli la testa sul tavolo e trafiggendolo ripetutamente”. [57]
Si va verso il tragico epilogo, segnato da giovani vittime che, dopo aver conosciuto Dorian e partecipato alla sua vita dissoluta,si uccidono. La fine è preceduta da un tentativo di ravvedimento. Potrebbe salvarlo la donna. Vorrei poter amare, griderà con una nota di profonda commozione nella voce: “Ma sembra che io abbia perso la passione e dimenticato il desiderio. Mi sono concentrato troppo su me stesso. La mia personalità mi è divenuta un peso. Vorrei fuggire, andar via, dimenticare”. [58] Ma ormai è troppo tardi. Imprecando alla propria bellezza che l’aveva rovinato e alla immutata giovinezza che gli appariva come una beffa, afferrò lo stesso coltello con cui aveva ucciso Basil e “colpì la tela”. “Ci fu un grido e un tonfo. Il grido fu così terribile nella sua agonia che i servi spaventati si svegliarono e uscirono lentamente dalle loro stanze”. Dopo circa un quarto d’ora, Francis, − il maggiordomo −, “prese con sé il cocchiere e uno dei manovali, e salirono di sopra. Bussarono, ma non ci fu risposta. Chiamarono ad alta voce. Tutto era calmo. Alla fine, dopo aver provato vanamente a forzare la porta, andarono sul tetto e saltarono giù sul balcone. La vecchia serratura della finestra cedette facilmente. Quando entrarono, trovarono appeso alla parete uno splendido ritratto del loro padrone come lo avevano visto l’ultima volta, in tutta la meraviglia della sua squisita giovinezza e bellezza. Sul pavimento giaceva un uomo morto, vestito da sera, con un coltello conficcato nel cuore. Era avvizzito, rugoso, ripugnante a vedersi. Soltanto dopo avere esaminato i suoi anelli riconobbero chi era”. [59]
In questa previsione di un’età che è già arrivata, ed è questa dove ci troviamo a vivere, sono soprattutto due gli aspetti da porre in primo piano. Il primo è il primato della sfera dell’apparire rispetto a quella dell’essere, per usare la formula tanto in uso ai nostri giorni e che è nota a molti. Sfera dell’apparire che è ormai comune e predominante in Occidente, per cui, dunque, il romanzo di Oscar Wilde diventa una profezia, una delle prime di tal genere. In esso è chiaramente descritto ciò che sarebbe diventata la moderna società, o Wilde per primo ha vissuto quel che poi si sarebbe moltiplicato e diffuso.
Il secondo aspetto è legato al primo e si può definire con la frase: incapacità d’amare. Rifiuto della donna come una sola anima per i due aspetti presenti nel mondo delle cose a metà, perché la perdita del lato oscuro è smarrimento dell’anima, o la vendita di essa al Diavolo.
L’incapacità di unione amorosa va cercata nell’eccessivo amore per la propria metà manifesta (il ritratto giovanile in Doriam Gray in questo caso), che impedisce di rivolgersi alla metà oscura per illuminarla. Ne uscirebbe, appunto, la donna.
Superare l’amore narcisistico per il proprio io per incontrare l’altro, l’amore: ecco il principale obiettivo che si intravede nelle tante opere prese in considerazione, ma che non raggiungono e conquistano. Il doppio in tutte le sue manifestazioni − immagine riflessa, lato oscuro, sosia, metà nascosta − diventa l’abisso da superare per raggiungere l’altra sponda. Il narcisismo poi, fine a se stesso, (nel mio linguaggio è una metà sola dell’intero che è quindi bloccata in se stessa, essendo ancora nascosta l’altra metà che forma il cerchio) inesorabilmente va verso la vecchiaia e la morte. Anticipata spesso dal suicidio di tanti protagonisti.

[Continua]

Il ritratto di Dorian Gray, 1890


[49] Oscar Wilde, Il ritratto di Dorian Gray, Einaudi, pag. 24.
[50] Ivi, pagg. 24-25.
[51] Ivi, pag. 28.
[52] Ivi, pag. 54.
[53] Ivi, pagg. 91-92.
[54] Ivi, pagg. 92-94.
[55] Ivi, pag. 96.
[56] Ivi, pag. 161.
[57] Ivi, pag. 168.
[58] Ivi, pag. 217.
[59] Ivi, pagg. 236-237.

La metà nascosta — Seconda parte (28e)

19 giugno 2011

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Leggi il capitolo 28 a della Seconda parte
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Leggi il capitolo 28 c della Seconda parte
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Fëdor Michajlovič Dostoevskij (1821-1881)

e) Il lato oscuro nel romanzo Il sosia di Dostoevskij.

Dopo una grande festa, dov’era apparso impacciato, insicuro, maldestro con i suoi superiori, e non era riuscito a conquistare la figlia di uno di loro, Klara Olsùfevna, a cui tanto teneva, al consigliere titolare Goljadkin, uno dei gradi inferiori della vecchia gerarchia burocratica russa, appare il “sosia”. Dapprima come ombra furtiva nella notte, “in un turbine di neve”, lungo le vie deserte di San Pietroburgo, poi come sconosciuto passante ad un angolo di strada, che però come Goljadkin “camminava frettoloso…tutto imbacuccato dalla testa ai piedi, e al pari di lui sgambettava e trotterellava sul marciapiede della Fontanka con passo fitto, minuto, un pochino al piccolo trotto”, [40] e finalmente in modo completamente palese. “Un altro signor Goljadkin, tutt’un altro, ma, al tempo stesso, anche perfettamente uguale al primo – della stessa statura, della stessa complessione, vestito allo stesso modo, con la stessa calvizie – insomma nulla, proprio nulla era stato trascurato per ottenere una somiglianza perfetta, tanto che, a prenderli e metterli uno accanto all’altro, nessuno, proprio nessuno si sarebbe sentito di stabilire quale precisamente fosse l’autentico Goljadkin e quale il falso, chi il vecchio e chi il nuovo, chi l’originale e chi la copia”. [41] In seguito saprà che quel sosia, così somigliante come se fosse uscito dallo specchio, ha il suo stesso nome ed è originario della stessa città, per cui i due vengono scambiati per gemelli.
A questo punto il rapporto fra Goljadkin e il sosia diventa il leitmotiv del romanzo: un rapporto ricorrente fra le due facce della stessa moneta, dove quella che prima ha abitato solo il lato nascosto è arrivata anch’essa alla ribalta. Due sullo stesso piano, dunque, e non coincidenti, ma opposti, che si presentano indipendenti e sovrani senza aver prima scoperto quel che davvero li lega, il solo che avrebbe potuto impedire la corsa verso l’eliminazione di uno da parte dell’altro. Ci sono momenti iniziali in cui l’originale parte manifesta vorrebbe essere tutt’uno con l’altra. Ti voglio bene − gli dice −, ti voglio bene come a un fratello. E insieme combineremo loro un bello scherzetto. Ma poi il “vero” Goljadkin s’accorge che l’altro è invece il suo peggiore nemico, sempre più prevaricatore e infido, che lo mette in continua difficoltà. Gli aliena il favore dei colleghi e superiori, lo perseguita nei sogni dove si vede circondato da un esercito di sosia cui non può sottrarsi, una mattina mangia un pasticcino al buffet di un ristorante e il cameriere gli chiede il corrispettivo di undici. Il suo muto stupore per ciò che gli sembrava un errore cede il posto alla rabbia quando, alzando lo sguardo, riconosce sulla porta di fronte, “che il nostro eroe fino a quel momento aveva preso per uno specchio”, l’altro Goljadkin, con il quale è stato scambiato, e che l’ha beffato in quel modo. E soprattutto il sosia sembra aver fortuna con Klara, che a lui s’era negata e sembra ora tramare a suo danno.
Dopo questi e molti altri affronti e umiliazioni che non ho qui nominato, in preda all’esasperazione, Goljadkin, scriverà al sosia una lettera, dove pone un aut aut: “O voi o io, ma tutt’e due insieme è impossibile! E perciò vi dichiaro che lo strano, ridicolo e, al tempo stesso, assurdo desiderio vostro di parere il mio gemello e di spacciarvi per tale non servirà a null’altro che alla vostra piena ignominia e sconfitta…”, [42] e lo sfida a duello. Ma alle parole non seguiranno i fatti. Se ciò fosse accaduto e avesse tentato di uccidere il suo lato oscuro, sarebbe morto lui perché l’altro per natura è immortale. Come è capitato a Dorian Gray quando ha colpito il suo ritratto con un pugnale. Non è, infatti, il lato oscuro sonno, inconscio e morte; e si può uccidere questi tre, specialmente l’ultimo! Sempre più oppresso dalla parte ignota e immortale di sé, Goljadkin cercherà anzi la conciliazione, chiedendo perdono anche per la lettera che gli ha scritto. “Datemi quella lettera”, gli dice, “perché io la strappi sotto i vostri stessi occhi, o, se questo ormai non è in alcun modo possibile, vi supplico di leggerla alla rovescia – del tutto alla rovescia, cioè di proposito con amichevole intenzione, dando un senso opposto a tutte le parole. Ho errato. Perdonatemi, io ho pienamente… io ho amaramente errato”.[43]
Umiliazione inutile: il lato oscuro continuerà ad avanzare, sovrastare, insinuarsi, mentre l’altro appare sempre più in difficoltà, fino a prendere il suo posto. Similmente cominciano a svanire i colori e le forme delle cose al tramonto del sole e poi rimangono soltanto ombre, buio, smarrimento completo. Per davvero non c’è sostanziale differenza fra le due cose. Il sosia è una “realtà” provocata dal Tramonto dell’Occidente, che ha cominciato ad agire sulle sue piante − gli uomini − come il sole sugli alberi e i fiori. In altri autori lo stesso fenomeno è chiamato ombra, sosia, gemello, metà nascosta. Per Goljadkin, alla fine, il suo stato, come si vedrà fra poco, sarà la pazzia, o pazzo sarà considerato da tutti i suoi superiori, conoscenti, e dal terribile medico che lo porterà in manicomio.
Che la sua nuova situazione fosse determinata dall’ingresso del lato oscuro e dal rovesciamento graduale delle parti, Goljadkin lo presentiva. Durante una furibonda baruffa con il sosia parve a lui “che gli stesse accadendo qualcosa di noto. Per un attimo cercò di rammentare se il giorno prima non avesse avuto qualche presentimento… in sogno, per esempio…Infine la sua angoscia toccò l’estremo grado dell’orgasmo. Premendo sul suo spietato avversario, egli stava per mettersi a gridare… ma il grido gli moriva sulle labbra… Vi fu un momento in cui il signor Goljadkin dimenticò tutto e stabilì che tutto ciò era proprio niente, e che ciò avveniva soltanto così, in qualche modo inesplicabile, e che protestare al riguardo sarebbe stata fatica superflua e assolutamente sprecata”.[44] Presentimento che egli affiorerà ripetutamente durante tutto il sofferto rapporto con il sosia.
S’avvicina la catastrofe finale. La causa scatenante sarà ancora una volta la donna. Una lettera di Klara in questo caso, diretta a Goljadkin dove è scritto: “Nobile uomo che soffri per me e sei in eterno caro al mio cuore! Io soffro, io perisco – salvami! Il calunniatore, l’intrigante, l’uomo noto per l’inutilità delle sue tendenze (cioè il suo sosia) mi ha avvolto con le sue reti, e io mi sono perduta!… Sono caduta! Ma egli mi è odioso, tu invece!… Ci hanno separati, le mie lettere a te furono intercettate – e tutto ciò l’ha fatto l’immorale valendosi della sua sola buona qualità: la rassomiglianza con te… Aspettami con la tua carrozza oggi, alle nove in punto… Mi getterò sotto la protezione dei tuoi abbracci alle due dopo mezzanotte in punto. Tua fino alla tomba. Klara Olsufevna”.[45]
Dopo molti tentennamenti e sofferte riflessioni, andrà all’appuntamento che diventerà una trappola una trappola per attirarlo, catturarlo, eliminarlo. Infatti l’appartamento di Klara pullula di persone che, “ad un tratto, a tutte le finestre a un tempo” appaiono, scostando le tendine. E cercano lui, proprio lui, come se tutti sapessero delle sua presenza giù nel cortile, nonostante fosse acquattato “sotto l’ombra pacifica del suo rassicurante e proteggente mucchio di legna”. Il sosia scende in cortile, lo tira fuori dal suo nascondiglio e lo invita a “favorire dentro”. Goljadkin non vorrebbe, ma l’altro insiste: “Nossignore, non si può…; vi pregano, vi pregano umilissimamente, ci aspettano. Fateci felici”. Sembrava fosse una festa dove mancava solo lui, l’invitato di cui non si poteva fare a meno. Ma egli si schermisse ancora, anche se inutilmente, perché il sosia risolutamente lo “trascinò verso la scalinata”.
Dapprima sono tutti gentili, sembra una riabilitazione generale da parte di tutti: superiori, colleghi, amici, lo stesso sosia. E il tutto, alla presenza di Klara, “pallida, languida, malinconica, abbigliata però con gran pompa. Specialmente balzarono agli occhi del signor Goljadkin dei piccoli fiorellini bianchi fra i suoi neri capelli, il che faceva un magnifico effetto”.[46] Ma la festosa accoglienza durerà poco, era un diversivo, era un guadagnare tempo. Ad un tratto “la porta della sala si spalancò rumorosamente, e sulla soglia comparve un uomo la cui sola vista agghiacciò il signor Goljadkin. I suoi piedi si abbarbicarono al pavimento. Un grido morì nel suo petto oppresso. Del resto il signor Goljadkin sapeva tutto da prima e già da un pezzo aveva presentito qualcosa di simile. Lo sconosciuto si avvicinava grave e solenne al signor Goljadkin. Il signor Goljadkin conosceva benissimo quella figura. L’aveva già veduta, la vedeva molto spesso, l’aveva vista ancora quel giorno… Con aria grave e solenne il terribile uomo si accostò al lacrimevole eroe… Il nostro eroe gli tese la mano; lo sconosciuto gliela prese e se lo trascinò dietro…”.[47] È il dottore quell’uomo, che lo farà salire su una carrozza. Quando si riebbe dal deliquio in cui era caduto, Goljadkin “vide che i cavalli lo portavano per qualche strada a lui ignota. A destra e a sinistra nereggiavano boschi, Era un luogo selvaggio e deserto.” La meta è il manicomio dove riceverà – gli dice l’orribile dottore – “alloggio governativo, con legno, luce e servizio, del che siete indegno… Il nostro eroe gettò un grido e si afferrò il capo, Ahimè! Già da un pezzo aveva questo presentimento”.[48]
Il sosia
è il racconto del declino e caduta dell’io razionale, quello che aveva abitato la parte diurna, e un emergere del lato oscuro. E non è quello che sta succedendo ormai normalmente e pressoché generalmente! Anzi la metamorfosi è già completa.

[Continua]


[40] F.M. Dostoevskij, Il sosia, pag. 47 – Oscar classici Mondadori.
[41] Ivi, pagg. 55-56.
[42] Ivi, pag. 114.
[43] Ivi, pag. 136.
[44] Ivi, pag. 139.
[45] Ivi, pagg. 140-141.
[46] Ivi, pag. 166.
[47] Ivi, pagg. 169-170.
[48] Ivi, pag. 172.