
Honoré Daumier, The Loge (1856-57)
Inaccettabile la condizione umana,
che finisce sempre in modo tragico,
se non si provvede a migliorarla.
Ed io lo sto facendo
con l’Eterno ritorno dello stesso.
Si dà scacco matto alla morte
in questo modo.
Si viene alla luce a recitare la commedia della vita.
Il teatro è il mondo, che ha la notte stellata per soffitto e il sole come lampada di interni. La Terra è il palcoscenico, il proscenio, la ribalta, dove si esibiscono gli attori e le comparse, ed è la platea, il loggione, i palchi dove stanno gli spettatori.
Su questo teatro ho recitato anch’io, ma ora che la mia parte sta finendo, mi accingo a passare dal palcoscenico alla platea, quindi da attore o comparsa mi volgo a diventare spettatore. In altre parole lascio il mondo delle Apparenze, quello dove si recita, e vado di là, oltre il sipario. Da quella parte si vede e non si è visti, si sente ma non si risponde. Il posto degli spettatori, insomma.
Ma dov’è questo oltre il sipario e cos’è? L’abbiamo già detto: è sulla Terra ed è la platea, il loggione, i palchi. Ma quando questa parte del teatro andiamo a cercarla, di norma non la troviamo, ci sono solo cartelli indicatori dove domina una parola: cimitero. E quando si arriva al cimitero si trovano solo tombe, lapidi e qualche raro visitatore. Perché lì ci sono solo i costumi dismessi e gli ornamenti abbandonati degli attori e delle comparse che sono usciti di scena, altro non si vede. E il resto, dunque, cioè la platea, il loggione, i palchi? E dove sono gli spettatori, senza i quali non avvengono le rappresentazioni? Non sono essi il vero motivo di ogni cosa? Non sono come il popolo nella Repubblica, come la folla a una festa, vale a dire ciò che è stabile e comune rispetto alle apparenze? E stabile e comune è l’Essere o Logos rispetto alle rappresentazioni che sono il molteplice e il mutamento, per cui gli si addicono anche questi nomi. “Bisogna seguire ciò che è comune” ha detto Eraclito. “Ma pur essendo questo Logos comune, la maggior parte degli uomini vivono come se avessero una loro propria particolare saggezza” (frammento 2). E Anassimandro ha chiamato quel principio Ápeiron, che è come il mare, e “tutte le onde che può dare il mare / stanno nel mare, ma sono illimitate”. Che è come il sonno e non c’è limite all’apparire e allo sparire dei sogni.
Nomi dell’Essere, perciò, quel che è comune e Ápeiron.
Allora non è nella Casa dell’Essere che si doveva entrare dopo il cimitero, e perché non si entra?
Perché prima dell’ingresso c’è, appunto, il cimitero, che corrisponde a quel che è chiamato Abisso nel campo del pensiero, e c’è una Porta da aprire per passare. Ma ora tutto ciò è possibile: l’Abisso è stato superato, la Porta è stata aperta e il cammino può continuare in modo chiaro e distinto.
Dove andrò io, dunque, quando fra non molto avrò terminato la mia parte sul palcoscenico della vita? Andrò in cimitero, dove lascerò le mie spoglie. Ecco dove andrò. E lì davvero tutto finisce per gli occhi che vedevano, per le mani che toccavano, per le orecchie che sentivano, per i nasi e le bocche che coglievano odori e sapori.
A questo punto, il mio cammino continuerà nell’invisibile e nel silenzio fino alla platea, o palco, o loggione, a prendere posto.
E starò lì ad aspettare che nell’eterno ritorno dello stesso si ripresentino quelle parti della commedia della vita che ho recitato con cuore e mente, che ho visto e voglio rivedere.
Per rivederle ho camminato sessant’anni e “sette verghe di ferro ho logorate per appoggiarmi nel fatale andare”.
Andrò a incontrare Isabella per il pendio in fiore che alla chiesetta conduce, come l’astronomo aspetta la sua stella in cielo nel tempo e nel luogo stabiliti.