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L’inaudito di Emanuele Severino, ovvero l’attrazione del nulla

1 Maggio 2010

Qui scriviamo i canti
di una nuova era.
La filosofia ufficiale,
le nenie funebri
di quella che finisce.

 

 

Salvador Dalí, Persistenza della memoria, 1931

Non sempre Severino arriva fino alla base del suo pensiero. Perlopiù si ferma prima, a quel “inaudito” indicato ma non svolto, che per i pochi che sono riusciti a seguire la sua filosofia fino a quel punto è espresso dalla formula: “l’essente è eterno, immutabile, immobile”.
Essente
è l’uomo: ogni uomo che si vede e tocca, ma anche quelli che non s’incontrano più per le vie e le piazze della città e hanno la loro foto su una lastra in cimitero e di cui, perché si crede che le cose vengano dal nulla e nel nulla ritornano, si dice erroneamente o superficialmente che sono morti, e quelli che non abbiamo mai visto perché non sono ancora nati. I primi, infatti, per Severino sono soltanto usciti dal cerchio dell’apparire e i secondi non sono ancora entrati in esso. Inoltre, essente è anche ogni filo d’erba del prato di questa primavera e di ogni altra passata e futura, i sassi della via, ogni granello di sabbia del mare, le stelle del cielo, i bruchi che si arrampicano sui fili d’erba, la secrezione che essi lasciano spostandosi eccetera – tutto eterno, immutabile, immobile, che non è stato o sarà, ma è.
Dunque, Severino non arriva spesso fino alla formula dell’“inaudito”, che è la base di partenza, il fondamento su cui sorge la sua filosofia, ma qualche volta è successo in modo chiaro e distinto: nel libro Il muro di pietra, per esempio, uno dei tanti che ha scritto. (E. Severino, Il muro di pietra, Rizzoli, pagg. 195-196) Ecco in che modo: partendo da Proust.
Seguono le pagine 195 e 196 di quel libro, che dividiamo in tre parti, e sotto ad ognuna un commento.

Prima parte.
Nel Tempo ritrovato Proust parla degli attimi in cui ritorna il suo passato di bambino, quando a tarda sera attendeva il ritorno a casa dei genitori e a un certo punto tintinnava in giardino il campanellino del cancello. Il tintinnio e i passi dei genitori, in quegli attimi, “io li udivo ancora, li udivo proprio loro, pur situati così lontani nel passato […] Era proprio quel campanello a risuonare ancora in me, senza che io nulla potessi mutare nelle strida del suo sonaglio […] Dunque quello scampanellio vi era sempre, e con lui, fra esso e l’attimo presente, tutto quel passato indefinitamente trascorso che ignoravo di portare ancora in me”.
Quegli attimi, scrive Proust, non sono soltanto “resurrezioni del passato”, ma resurrezioni “totali” del passato, non sono “semplicemente un’eco, un duplicato d’una sensazione passata”, “ma proprio quella sensazione stessa”.

Qui si dice che si ripresenta eterno, immutabile e immobile, ciò che dovrebbe essere lontano, vago, perduto. Come sono i ricordi in genere, che poi svaniscono completamente, o diventano solo indecifrabili segni come le pietre di una via antica corrose dal tempo e dall’uso, che nessuno più sa a cosa servivano e dove conducevano. Invece a Proust si ripresentano le stesse cose di quando era bambino: non “un duplicato d’una sensazione passata, ma proprio quella sensazione stessa”.
Un’esperienza che non è toccata solo a Proust, ma anche ad altri. A Borges, per esempio, durante una passeggiata notturna, che così racconta: “Una sorta di gravitazione familiare mi guidò verso quartieri, del cui nome voglio sempre ricordarmi e che dettano reverenza al mio cuore” […] “Mi arrestai a guardare quella semplicità, Pensai, certo ad alta voce: ‘È come trent’anni fa’. Calcolai la data: un’epoca recente in altri paesi, ma già remota in questa mutevole parte del mondo. […] Il facile pensiero ‘sono nel mille ottocento e tanti’ cessò d’essere poche approssimative parole e divenne realtà profonda. Mi sentii morto, sentii che percepivo astrattamente il mondo; sentii un indefinito timore penetrato di scienza che è la luce migliore della metafisica. Non credetti, no, di aver risalito le prevedibili acque del Tempo; piuttosto sospettai d’essere in possesso del senso reticente o assente dell’inconcepibile parola eternità. Solo in seguito potei definire tale immaginazione”.
“La scrivo, ora, così: questa pura rappresentazione di fatti omogenei – notte in quiete, muro nitido, odore di provincia della madreselva, fango essenziale – non è soltanto identica a quella che si verificò in quest’angolo tanti anni fa; è, senza somiglianze né ripetizioni, la stessa. Il tempo, se possiamo intuire tale identità, è una delusione: l’indifferenza e inseparabilità di un momento del suo apparente ieri e di un altro del suo apparente oggi, bastano a disintegrarlo”
(J.L. Borges, Nuova confutazione del tempo, Mondadori, pagg. 1080-1081).
Dunque, nel corso di una vita, simili ai ricordi si ripresentano anche avvenimenti lontani nel passato che sono gli stessi della prima volta. “Resurrezioni totali”, li ha chiamati Proust. Non “poche approssimative parole” ma “realtà profonda”, ha detto Borges.

 

Seconda parte.
Dunque, il passato si ripresenta in carne ed ossa. Come son proprio le montagne, e non le loro semplici immagini, a ripresentarsi allorché le nubi che le avvolgevano si dissolvono e si allontanano. Proust avverte qualcosa d’inaudito al di là dei consueti modi di considerare il passato da parte della “nostra cultura” (sente la voce della Non-Follia). Ma poi, l’inaudito, egli lo perde subito di vista, perché se quella del passato è una “resurrezione totale”, è però, per lui, conservato soltanto nella coscienza dell’artista, cioè di un essere “destinato a morire”, a diventare un “essere che non è più”, che è annientato dall’“azione distruttrice del tempo”. “Anche per Heidegger la poesia di Hölderlin intuisce ciò che rimane, lo stabile, l’“Essere”; ma la stabilità dell’“Essere” rimane sino a che i poeti esistono: con la loro morte, anche la stabilità si annienta.”

Qui si entra decisamente nel cuore della filosofia di Severino. Bene la voce della “Non-Follia” che i poeti percepiscono, dice Severino, ma ecco il loro limite: percepiscono l’eterno, immutabile immobile ma all’interno di un di un essere “destinato a morire”, cioè solo nel corso della loro vita finché dura. Poi, seguendo invece la voce comune e generale della Follia, credono che il loro corpo finisca nel nulla. Perciò quella voce, per Severino, è solo un’eco dell’eterno, che pian piano si spegne
Ma non conosce Severino la metempsicosi? Lui non ci crede, d’accordo, ma c’è per moltissimi, anzi è la teoria più diffusa in tutti i piani della conoscenza: miti, misteri, religioni, sapienza, filosofia (vedi
Per sempre e L’infinito di Leopardi). Per molti è la più razionale teoria dell’immortalità personale. E nella metempsicosi non ci sono ritorni d’avvenimenti accaduti nel passato di una sola vita, ma in vite precedenti quella in corso, che emergono da profondità più oscure e lontane. Inoltre i pochi esempi di “resurrezione totale”, che sono avvenuti nel corso di una vita quelli di Proust e di Borges per intenderci –, sono piccola cosa rispetto agli altri.
Riporto alcuni esempi celebri, già esposti in altri post di questo blog, ma essi sono innumerevoli.

Buddha la notte precedente il Risveglio − Buddha significa lo Svegliato −, come ha scritto di lui il suo maggiore biografo Asvagosa, ha richiamato alla memoria “migliaia di vite, come rivivendole” e le ha collegate fra loro.
Ermete Trismegisto, nato tre volte in Egitto, ogni volta si è dedicato alla conoscenza, finché nell’ultima vita terrena si è illuminato, “si è ricordato delle precedenti esistenze, ha ricuperato il suo vero nome” e poi è salito al mondo superiore dov’è l’origine.
Pitagora ricordava anche il suo precedente nome: Euforbo; era un milite nella guerra di Troia e ha perso la vita in battaglia sotto quelle mura, ucciso da Menelao.
Dunque, ritorna il passato “in carne ed ossa” nel modo di Proust e Borges, ma molto più spesso in quello di Buddha, Pitagora, Ermete, e nel secondo, allora, non c’è il corpo fisico che lo chiude e limita. Non c’è il corpo che, “destinato a morire”, quando ciò avviene decreta la fine anche di quel che è avvertito e vissuto come eterno, immutabile, immobile. E come potrebbe? Come può il guscio provocare la fine della perla, il fango della miniera del diamante e il corpo della mente?
Come può ciò che per tutti perisce, fuorché per Severino, trascinare nella sua sorte l’eterno?

 

Terza parte.
“Totali resurrezioni, ma all’interno del perituro – prosegue imperterrito Severino. Totali resurrezioni, ma all’interno di una vita che è morte. Il passato, per Proust, “è sempre”, ma perdura rimanendo nascosto in uno scrigno destinato alla morte. Come ogni altra voce dell’Occidente, nemmeno Proust vede che lo scrigno, in cui il passato permane, è eterno. Il suo modo di pensare è simile a quello di chi si rallegrasse per il fatto che i passeggeri di una nave che si sa destinata a un naufragio in cui non c’è scampo per nessuno escono dalle loro cabine, dove si erano da tempo nascosti o da tempo erano stati dimenticati, e si riuniscono nella sala da pranzo (cioè nella sala della memoria). Possono solo intonarvi un canto funebre, che celebra l’effimera resurrezione del tempo che è stato ritrovato e che è destinato a essere definitivamente perduto”.

E qui scatta la differenza esistente fra Severino e tutti i personaggi che ha avuto la cultura nei millenni che ci hanno preceduto, compresi quelli dell’Oriente. Personaggi che hanno contribuito ad aumentarla e svilupparla fino ad arrivare, in Occidente e per gli autori di questo blog, alla fine della via della conoscenza iniziata venticinque secoli fa nell’antica Grecia. In questo capolinea l’eterno, immutabile, immobile, è la coincidenza di fine e inizio, ed è soprattutto il “Centro” di tal giro, dove si può portarsi e da cui tutto il movimento appare. Da cui si vede, in altre parole, tutto ciò che ruota in cielo e in terra. Come già in parte  avviene d’altronde: vediamo il sole che percorre la volta celeste, le fasi della luna, le stelle che ritornano nel cielo della notte, il giro delle stagioni… Ma ora molto di più. Ora anche l’intero cerchio della vita umana: giorno e notte assieme, conscio e inconscio assieme, vita e morte unite.
Sembrerebbe però, secondo questo mio dire, che a un tale risultato si sia arrivati, quindi ci sarebbe un “eterno” che ha avuto inizio. Ma l’inizio è coincidenza con la fine, quindi non c’è un inizio. Cos’è accaduto, allora? È accaduto che non alla vasta e numerosa specie, non all’interminabile natura, non a Dio, ma all’uomo, ciò che era sentimento, fede, intuizione, è diventata idea chiara e distinta. Ecco cos’è capitato. E la via ora c’è per lui, il suo cerchio è tutto intero, il suo centro è immobile, immutabile, eterno. Centro di ciò che gira in cielo e in terra: galassie, stelle, pianeti, stagioni, piante, animali, uomini.
Perciò la terza parte del brano andrebbe corretta così.
− Il corpo, sia esso eterno come vuole Severino, o limitato e finito come sostengono tutti gli altri, passati e presenti, non è limite e impedimento al manifestarsi delle “resurrezioni totali”, tant’è vero che possono avvenire non solo da un giorno della vita ad un altro della stessa, seppur lontano, ma anche da vita a vita.
− È eterno, immutabile, immobile, ciò che viene sperimentato come tale, vale a dire la “resurrezione totale” di Proust, “la realtà profonda” di Borges, i ricordi di vite precedenti di Buddha, Pitagora, Ermete, e per me “la chiesetta sperduta” che è riapparsa da profondità lontane e nascoste, e sono riuscito a trovare la strada che collega le due. Una strada di tempo, perciò, che sembrava non finire mai, invece è ritornata su se stessa, formando un cerchio e diventando
eterno ritorni (vedi L’antica via dei Miti e dei Misteri, percorsa ora con la lampada della conoscenza filosofica, Editrice Leonardo, Pasian di Prato, Udine). Ma chi muore nessuno l’ha più visto circolare per le vie e le piazze della città con il corpo che aveva quando li ha lasciati, neppure i parenti più stretti e gli amici più cari. O esiste solo un caso: quello di Cristo, ma anche lui, come affermano i Vangeli, dopo la resurrezione era pressoché irriconoscibile e aveva un corpo che passava attraverso i muri.
− Inoltre perché dovrebbe essere eterno, immutabile, immobile, anche l’involucro, cioè lo scrigno che contiene la perla, la terra che nasconde il diamante, il carcere che rinchiude l’anima, la mente, l’Io, il Sé?
− Va da se, inoltre che ciò viene sperimentato come eterno, immutabile, immobile, non può avere limitazioni. Non “c’è” e poi “non c’è più” solo perché il corpo finisce. Esso rimane, indipendentemente dal corpo. Così, infatti, è sempre stato. Così è e sarà.
Concludendo: non è necessario che il corpo sia eterno, immutabile, immobile, per l’eterno, immutabile, immobile, che lo abita.

 

P.S.
Non insisterei tanto con la filosofia di Severino, a confutarla, a dimostrare la sua infondatezza, se il punto più profondo dell’Abisso del nulla, da quanto mi risulta, non fosse stato toccato proprio da essa. E, arrivati a quel livello, non si esce più con le proprie gambe, perché si manifesta tutta la potenza del nascosto, tutta l’attrazione del senza fondo. Tutto e fermo e si ferma lì sotto. Tutto è bloccato, immobile, immutabile: eternamente, come similmente accade in fisica quando − dicono gli scienziati − si raggiunge lo zero assoluto.
In quel nulla vanno a finire:
− Parmenide, che secondo Severino è stato il primo nichilista perché, per lui, l’essere e non l’essente è eterno, immutabile, immobile.
− Tutta la filosofia che è nata subito dopo, da Socrate fino ai nostri giorni, perché essa è in tanta parte le vie indicate dal sapiente di Elea (vedi Lettera aperta: le cinque vie di Parmenide).
− Tutta la storia d’Occidente e anche quella dell’Oriente, fondata sulla fede che le cose escano dal nulla e nel nulla ritornino.
− La metempsicosi, perché non si ritorna con lo stesso corpo, o non è certamente necessario.
− Il divenire, perché esso è − dice Severino − “trasformazione e metamorfosi – divenire – altro, appunto. Il risultato del divenire è altro dall’inizio del divenire. Il risultato, cioè il compimento del divenire, è la situazione in cui la cosa che diviene è diventata altro da sé è altro da sé. Ma che una cosa sia altro da sé, cioè non sia ciò che essa è, non è forse il senso stesso dell’impossibile? Non è forse l’essenza stessa della follia” (E. Severino, Nascere, Rizzoli, pagg. 265-266).
− Infine il nulla stesso, perché “tutto è eterno, immutabile, immobile”.
Più nichilismo di così!
E tutto viene infaticabilmente ripetuto, ribadito, rispiegato, a chi si ostina a non capire e continua a domandare. Ma non c’è nulla da capire, c’è solo il vuoto là sotto.
“Io definisco la filosofia di Severino come espressione di una tesi che è falsa (negazione dello spessore ontologico del divenire e, quindi, del non essere e della morte) − ha detto di essa Giovanni Reale − però espressa nel modo più coerente e più perfetto. Ma con N. Gòmez Dàvile io penso che la coerenza di un discorso non è prova di verità, ma solo di coerenza” (Giovanni Reale, Corriere della Sera, 6 gennaio 2005).

Vattimo e Severino: la vacuità del nulla e quella del tutto eterno

26 dicembre 2009

­Vattimo e Severino assieme, perché le loro filosofie sono diventate l’espressione dei poli opposti del nichilismo diventato condizione normale: la vacuità del nulla e quella del tutto eterno. 

Giovanni Bettolo, Il deserto dei tartari

La situazione
Mettendo assieme Vattimo e Severino, forse si può vedere il fondo del nichilismo toccato dalla filosofia ai nostri giorni.
Vattimo e la sua scuola hanno ridotto l’uomo e le strutture dove si svolgono la sua vita e il suo pensiero ai minimi termini. I risultati di tale riduzione suonano così.
− La filosofia è arrivata alla fine della sua avventura metafisica ed è diventata pensiero debole ed ermeneutica.
− Pensiero debole è la filosofia dell’oltreuomo che si è liberato dall’asservimento alle etiche tradizionali del perfezionamento e dell’obbedienza, e non è più gravato dal peso di questi ideali.
− Ermeneutica è invece il modo di conoscere che si addice al pensiero debole, un processo circolare che funziona in questo modo: l’interprete si avvicina ad un testo sempre con “pre-giudizi” e “pre-comprensioni”, da cui nasce un primo progetto interpretativo. Ma esso deve essere posto continuamente alla prova, modificando via via i “pre−giudizi” che non trovano conferma, fino a che il “testo non parla”. Si tratta di un compito certamente realizzabile ­− dice Gadamer, il maggior teorico di questo metodo ­−, però senza fine, perché ciò che vogliamo vedere nel momento del discorso è un infinito del passato e del futuro.
Mi pare che non sia difficile scorgere in questo continuo roteare della cultura che mai non si ferma, messo a punto da Gadamer, uno degli aspetti − l’ultimo −, dell’eterno ritorno; ma simile a quelli della natura, da cui non si sfugge, dopo i falliti tentativi di Nietzsche di uscire da questa cieca necessità.

Le conseguenze
Riducendo la conoscenza ad interpretazione, il rapporto della parola con l’Essere scompare. Pensare ed Essere non è più “lo stesso”. Decade quel che ha affermato Parmenide all’inizio della civiltà greca che poi è diventata Occidente: “[…] Infatti lo stesso è pensare ed essere” (Parmenide, Poema sulla natura, a cura di G. Reale e L. Ruggiu, Rusconi, Milano, 1991, fr.3, pag 11), e la storia della metafisica si dissolve.
Da questa situazione spunta la nuova idea dell’Essere. È poroso – dicono i filosofi del pensiero debole −, è contraddittorio, policentrico, fondamentalmente privo d’unicità, abbandonato al suo corso, al suo destino e alla sua destinazione. Il contrario, perciò, dell’Essere parmenideo.
Naturalmente, nel passaggio dalla precedente visione del mondo a questa c’è tutto un finire.
− Finisce il pensiero forte e gli succede il pensiero debole.
− Finisce la modernità, vale a dire il periodo che va da Cartesio a Nietzsche, e si entra nel postmoderno.
− Il postmoderno viene salutato come fine della Storia.
− Muta l’idea di Storia: non è più un percorso dotato di un indirizzo che porta ad una meta e ad un risultato, ma non ha senso, e in tal modo muta in apertura e comunicazione alle “culture altre”.

In conseguenza del distacco del pensiero dall’Essere, anche la ragione non è più quella di prima.
− Non è più centrale, ma è come depotenziata.
− È entrata nella zona d’ombra e ha preso contorni incerti, come se si fosse eclissata.

Conseguenze pratiche di questo mutamento epocale:
− L’uomo non riconosce alcun immutabile ed eterno; perciò − unico suo punto fermo (apodittico) in tanta desolazione −, alla fine non si ritrae, non oppone resistenza, ma si consegna rassegnato e vinto alla propria morte senza far motto (Qualcosa perciò è rimasto d’immutabile, immobile, eterno: è rimasta la morte. L’unica che i filosofi del pensiero debole e dell’ermeneutica non sono riusciti a cancellare). Io dico però che i più neppure ci pensano: l’hanno rimossa e quando essa arriva per gli amici e i famigliari, fanno il funerale in fretta, velocemente si tolgono di dosso abiti neri e funebri pensieri.
Da tutto ciò si può arguire che come si esce così si viene al mondo, vale a dire a nostra insaputa e senza sapere da dove. A fare cosa? Ad apparire un po’, per adempiere ai comandi della specie, per i più fortunati o i più in vista a sbarcare il lunario con la filosofia del pensiero debole ed ermeneutica, e poi sparire. Per sempre, dopo l’eliminazione d’ogni immutabile ed eterno. A meno che non si faccia d’ogni uomo un immortale così com’è, carne e ossa compresi, compito che, come si vedrà, è toccato a Severino.

Le cause di questa situazione viste dal pensiero debole
Una riduzione ai minimi termini, perciò, l’uomo e il suo mondo dopo la fine della modernità. Va però subito detto che la situazione qui descritta non è fasulla, ma quella che si vede e si tocca. In altre parole pensiero debole e ragione depotenziata rispecchiano fedelmente l’uomo che abbiamo spesso sotto gli occhi ai nostri giorni e che occupa tanta parte della scena pubblica.
Il letterato sulla cresta dell’onda, assiduo frequentatore dei salotti della TV dove le chiacchiere non si contano.
L’inquilino della casa del Grande fratello, e c’è chi partecipa, chi lo desidererebbe tanto, e innumerevoli che guardano curiosi ed eccitati, come dal buco della serratura.
Le star dell’Isola dei famosi.
Il politico che muta in pornopolitico e cocainomane.
Le indossatrici anoressiche delle sfilate di moda.
Il cuoco che ormai è di casa in tutti i programmi di successo.
I filosofi delle tavole rotonde allestite in ogni dove.
I giocatori accaniti dei giochi a premio televisivi, che perseguono tutto il malloppo messo in palio. 
Anche se l’uomo è debole di mente, ci sono i palestrati e i Rambo che mostrano i muscoli e credono così di pareggiare il conto.
E se in tanta riappropiazione di sé qualcosa non va, se qualche difetto è rimasto anche nel postmoderno, si provvede con la chirurgia estetica.
Queste le “conquiste” e ora le cause che hanno aperto le porte ad esse. 

Per Vattimo e i suoi discepoli e colleghi che la pensano come lui, tutto ciò avrebbe un’origine: sarebbe l’eredità che Nietzsche e Heidegger ci hanno lasciato. La quale, dicono loro, è positiva: non debiti, insomma, ma crediti e vantaggi.
I vantaggi consisterebbero in ciò: non essendoci più le imposizioni espresse dalle “grandi fedi dogmatiche, dai grandi orizzonti metafisici”, “possiamo compiere delle scelte, prendere delle decisioni”. Quelle appena elencate e illustrate, per esempio, se quei tipi d’uomo ormai pullulano e sono diventati modelli per molti.

Le cause effettive
Invece sono ben altre le cause del pensiero debole, dell’ermeneutica e della condizione umana soprascritta che è l’aspetto in carne e ossa di quelle idee. Esse sono il Tramonto dell’Essere e la Notte che è discesa sulla terra dell’Occidente specialmente dopo l’età moderna; perché il pensiero filosofico che ci ha condotto lungo il Giorno, fino al Tramonto, non è più riuscito a illuminare le Ombre che si stavano addensando sempre più.
Si è continuato lo stesso, tuttavia, fino alla “linea di Mezzanotte”, ma essa ha costituito il fine corsa che è rimasto in vigore fino ai nostri giorni e solo da poco si è potuto andare oltre.
I primi segnali del declino e caduta sono stati colti ed espressi dai poeti e filosofi e poi, via via, da tutti gli altri, fino ai nostri giorni dove si discorre apertamente e continuamente di nichilismo, diventato nel frattempo condizione normale
Ecco cosa è cominciato ad accadere circa duecento anni fa, dapprima nel campo della poesia e della filosofia, e che poi è entrato nella vita pubblica e privata, lasciandoci sempre più smarriti, indeboliti, completamente succubi della morte.
È cominciato il Tramonto dell’Essere.
Hölderlin ha visto fuggire gli dèi nella “notte santa”.
Dopo il Tramonto, il primo ad affrontare le Tenebre è stato Schopenhauer.
Poi è cominciato il cammino nel Buio. 
Si chiamano esistenzialismo, nichilismo, eterno ritorno, psicanalisi, alcune di queste correnti migratorie.  
Heidegger, già avanti sulla via della Notte, ha intuito ed espresso il rapporto esistente fra l’Essere e quanto stava accadendo. Dipende dall’Essere − dalla sua posizione rispetto all’uomo, al suo cammino, al suo corso storico −, ciò che siamo nella mente, egli ha detto. E ha chiamato “epoché” le varie posizioni. Epoché l’Aurora e il Giorno radioso di venticinque secoli fa, quando è cominciata la civiltà greca; epoché il Tramonto e il suo nascondimento avvenuto ai nostri giorni.
Poi, dopo la fermata nella Notte e la perdita d’ogni limite e appoggio, il dilagare su piani interminati.

Cause presunte e cause vere a confronto
Perciò è tutto vero quel che risulta dal pensiero debole e dall’ermeneutica, ma tutto ha un’origine diversa o un nuovo senso.
− È vero che finisce il pensiero forte, ma perché si è fatto invisibile a poco a poco l’immutabile ed eterno.
− È vero che finisce la modernità, ma sempre per lo stesso motivo: perché è finito il Giorno e l’Essere non c’è più sopra l’orizzonte ad alimentare ed accrescere il pensiero. C’è anzi appassimento e depauperamento.
− È vero che la Storia non mostra più il suo corso, da che parte è diretta e dove sfocia, ma perché dopo il percorso nella luce essa si è inabissata come un fiume carsico, o è diventata come corrente uscita dall’alveo che dilaga formando paludi e morte gore.
− È vero che finisce la Storia, ma perché si è trovata di fronte alla linea di Mezzanotte, apparentemente insormontabile; e perché, in modo ancora segreto e nascosto, si è raggiunto l’inizio di essa e si è chiuso il giro. Cominciata con Erodoto nel tempo dell’Aurora della civiltà greca, finisce in un’altra Aurora, o nella stessa che ritorna dopo il superamento della Notte riuscito finora a pochi. E ora si potrebbe ricominciare nella luce di un nuovo Giorno, se l’esigua avanguardia diventerà una fitta schiera.
− È vero che la ragione non è più quella di prima, è depotenziata affermano Vattimo e i suoi seguaci, ma perché non è più collegata alla sua fonte o non c’è più contatto a vista dopo la sparizione dell’Essere. Così staccata e isolata è solo ricordo di quel che era, e si fa uso di essa in tal modo, come retaggio del passato, come eredità da spendere per la sopravvivenza, finché dura. C’è inoltre da aggiungere che da sola non era più in grado di far fronte alla grande sfida del cammino nella Notte e dell’attraversamento dell’Abisso.
− È vero, infine, che il pensiero debole ed ermeneutica, e ciò che hanno provocato sulla natura umana, sono un’eredità di Nietzsche e Heidegger, ma del loro fallimento, di cui erano consapevoli perché non sono riusciti a portare a termine l’impresa di giungere alla fine del giro eterno. “Solo un Dio ci può salvare”, ha detto Heidegger prima della morte, e Nietzsche è impazzito. Perché non è riuscito a “volere” l’eterno ritorno fino alla conclusione del giro, cioè ritornare come singolo “sapendo di ritornare” e non perché portato dall’eterno girotondo della natura e della vita, simile alla dantesca “bufera infernale che mai non resta”. Non voleva l’eterno ritorno, insomma, se fin là era portato succube e inerte; voleva lui ritornare in tal modo ma a sua scelta, secondo la sua volontà, e poteva riuscirci soltanto conoscendo tutta la strada. Solo in una “visione” simile a quelle oniriche gli è apparsa questa possibilità, ma non è stata sufficiente a soccorrerlo e salvarlo. E Heidegger non è riuscito a seguire l’Essere fino alla nuova Aurora. Perciò essi hanno sì divelto le pietre miliari dai confini della modernità e di tutta la precedente storia dell’Occidente, ma per passare e andare oltre l’uomo. Invece non sono arrivati fino in fondo, la linea di Mezzanotte li ha bloccati (Questo è un accenno al fondamentale problema della filosofia contemporanea, su cui perciò ritorneremo. Però aspetti di esso già ci sono anche nei precedenti post; e tuttavia appare ora la necessità di svilupparlo di più di porlo di più in primo piano. Ciò che faremo in un prossimo futuro).

Ma ormai il terreno era spianato, l’annuncio era squillato, la via indicata, e chi è giunto dopo o stava dietro ha seguito i primi. L’intero Occidente stava dietro, più o meno consapevole, e volto in ogni caso in quella direzione, ma non ha più trovato argini né guide. I vecchi confini stabiliti da Dio, dall’anima immortale, dalla ragione, dalle leggi della natura, dalla Storia ideale eterna, dalla conoscenza filosofica, si erano dissolti o giacevano come ruderi. Solo il deserto dei tartari aldilà, e questa è l’attuale condizione dell’uomo occidentale. 
Non positiva, perciò. Non è un passo avanti sulla via della conoscenza, una nuova forma d’emancipazione, ma la conseguenza d’avvenimenti e mutazioni epocali e della sconfitta subita, di cui si stanno portando le conseguenze nella mente.
− In conclusione, una filosofia quella di Vattimo che corrisponde alla posizione attuale dell’Essere, alla sua Epoché, e all’attuale situazione dell’Occidente perduto nel Buio. Come il sole dopo il tramonto o come un fiore che si chiude nella notte, l’Essere non appare e così la parola è staccata dalla sua fonte. Non si vede più e per Vattimo non c’è più, e il suo discorso si svolge nella Notte. Il quale, come lui stesso ha affermato, è diventato “chiacchiera”, e per distinguerla da quelle delle comari l’ha definita “dotta”. Ma essa non muta la sua natura se gli si mette un aggettivo di sostegno accanto: non nasce un’aquila da un topo.

L’apporto di Severino al nichilismo diventato condizione normale
Qui giunti però non è finita, perché c’è anche Emanuele Severino in questo gioco.
Ma cosa c’entra lui con il pensiero debole dal momento che è l’unico paladino − si dice − del pensiero forte in questi tempi avvolti dal nulla? Perché anche lui non si trova in altre terre e in altri cieli, ma solo sul polo opposto dello stesso sistema. Su quello positivo, Vattimo sull’altro.
Perché Severino ha ingessato l’uomo così ridotto, ecco la risposta.
Perché, alla fine dichiara immutabile, immobile, eterno, l’uomo del nichilismo. L’ha reso così attribuendo ad ogni presente sulla scena del mondo − e se non c’è, è dietro alle quinte ma riapparirà −, i caratteri dell’Essere, vale a dire eternità, immobilità, immutabilità; e l’Essere della filosofia − ma anche il Dio del mito, della religione, dei misteri, della sapienza − è stato solo illusione e inganno; solo chimera, araba fenice, fata morgana. Anche l’Essere di Parmenide, anche il Logos d’Eraclito. 
Qual è, allora, la vera parte di Severino nel nichilismo diventato condizione normale?
È il sigillo che egli imprime sull’uomo dove sta scritto: “sei uguale a Dio”, “sei più di Dio”.
A questo punto tutto torna: ora c’è anche il sigillo del suo contrario su quel nulla, la faccia beffarda del “tutto eterno”.
Il vuoto dell’uomo postmoderno, Severino l’ha immortalato: ecco la vacuità del tutto eterno.

È tutta la potenza del nulla che si dispiega nella sua filosofia.
Si scruta il nulla quando si scorrono le innumerevoli pagine scritte dal filosofo di Brescia.
È una finestra sul nulla la sua immensa opera.
Forse ci rimarrà male Severino a vedersi così girato e capovolto, però il suo valore, io credo, rimarrà invariato. La sua capacità di parlare del nulla all’infinito non è impresa da poco, ma quella di un titano del pensiero. Ed è comprensibile perché, nonostante sia l’apologeta di quel niente, sia affascinante il suo inesauribile racconto.

Il fare di necessità virtù: la gestione del nichilismo
Dapprima il nichilismo lo si è subito: vedi il periodo delle guerre mondiali, dei campi di sterminio, della strategia del terrore atomico e nucleare in cui per la prima volta nella storia umana la sopravvivenza dell’umanità è stata posta in gioco dai suoi stessi rappresentanti.
Poi si è tentato di superarlo, vale a dire di passare oltre la linea di Mezzanotte, l’impresa su cui si son messi i grandi del secolo scorso, e io ne ho nominati due: Nietzsche e Heidegger. Ma quel tentativo non è riuscito, o solo in parte: arrivo sulla linea di Mezzanotte e progetti e speranza per andare oltre.
Altro non rimaneva allora che tentare di gestirlo.
Una gestione del nichilismo, la filosofia di Vattimo, mimetizzandoci, scomparendo il più possibile alla vista, assemblando razze, culture, religioni, diventando piccoli, inutili, insignificanti, come per sfuggire ai comandi che non ci vogliono così e che hanno fatto grandi molti uomini del passato.
Quelli che ha sentito Socrate, che agiva seguendo le parole del Demone e le ha ascoltate anche quando l’obbedienza gli è costata la vita. Il seguire virtù e conoscenza che ha spinto Ulisse oltre le Colonne d’Ercole. Poi gli innumerevoli uomini cui non è stato affermato che sono divini o deboli e combattono per superare i loro limiti, per aumentare la loro libertà, per strappare alle tenebre la conoscenza di se stessi.
Una gestione del nichilismo, la filosofia di Severino, con l’uomo in carne e ossa ingigantito come nel gioco delle ombre. Anzi nella veste di Giove tonante e ancora di più, perché l’ha chiamato “Superdio”.
Ma davvero dovremo rimanere così per sempre?
Sì, dice Severino. Costretti a essere dèi in quel modo, ognuno un dio.
Nella debolezza, dice Vattimo, anzi ancora più giù di quanto siamo oggi. Perché quella del “pensiero debole” è la migliore situazione possibile, la meno impegnativa, quella che lascia aperte tutte le porte e tutte le combinazioni
Ora io invece mi chiedo: quanto potrà durare una gestione così fondata?
Quanto ci vorrà ancora per passare dalla palude alla morta gora?
Per quanto potranno suonare ancora le sirene del nichilismo, prima che il nulla nella cultura si estenda anche alla natura, all’uomo in carne e ossa, corrompendolo completamente?
Perché non si supera il nichilismo riducendo l’uomo ai minimi termini: soluzione Vattimo.
Né allettandolo con il titolo di Superdio: soluzione Severino.
Ma solo se si attraversa l’Abisso e si passa in altre terre e altri cieli lo si lascia alle spalle (Sull’argomento, vedi anche Le altre facce del nichilismo).

P.S.
Se la “linea di Mezzanotte” fosse rimasta insuperabile e perciò l’accesso al Giorno dell’Essere impossibile, andrebbero bene l’illusione d’essere divini, il pensiero debole e l’ermeneutica, anche se quest’ultima è il supplizio di Sisifo in veste postmoderna. Si farebbe di necessità virtù, o sarebbero una pietosa bugia per addolcire un po’ la segreta sconfitta. Qualcosa come la favola La volpe e l’uva acerba, insomma. Perché, dunque, sono i risultati di un fallimento il pensiero debole, l’ermeneutica e il superdio. 
Invece è accaduto qualcosa di nuovo rispetto a questa posizione cui ormai si stanno adattando i più: il blocco sulla linea di Mezzanotte, in direzione del nuovo Giorno, non è stato completo. Qualcuno è riuscito a passare e ha cominciato a raccontare cosa c’è dopo. Dopo si arriva dall’altra parte dell’Abisso, dopo c’è la coincidenza degli opposti, la Fine della Storia che s’incontra con il suo Inizio. Dopo c’è la possibilità per l’Occidente di risorgere dalle ceneri della morale, della conoscenza, della dignità, del valore e della nobiltà in cui è caduto. 
E ora? Ora queste cose le diciamo e per fortuna abbiamo trovato il modo di renderle pubbliche, via Internet, perché altrimenti non sarebbero arrivate sulla scena pubblica.
Oggi, invece, con questo nuovo mezzo di comunicazione e di diffusione, le nuove idee sono andate in rete, e nonostante il recente inizio e i quasi ignoti autori, ci sono già migliaia di visitatori. Se continueranno a sostenerci, se si moltiplicheranno, La via d’uscita dal nichilismo non rimarrà più quasi deserta e fuori mano. L’Occidente raggiungerà l’Oriente e diventeranno una cosa sola per molti, e non soltanto per la sparuta avanguardia che ha già visto.
Allora, nella Luce che non tramonta mai, una nuova civiltà nascerà sulla terra e comincerà da quel punto il suo cammino.
Com’è già avvenuto nella Grecia antica venticinque secoli fa.

Enrico Suso, Un mistico

31 ottobre 2009

Enrico Suso, Libretto delle verità

Suso

Enrico Suso

Finché l’uomo non comprende due contraria,
cioè due cose contrarie congiuntamente in una,
in verità, senza alcun dubbio,
non è molto facile parlare con lui di tali cose
(cioè del molteplice che è nell’Uno, eppure resta molteplice),
perché quando comprende ciò,
allora soltanto ha percorso la metà
del cammino della vita che io intendo.

Nel circolo della conoscenza, che sono riuscito a tracciare dopo un camino nella natura e nella cultura durato cinquant’anni, la coincidenza degli opposti si trova al di là del Ponte che attraversa l’Abisso, sull’altra riva. Essa è anche il punto dove finisce la Notte e l’esile chiarore dell’Alba comincia ad apparire (là c’è anche la “Porta che divide i sentieri del Giorno e della Notte” vista e raccontata da Parmenide, quella che è riuscito a superare con il favore della dea che la sorvegliava, e a entrare nel Giorno; e non poteva essere altrimenti, perché uno solo è il giro della vita e muta soltanto il nostro modo di vedere e di sapere).
Enrico Suso però non ha seguito la via della conoscenza, ma quella mistica, perché è un mistico tedesco del quattordicesimo secolo o in tale contesto viene prevalentemente collocato; perciò ha proceduto per la seconda. In essa l’Abisso ha anche altri nomi: caligine, nube della non conoscenza, notte oscura, dotta ignoranza, notte dell’anima.
Con quale nome e aspetto si è presentato a Suso non lo so, ma leggendo le sue opere si potrà ricavare. Che sia giunto da lì però è indubbio, perché c’è sempre quella prova da sostenere e cammino da percorrere prima di arrivare alla coincidenza degli opposti. Lo attestano anche altri esempi di mistici il cui percorso invece lo conosco un po’ di più. Dalla notte oscura è arrivato Giovanni della croce, dalla nube della non conoscenza Riccardo di San Vittore e Pseudo Dionigi, dalla notte dell’anima Angela da Foligno, “nella caligine di una nube” Mosè ha incontrato Dio. Dunque, è sempre alla fine dell’oscurità e inizio della luce che la coincidenza avviene.
Che cosa avviene?
Due cose contrarie si congiungono in una, dice il secondo verso del pensiero poetico di Enrico Suso e si comprende che il molteplice è nell’Uno, eppure resta molteplice (Non diversamente da Enrico Suso, Angelo Silesio, contemporaneo di Suso, così ha espresso la stessa esperienza: “Non ottiene l’uomo perfetta beatitudine/ Se l’unità non ha inghiottito l’alterità”).
Ecco l’importante: comprendere. Non si afferma che le cose non sono nell’Uno perché lì sempre si trovano e non potrebbero esistere altrimenti, ma che si arriva a comprendere quest’essenziale verità quando si supera l’Abisso; e comprenderla significa aderire ad essa, perciò non-essere ed essere nello stesso tempo, recitare la propria parte e amare Dio, come dice un’indicazione che ho visto sulla via della conoscenza, dopo l’uscita dal labirinto (Così diceva quell’indicazione: “Io mi trovo a sapere delle Cose,/ delle loro forme, limitazioni, tempi, colorazioni, come accade e perché, / che cosa cade perché resti la Cosa./ E si sa quando Cosa s’aggiunge a ciò che in fondo giace./ Ecco che Cosa mi dà pace: essere e non – essere,/ essere già stato e aver dimenticato,/ essere un tutto e vedermi breve,/ recitare la mia parte e amare Iddio”).
Oltre che coincidenza degli opposti, l’unione del singolo con il tutto si chiama anche estasi, il cui significato originario è entrare in Dio – èkstasi.

Altre esperienze nella mistica, simili a quella di Suso, suonano così.
Ha detto Caterina da Genova: “Ma l’amor puro e netto non può dire voler da Dio alcuna cosa (per buona che esser possa) la quale abbia nome di partecipazione; perché vuole esso Dio, tutto, puro, netto, e grande, siccome è: e quando gliene mancasse un minimo puntino, non si potrebbe contentare, anzi gli parria esser nell’inferno. E perciò dico ch’io non voglio amor creato, cioè amore che gustar si possa, né intendere, né dilettare: non voglio, dico, amore che passi per mezzo dell’intelletto, della memoria, della volontà; perché l’amor puro passa tutte queste cose, e le trascende, dicendo: Io non mi quieterò fino a tanto che io sia serrato e rinchiuso in quel divino petto, dove si perdono tutte le forme create, e così perdute restano poi divine: né altramente si può quietare il puro, vero, e netto amore. Onde ho deliberato, mentre ch’io viverò dir sempre al Mondo: Di fuori fa di me tutto quello che vuoi; ma nell’intrinseco lasciami stare: perché non posso, né voglio, né vorrei poter voler occuparlo se non in esso Dio, il quale se l’ha preso, e serratosegli dentro talmente, che non vuole aprire ad alcuno. Per l’alienazione in che mi truovo delle cose corporali, non le posso sopportare. Per lo che parmi di non esser più di questo mondo, non potendo come gli altri far l’opere del mondo: anzi ogni operazione che vedo fare dagli altri, mi dà noia, perché non opero com’essi né com’ero usata. Sentomi tutta alienata dalle cose terrene, e massime dalle mie proprie; che sol’in vederle con gli occhi, non le posso più sopportare: e dico ad ogni cosa, lasciatemi stare; perché non posso più aver cura né memoria di voi, come se per me non foste. Non posso lavorare, né andare, né stare, né ancor parlare: ma vedomi una cosa inutile, e superflua al mondo: Molti sono che si meravigliano, e per non intendere la causa si scandalizzano: e veramente, se non fosse che Dio mi provvede, alcuna volta dal mondo io sarei tenuta pazza; e questo è perché quasi sempre fuor di me stessa vivo”.

Ha detto Angela da Foligno: “Poi vidi Dio in una tenebra, e per questo in una tenebra, perché egli è un bene più grande di quanto si possa pensare o capire, al quale nulla che possa essere pensato o capito riesce ad accostarsi. E poiché quel bene è nella tenebra, esso è tanto più certo e superiore a tutte le cose tanto più lo si contempla nella tenebra ed è oltremodo nascosto. E in seguito io vedo nella tenebra che esso è superiore a tutti i possibili altri beni e che ogni altra cosa al suo cospetto si fa opaca e che tutto quello che si può pensare è inferiore a questo bene”.

Ha detto Janne-Maire Bouvier: “Al principio della nuova vita, vidi chiaramente che l’anima era unita al suo Dio, senza mezzi né cose in mezzo; ma ancora non era del tutto perduta. In lui si perdeva ogni giorno, come si vede di un fiume, che si perde nell’oceano, versarsi nel mare e poi sciogliersi in esso, ma in modo che il fiume si distingue dal mare ancora per un po’, finché alla fine, ma solo per gradi, si muta nel mare stesso, che rendendolo partecipe a poco a poco delle sue qualità, lo converte a tal punto in sé da far si che da ultimo non ci sia più nient’altro che un unico mare”.

Ha detto Anna Kaharina Emmerch: “Da alcuni giorni oscillo di continuo tra visione sensibile e visione soprannaturale. Mi devo fare molto coraggio, perché, nel bel mezzo di un discorso con gli altri, vedo contemporaneamente davanti a me altre cose e altre immagini, e poi ascolto le mie parole, nonché quelle del mio interlocutore, come se provenissero da un recipiente cavo, tetro e grossolano. Io mi sento come se fossi ubriaca e stessi per crollare. Le parole che rivolgo alle persone che parlano con me escono pacatamente dalle mie labbra e sono spesso più vivaci del solito, senza che io sappia quello che ho detto, benché mi esprima con estrema coerenza. Devo mantenermi in questo doppio stato, ma non ci riesco se non con fatica. Vedo ciò che mi sta di fronte con gli occhi spenti, come uno che dorma e che stia cominciando a sognare. La seconda visione mi trascina a sé con violenza ed è più nitida della visione naturale; ma non avviene per il tramite degli occhi”.

Ha detto Ramakrishna: “A volte facevo in modo d’andare nella stanza dei domestici e di quelli che spazzavano il pavimento per poterlo lavare con le mie mani, e intanto pregavo: “Madre! Annienta in me ogni idea ch’io sia grande e brahmano, e che essi siano inferiori e paria, perché che altro sono loro, se non tu, sotto molteplici forme?” E ancora: La conoscenza di Dio può essere paragonata ad un uomo, l’amore di Dio ad una donna. La conoscenza accede soltanto alle sfere esterne di Dio, mentre nessuno può entrare nei profondi misteri divini se non come amante, perché per lui, come per la donna, si aprono le stanze più segrete”.

Ha detto Simeone il nuovo teologo: “Dimoro in te come il profumo nella rosa. Dimoro in te come il nitore nel giglio. Io, nobile frutto, sono sbocciato da te”.

Ha detto un grande mistico sufi: “Io e il mio amato siamo una cosa sola”.

Su un gradino più alto i cristiani collocano Gesù che ha detto: “Io e il Padre siamo una cosa sola”, e per aver pronunciato queste parole è stato crocefisso.

Ora la parola alla filosofia dal punto dove è giunta da poco, quello sull’altra sponda dell’Abisso.
Dunque, a loro modo, i mistici hanno superato l’Abisso e sono giunti al punto dove gli opposti coincidono. Poi ad esso è arrivata anche la filosofia.
Ventiquattro secoli ha impiegato per toccare la sponda di qua dell’immensa voragine, quella che corrisponde alla linea di Mezzanotte (vedi anche le precedenti Coincidenze: n. 5, n. 6, n. 8, n. 12), poi ci sono voluti cinquant’anni a me per arrivare dall’altra parte. Non è un vanto questo mio ma ciò che ha voluto il Destino. L’ho detto in altre occasioni e lo ripeto, poi si commenti quanto si vuole e come si vuole. Ciò che qui conta è che alle altre vie esistenti ora si aggiunge quella della filosofia al completo. Che ci fosse anche prima, ben si sa, perché ha tutti quegli anni di vita e certe previsioni e tentativi c’erano già: uno dei più importanti quello di Nicolò Cusano. E c’era soprattutto la sapienza dalla quale la filosofia è nata e a cui è tornata, perciò si è trattato fondamentalmente di un ritorno a casa, dopo un immane giro per sapere dov’è la casa, per scoprire e fissare le sue coordinate per sempre.
Partenza, percorso e arrivo sono segnati nel libretto intitolato La via dei Miti e dei Misteri…, perciò chi vuol coglierla tutta intera deve volgersi ad esso. Qui invece vorrei soffermarmi sugli aspetti filosofici apparsi già lungo il cammino e che una volta affrontati e superati l’hanno aperto fino alla meta. Essi sono il superamento della logica platonica e aristotelica in auge da quel lontano passato e la previsione e anticipazione della coincidenza degli opposti.

Per arrivare alla comprensione della coincidenza degli opposti, vale a dire di “due cose contrarie congiuntamente in una”, si doveva abbattere il granitico piedistallo su cui il “principio di non contraddizione” si elevava, privandolo così del suo valore apodittico e della sua validità universale. Non eliminarlo, cosa impossibile d’altronde, perché esso è certamente valido nel mondo delle metà distinte e separate, vale a dire in questo dove noi siamo ancora prevalentemente immersi. Dice quel principio che “Nessuno, e non solo chi è sano di mente, ma nemmeno chi è pazzo ha il coraggio di dire sul serio a se stesso, e con l’intenzione di persuadersene, che il bove è il cavallo, o che il due è uno”. Così l’ha formulato Platone nel Teeteto e Aristotele l’ha confermato e rinvigorito con queste parole: “Non è possibile che lo stesso uomo pensi che una stessa cosa sia e non sia” (Aristotele, Libro IV della metafisica). E non contento gli ha concesso la più alta onorificenza, dove c’è scritto: “è il più saldo di tutti”.
Da allora logica e ragione, vale a dire il braccio e la mente, sono andate a braccetto e nessuno ha più osato attaccarle, fuorché i mistici. Che hanno detto in coro e ripetuto che la Luce è anche Tenebra e la Tenebra è anche Luce; che le due stanno assieme indissolubilmente. Certo, essi non si riferiscono alle cose del mondo come normalmente appaiono, ma come si mostrano dopo, dove il principio di non contraddizione non ha più il potere assoluto. Se non vale più così tanto e non dappertutto, allora non c’è il bove e il cavallo sempre così distinti e separati come prima apparivano, non c’è l’uno e il due, e poi il tre, il quattro, il cinque, e poi la terra, la luna, le stelle, le rose, gli uomini: c’è il tutto in una volta. Perché hanno varcato l’ultima soglia della rappresentazione umana come viene ancora vissuta, scritta e raccontata, e si sono avventurati aldilà. In Occidente sono ancora eccezioni, ma poi si è giunti al Tramonto e anche dal piedistallo della filosofia si è cominciato a vedere che dal Giorno che finisce comincia la Notte, come venticinque secoli prima da essa era sorto il Giorno, e che i due si danno origine fra loro.

L’attacco al principio di non contraddizione è stato condotto da molti. Da Nicolò Cusano che in difesa della sua dottrina contro le critiche ad essa rivolte ha detto: “La coincidenza degli opposti vale per l’intelletto ma non per la comune razionalità discorsiva, che resta ancorata all’aristotelico principio di non contraddizione”. Da Hegel, che considerava il mistico l’unità concreta di quelle determinazioni che per l’intelligenza finita valgono solo nella loro separatezza e contrapposizione. Da Kant che ha sancito i limiti di una ragione che sembrava onnipotente ma che in realtà ha confini precisi, liberando così le altre facoltà della mente da quella prigione, anche se dorata. Da Schophenauer, il primo cui suonò evidente che la raggiunta consapevolezza dei limiti della ragione ha spianato la via al gran “salto oltre la ragione”: al ponte si potrebbe dire ora. Poi da Nietzsche, Leopardi, Freud, Jung, Dewey, Wittgenstein, Heidegger, Dostoevskij, e dalle correnti più avanzate della fisica e della matematica (“A partire dagli inizi del secolo scorso questo principio è andato incontro alle critiche più radicali, da Leopardi a Nietzsche a Freud, Dewey, Wittgenstein, Heidegger; da Dostoevskij a certe diffuse interpretazioni della dialettica hegeliana e del marxismo, alle ricerche sulla mentalità primitiva, sul mito, sull’arte; da certe interpretazioni della fisica quantistica e del principio di indeterminazione all’intuizionismo matematico e alle logiche non aristoteliche, e alle loro applicazioni non solo all’ambito delle scienze naturali, ma anche a quello delle scienze sociali”, Emanuele Severino, Pensieri sul cristianesimo). Dopo di ciò, anche l’ultimo tratto, il più arduo e misterioso, poteva essere superato. Ma io allora non conoscevo l’opera dei miei predecessori. L’ho appresa molto più tardi, ad avventura conclusa. Ciò significa che, come ha scritto Hegel, la civetta di Minerva – la sapienza – “arriva sempre al tramonto, quando tutto è avvenuto, e ad essa resta solo il compito di capire com’è avvenuto e che senso ha”.

Superata la barriera costituita dal principio di non contraddizione, la via s’è aperta per la continuazione verso la coincidenza degli opposti.
La prima esperienza di essa in campo filosofico è stata vissuta, mi sembra, da Nicolò da Cusa, chiamato anche il Cusano. Così l’ha raccontata lui stesso. “Mi trovavo per mare di ritorno dalla Grecia, e fu allora che, per dono divino (il più alto, credo, che abbia ricevuto da Dio), sono stato guidato fino ad afferrare le verità più incomprensibili in modo incomprensibile nella dotta ignoranza, mediante il superamento della conoscenza umana delle verità incorruttibili. Cosicché in Dio medesimo che è la verità, questa dottrina è stata sviluppata nei tre libri presenti che possono essere accorciati o allungati partendo dal medesimo principio” (Nicolò Cusano, La dotta ignoranza, Città Nuova 1991, pag. 199).
La dotta ignoranza è, appunto, conoscenza dal confine fra il noto e l’ignoto, fra il visibile e l’invisibile. Ignoranza perché da quel limite che appare impenetrabile, non è dato di sapere cosa c’è oltre. Però dotta, perché si arriva fino al limite del noto, vale a dire di questo mondo duplice e molteplice, che per i più costituisce tutta la conoscenza possibile. Quel confine il filosofo l’ha chiamato anche il muro del paradiso e Dio è dall’altra parte.
In questa prima esperienza di Nicolò da Cusa la via filosofica è ancora intrecciata e confusa con quella religiosa e la comprensione di essa è apparsa anche al suo autore più un dono di Dio che un risultato del pensiero. Inoltre perché il Cusano era un sacerdote e perché egli si richiama continuamente alle fonti dei mistici medievali, specialmente, agli scritti Eckhart e dello Pseudo Dionigi, sembra che la sua dottrina rinnovi solo pensieri che appartengono a quel patrimonio. Ma la collocazione dominante è l’altra, e la dottrina della dotta ignoranza diventerà sempre più patrimonio della conoscenza umana e si allungherà, dopo l’abbattimento delle barriere razionali, fino ad oltre l’Abisso.
Oltre la porta del Paradiso raggiunta dal Cusano.

Ora la seconda parte del percorso di Suso.
Dopo aver detto che non è facile parlare del “molteplice che è nell’Uno, eppure resta molteplice” “finché l’uomo non comprende due contraria”, Enrico Suso così continua: solo dopo che ha compreso ciò egli si trova a metà del cammino che io intendo. Ma non è invece l’arrivo? Così, infatti, ho anch’io spesso affermato: la coincidenza è la fine che incontra il suo inizio.
Fine del ciclo però, ritorno a casa. Ma poi Ulisse non è ripartito per l’avventura celeste (vedi undicesima coincidenza)? Ed io non ho detto che c’è la Porta di cui si possiedono le chiavi? E si può continuare nella consapevolezza ciò che qui si compie in tanta parte al buio, ma dalla Porta aperta si può anche passare sulla “via maestra” diretti all’Essere, dove “il molteplice e nell’Uno, eppure resta molteplice”. Ecco cos’altro c’è da svolgere, allora: aspetti che ho già trattati nel libro L’antica via dei Miti e dei Misteri
Perciò Suso non pone fine al suo dire a coincidenza raggiunta, ma – egli dice – a questo punto siamo soltanto a metà del cammino. Perché davanti c’è ancora per lui la via del Paradiso e Dio; per la filosofia, la strada maestra e l’Essere, quella seguita da Parmenide quando è giunto davanti alla Porta e dopo che s’è aperta (vedi il suo poemetto Sulla Natura, frammento 1).

P.S.
Come abbiamo già visto in altre occasioni, la base di partenza di tutte le coincidenze cui si arriva percorrendo le vie sopra indicate – la mistica e la filosofica ma, com’è già apparso nelle pagine precedenti, ci sono anche quelle del mito, dei misteri, della poesia -, è la natura con i suoi metodi.
Come natura, il nostro inizio, che condividiamo con tutti i viventi che abitano la terra, il mare, e il cielo, è la coincidenza di uno spermatozoo con la cellula femminile. E’ avvenuta nel grembo materno, dopo un’immensa avventura del seme maschile che va dal momento della sua emissione fino alla penetrazione e fusione. Perché uno solo arrivasse e fosse accolto, sono partiti in duecento milioni. Gli altri si sono perduti lungo vie labirintiche e impervie, o sono stati ingoiati dai leucociti, travolti dai flussi liquidi, imprigionati fino alla fine della loro effimera esistenza dalle ciglia vibratili delle mucose, sprofondati in solchi e voragini. Infine l’arrivo di uno solo, dell’eroe o del più fortunato, la coincidenza, l’inizio di una vita e il suo sviluppo fino all’uscita nella luce del sole. Per l’uomo anche in quella della mente. Ciò, dunque, a livello microscopico e in quanto siamo anche natura, anzi ancora prevalentemente così, è la prima coincidenza che ci riguarda da vicino, che avviene nel nascosto e nel segreto e che soltanto da pochi decenni siamo riusciti a vedere, seguire e decifrare guardandola da fuori e dall’alto.
A livello macroscopico, le due cose contrarie che si congiungono in una sono invece l’uomo e a donna; e questa seconda coincidenza sta a fondamento non solo della natura che continua a questo livello, ma anche di qualcosa di nuovo che si chiama cultura. E nella cultura i libri sacri e profani, con i nomi, le date, le storie dei grandi amori. Così prosegue nell’aperto del sole e della mente, seguendo le vie del mito, dei misteri, della religione, della poesia, ciò che è cominciato nel nascosto e nel segreto.
Infine quest’ultima strada, la più nuova: quella della conoscenza chiara e distinta.

Pascoli, il mare, il ponte

18 ottobre 2009

Giovanni Pascoli, Mare

M’affaccio alla finestra e vedo il mare:
vanno le stelle, tremolano l’onde.
Vedo stelle passare, onde passare:
un guizzo chiama, un palpito risponde.
Ecco sospira l’acqua, alita il vento:
sul mare è apparso un bel ponte d’argento.
Ponte gettato sui laghi sereni,
per chi dunque sei fatto e dove meni?

Emil Nolde, Crucifixion (1912)

Emil Nolde, Crucifixion (1912)


Una bella poesuola, mi son detto, quando l’ho letta la prima volta. Così carina e semplice che merita di essere ricordata e ripetuta, e in breve l’ho imparata a memoria. Da allora non è più uscita dalla mente, ma giaceva nel profondo, perché per molti anni non l’ho più vista e sentita. Infatti, ero tanto giovane allora, forse studente della scuola media o delle elementari. O forse non l’ho neppure letta a scuola ma in una delle mie peregrinazioni sui libri di poesia. Leggevo e quel che mi colpiva l’imparavo. Allora sembrava per gioco, oggi c’è qualcosa di più. Ora Mare entra nel novero delle Coincidenze.
Per via del ponte misterioso?
È quello che attira di più certamente e mi da modo di aprire sull’argomento ponte, che è una delle strutture più importanti della via della conoscenza. Senza il ponte, il cammino non poteva continuare, l’Abisso non sarebbe stato attraversato. Il viaggio si sarebbe fermato sulla linea di Mezzanotte, come, di fatto, è accaduto a tutti quelli che lungo la filosofia, seguendo i filosofi del Tramonto e della Notte da Schopenhauer in poi, sono arrivati fin lì, ma ancora non sanno che una struttura di tal genere ora esiste anche in tal campo. Si tratta solo di una corda che collega le due sponde, quella che portavo con me e che mi è riuscito a lasciar pendere alle mie spalle nel lavoro d’attraversamento dell’Abisso che ho compiuto.
È la prima volta, dunque, che un tal ponte viene qui gettato, ma esso esisteva già in altri campi. Ne ricordo alcuni.
Nelle religioni che fanno capo alla Bibbia, il ponte fra l’uomo e Dio lo ha posto Dio stesso. Il suo aspetto sensibile è l’arcobaleno: “Io porrò il mio arco nelle nubi, e sarà come segno dell’alleanza fra me e la terra”.
In molti rituali e nelle mitologie iniziatiche e funerarie sono numerose le immagini del ponte, che implicano l’idea di un passaggio pericoloso, a volte di una liana che oscilla sotto il passo.
Le leggende medievali parlano di ponti nascosti nell’acqua, o sottili e taglienti come il filo di una spada, che il cavaliere doveva attraversare per riuscire a compiere l’impresa cui era stato destinato.
Un ponte esiste anche in natura, e non poteva essere altrimenti se essa è l’origine di ciò che è venuto dopo, e dopo c’è tutta la cultura. Si chiama ponte di Varòlio dal nome del suo scopritore, è formato da circa trecento milioni di fibre nervose, ed è la via di collegamento dei due emisferi del cervello che hanno funzioni diverse, e in tal modo raggiungono la coincidenza (L’emisfero sinistro è molto più competente del destro nel linguaggio e nella logica; il destro ha una parte molto maggiore in abilità spaziali e nel pensiero “gestaltico”. Noi abbiamo linguaggio, arte, ispirazione, mantenuti separati dagli abissi enormi esistenti fra i due emisferi e collegati fra loro da un ponte dalla campata immensa. Se a questo punto si riflette sul fatto che gli uomini hanno maggiore attitudini per il linguaggio e la logica, e le donne per ciò che compete all’altra metà del cervello, allora si arriva a conseguenze imprevedibili. Una di esse è stata esposta da un filosofo donna, così riassunta: “L’alleanza fra l’uomo e la donna diviene allora un ponte fra la natura e la cultura, un ponte ancora da costruire.”, Luce Irigaray, Essere in due, Bollati Boringhieri).
Poi la prima comparsa del ponte anche nella filosofia; ma era giocoforza a quel punto, vale a dire dopo che la linea di Mezzanotte era stata raggiunta. Perché non c’era più cammino davanti, solo il vuoto e l’alternativa era la caduta in esso. Come, di fatto, sta avvenendo. Com’è sempre accaduto, per la verità, ma oggi l’Abisso è sotto gli occhi e si guarda rassegnati e vinti, e c’è chi si getta prima per non prolungare l’attesa disperata e l’agonia. Quella prima idea di ponte è opera di Nietzsche ed esso, per il filosofo dell’eterno ritorno, è l’umanità stessa che porta dell’uomo al superuomo.
Giunto davanti all’Abisso, a un ponte ha pensato anche Heidegger. Lui però di primo acchito l’ha escluso, perché ha pensato di riuscire a superarlo con un salto, ma per quella larghezza non sarebbero bastati gli stivali delle sette leghe”. Perciò era il Ponte che si doveva costruire. Egli ha detto: “Non c’è un ponte che conduca dalla scienza (il pensiero calcolante della ‘ragione’ occidentale) al pensiero (il pensiero che rinunciando ad ogni finalità ‘costruttiva’ si pone come risposta ad una chiamata, quella dell’essere). L’unico passaggio possibile è il salto. Il luogo dove questo salto ci conduce non è solo l’altro lato dell’abisso, ma una regione totalmente diversa” (Heidegger, Was heisst Denchen?, 61, II, 6). Poi ancora: “Il salto, a differenza del cammino (d’ogni cammino dell’Occidente, scientifico, filosofico, poetico…) porta il pensiero, senza ponti, cioè senza che vi sia un procedere continuo, in un altro ambito e in un’altra maniera di dire” (Heidegger, Weise des Sagens?, 63,95.). La diagnosi era esatta, le due sponde sono indicate in modo chiaro e distinto, ma un salto di tal genere poteva riuscire solo a qualcuno, com’eccezione.
Per ultimo il mio ponte, quello che collega la fine del millenario cammino filosofico nel mondo di qua con l’aldilà. Di come sono riuscito a idearlo, costruirlo e poi attraversare l’Abisso, ho detto nel libro L’antica via dei Miti e dei Misteri.

Perciò una struttura di collegamento assai recente il ponte in filosofia. Tuttavia la filosofia non ha mai rinunciato all’aldilà, anche se non c’era il ponte.
Com’è stato possibile, allora?
In altre parole, anche lungo la filosofia del giorno, quella che va da Socrate a Hegel, tale forma di conoscenza non si è mai fatta mancare l’altra parte. Ha parlato di essa, è sempre stata la sua meta, molti hanno abitato in ispirito quei luoghi, passando quindi dall’immanente al trascendente, o dalla fisica alla metafisica, o dal divenire all’essere. In definitiva da questa dimensione dove tutto è cambiamento e dalla vita si va inesorabilmente verso la morte finché non si arriva, a quella dell’essere, dove invece ogni cosa è per sempre.
Ma come ha potuto se, di fatto, con i piedi, è sempre stata di qua, vale a dire prima dell’Abisso?
Perché ha fatto uso degli altri ponti degli altri domini, quelli or ora descritti, arrivando aldilà non con una sua esperienza diretta ed esclusiva. Cioè i filosofi si sono fatti portare dall’altra parte sulle ali del mito, dei misteri, delle religioni, perché fino a Nietzsche , come ho già detto, con l’aldilà non c’è mai stata prima un’esperienza diretta. Alcuni esempi.
Socrate, dopo aver dimostrato l’immortalità dell’anima, per dirci dove essa va dopo la morte, ha messo da parte la ragione che non lo sapeva e si è rivolto al mito. Quello favoleggiato dai poeti, sacerdoti, mistici.
Secondo Platone, le sostanze immutabili (idee) risiedono “di là dal cielo”, vale a dire nell’Iperuranio, ma si tratta di un mito descritto nel Fedro ed è un mito anche la famosa caverna, dove gli uomini sono legati all’interno di essa e costretti a fissare il muro di fondo senza poter girare la testa; e vedono solo le ombre delle cose che passano davanti a foro d’ingresso; e credono vere, reali, le prime perché delle altre non sanno. Mito della caverna, infatti, è il titolo di quel racconto. Dichiaratamente, perciò, non c’è un cammino filosofico che collega, semmai, appunto, una visione da sogno.
L’aldilà di Aristotele è la “filosofia prima”, poi chiamata metafisica (Metafisica deriva dal posto che gli scritti aristotelici relativi avevano nella raccolta di Andronico da Rodi, precisamente dopo la fisica, che era la prima delle scienze particolari), ma c’è un vuoto incolmabile fra fisica e metafisica, lo stesso che Tommaso d’Aquino ha cercato di superare con le sue prove dell’esistenza di Dio.
Cartesio, per fondare il suo Cogito ergo sum, che non è mai riuscito a distinguerlo in modo chiaro e distinto dal sogno, ha chiamato in aiuto Dio. In altre parole la certezza di sé e del mondo l’ha fondata in Dio; e vale per Dio, seguendo la via della conoscenza e non quella della fede e del misticismo, l’impossibilità di collegarlo all’uomo.
Lo sapeva bene Kant, che ha posto limiti insuperabili alla conoscenza filosofica e ha chiamato “cosa in sé” ciò che, non per ragione ma per fede, poteva anche esserci (come frutto “di una intuizione non sensibile”, per esempio, cioè divina, mentre per noi il concetto rimane vuoto), ma non era dimostrabile; e cosa in sé era anche Dio. Ma alla fine ha dovuto gettare la spugna: c’era solo il vuoto di là della conoscenza umana della cosa; e a questa conclusione è giunto nell’ultima edizione della critica, dopo anni di riflessioni (Infine, “Non è afferrabile la possibilità di tali noumeni, e l’ambito che si estende al di fuori della sfera delle apparenze, è [per noi] vuoto; noi abbiamo cioè un intelletto che si estende di là delle apparenze, ma non abbiamo alcun’intuizione, anzi neppure il concetto di un’intuizione possibile, attraverso cui possono esserci dati al di fuori del campo della sensibilità degli oggetti, e l’intelletto possa venire usato in modo assertorio di là di tale sfera. Il concetto di un noumeno (cosa in sé) è quindi semplicemente un concetto-limite, destinato a circoscrivere la presunzione della sensibilità, e d’uso quindi soltanto negativo. Esso non è peraltro inventato ad arbitrio, ma è connesso alla limitazione della sensibilità, senza poter tuttavia porre nulla di positivo al di fuori di tale sfera”, Kant, Critica della ragion pura).
Continuando sulla via della conoscenza, infatti, i filosofi che sono venuti dopo Kant, precisamente Fichte, Schelling, Hegel, hanno negata la cosa in sé e l’Io è diventato anche Dio.
A conclusione di questa breve rassegna, lungo tutta la filosofia che va da Socrate a Hegel non c’era, dunque, nemmeno il progetto di un collegamento. Ed ora la domanda: com’è possibile che per ventiquattro secoli i filosofi si siano adagiati su questo qui pro quo, quello di passare aldilà su strutture altrui o di accontentarsi di intravedere da lontano e congetturare? E la risposta suona così: il legame c’era anche nel dna della filosofia, ma nascosto e segreto, abitava l’inconscio. Era quello espresso dalla sapienza prima che la filosofia fosse, quello che Socrate aveva sentito da Parmenide quando era assai giovane, ma non era riuscito a sollevarlo alla parola della filosofia.
L’unica vera esperienza a questo punto è stata quella di Parmenide, ma essa appartiene alla sapienza. Qual è la differenza? Che lui la strada l’ha percorsa davvero: quella che dalla “casa della notte” portava fino alla Porta. E la Porta s’è aperta davvero sotto i suoi occhi ed è passato. E il Giorno l’ha visto tutto in una volta, come quando dall’alba sulla terra appare anche il cielo del tramonto e l’orizzonte dove tutto di nuovo sparirà nel buio. Insomma c’è tutta la conoscenza e l’esperienza di un giro completo nell’avventura di Parmenide, e per lui si parla, infatti, di viaggio iniziatico, non solo d’opera di pensiero razionale. Ciò che ho già detto in altre occasioni e che qui ribadisco (vedi le Coincidenze 3, 5, 10, 12), per segnare ancora una volta il confine fra sapienza e filosofia, per dire a chiare e tonde lettere cosa le distingue. Sapienza è l’esperienza di tutto il giro della vita, di giorno-notte , veglia-sonno, conscio-inconscio, vita-morte; filosofia solo della metà.

Ritorno alla poesia Mare dopo l’excursus nella filosofia. Ma è venuta da sé la lunga camminata nel pensiero con passi da gigante, per cercare riferimenti e coincidenze, o meglio per portarli alla parola, perché gli uni e le altre hanno fatto capolino appena ho rivisto la poesia, e non l’ho letta anche se ho tenuto gli occhi chini sul foglio ma recitata a memoria. Ed ho subito pensato: Pascoli ha sollevato dall’inconscio quello che io ho tratto dall’intrico della cultura; lui l’ha manifestato con parole più belle, adatte al paesaggio che aveva sotto gli occhi e in modo più raccolto; io con pensieri più chiari e distinti. Vediamo ora come si combinano questi due modi di conoscere.
Il poeta s’affaccia alla finestra.
È sempre da un punto o luogo privilegiato che si guarda e nel momento propizio. Dalla finestra in questo caso ma anche dai “lidi della California” o dall’alto di “un colle” come Whitman (vedi Coincidenze 3 e 8). O dal presente, rivolti prima al passato e poi al futuro, come la Cantarutti e Kavafis (vedi le Coincidenze 2 e 7). O dalla spiaggia, guardando la “marina”, come Montale nella poesia Casa sul mare (vedi la Coincidenza 10).
Anche Pascoli dalla finestra vede il mare.
E sul mare “vanno le stelle, tremolano l’onde”.
Vede “stelle passare, onde passare:/ un guizzo chiama, un palpito risponde”.
Vede, in altre parole questo mondo che scorre. Quello che la filosofia chiama anche immanente, o fisico, o del divenire. Se poi si sa che il mare è uno degli aspetti sensibili dell’Abisso, si può capire subito dove vanno le cose: dove scompaiono e la vita muta in morte, come nel Canto notturno di un pastore errante dell’Asia. Ma questa volta c’è un ponte su quella sponda estrema.
Di esso, come ho detto più sopra, mi sono accorto anche la prima volta, da ragazzo. Ma allora mi sembrava una licenza poetica – così si diceva delle apparizioni strane e misteriose nella poesia. Sembrava un tocco extra che la rendeva più affascinante. D’altronde gli stessi poeti, a volte, indulgono su questa credenza popolare e in qualche caso l’alimentano. “È del poeta il fin la meraviglia”, ha detto uno di loro; ed ora eccola lì, nella veste di “un bel ponte d’argento” posto nel punto dove prima venivano meno l’uomo e il suo mondo, e si può non precipitare. Ed io per un mucchio d’anni mi sono invece cullato su quella ingenua interpretazione del ponte, finché il suo ripresentarsi non mi ha svegliato e scosso.
C’è l’eco di Eraclito nella poesia di Pascoli: “Tutto scorre”. Ma per il sapiente tutto va a confluire in una superiore unità, perché Il dio è giorno notte, inverno estate, guerra pace, sazietà fame, e muta come (il fuoco) quando si mescola ai profumi e prende il nome di ognuno di essi” (Eraclito, frammento 67). Ed ora c’è un Ponte che porta a quell’unione.
C’è l’eco d’Anassimandro, perché egli ha affermato che “principio degli esseri è Ápeiron (non-limitato, non-finito, non-particolare) […] da dove infatti gli esseri hanno la loro origine, ivi hanno anche la distruzione secondo necessità: poiché essi pagano l’uno all’altro la pena e l’espiazione dell’ingiustizia (la loro separazione) secondo l’ordine del tempo” (Anassimandro, frammento 1 D.K.).
Ma ora la giustizia è stata ripristinata: si va verso il non-particolare nella consapevolezza, ma passa solo chi sa e vuole.
Ecco perciò dove porta il Ponte: di là dell’Abisso dove c’è la coincidenza degli opposti.
Rimane l’ultimo verso che è una domanda: per chi dunque sei fatto e dove meni?
Dove porta il ponte già si sa, c’è la risposta: sull’altra riva e dall’altra parte, quella che ora ha per appellativo anche Ápeiron. Di essa, semmai, si vorrà saperne di più, e qualcosa ci dicono già le altre coincidenze.
Porta sulla riva dove l’amore è “per sempre”.
Dove “allontanarsi significa tornare”.
È il “ritorno in patria”.
È la dimensione di una nuova civiltà che nascerà dalle ceneri dell’Occidente, e l’abiteranno l’arcangelo di Aurobindo, il nuovo essere un quarto uomo tre quarti verbo di Robertson, chi passerà “di là dal tempo” di Montale. Poi tutti coloro che oseranno attraversare il Ponte e abbandonare la morta gora, dove l’Occidente è nato ma ora sta morendo.
A questo punto, anche la risposta alla domanda “per chi dunque sei fatto?” arriva da sola: è fatto per l’uomo nuovo.
Attenzione però: non si tratta di visioni vaghe e future come quelle dei maghi, perché il passaggio è già in atto.

P.S.
In genere c’è il ponte o la porta fra un dominio e l’altro, e si va dall’uno all’altro attraversando il ponte o aprendo e superando la porta. Perché a me, invece, sono toccati entrambi i passaggi? Mi sembra già di poter rispondere così: perché seguendo la via della conoscenza e attraversando il ponte, giunti al di là si può continuare, inanellando un altro giro, ma ad occhi aperti e mente sveglia questa volta, e sapendo da dove si arriva e dove si va. Oppure c’è la porta d’uscita e si lascia questa dimensione. Una possibilità quest’ultima su cui non mi sono ancora soffermato, non sufficientemente almeno, perché sono orientato verso la prima soluzione.
Forse per pigrizia, o perché, come dice il proverbio, è meglio “non lasciare la strada vecchia per la nuova”; ed io il vecchio giro lo conosco ormai a memoria.
Certamente un motivo è questo, ma c’è poi il luogo d’appuntamento perenne e l’attesa di chi deve arrivare. E tutto è già incanto, tutto è già presente e mai non muta.
In quanto al giro che mi piacerà ripetere, nel modo in cui si torna anche qui a rivedere luoghi di vacanze o altri aspetti se sono belli e cari, se a compierlo tutto questa volta ho impiegato cinquant’anni – perché c’era da trovare l’uscita dal labirinto, ideare e costruire il Ponte, attraversare l’Abisso, scoprire il segreto della Porta per aprirla –, la prossima ne basteranno cinque. Ma che dico! Forse nessun tempo, perché esso è tutto presente in un momento come il cerchio d’orizzonte della terra visto dall’alto di un colle. Ma mettiamo pure di compierlo a piedi, portandomi sulla circonferenza perciò, e allora confermo: cinque anni. Perché il tracciato nel labirinto lo conosco, non devo più districarmi fra i tratti di sentiero e i vicoli ciechi, né tirare la moneta per aria agli incroci, o aspettare che l’indicazione la mandi il Cielo, perché a volte c’è molto d’aspettare.

Giacomo Leopardi, Canto notturno di un pastore errante dell’Asia

11 ottobre 2009

Giacomo Leopardi,
Canto notturno di un pastore errante dell’Asia
Versi 1-38

Che fai tu, luna, in ciel? Dimmi, che fai,
Silenziosa luna?
Sorgi la sera, e vai,
contemplando i deserti; indi ti posi.
Ancor non sei tu paga
Di riandare i sempiterni calli?
Ancor non prendi a schivo, ancor sei vaga
Di mirar queste valli?
Somiglia alla tua vita
La vita del pastore.
Sorge in sul primo albore
Move la greggia oltre pel campo, e vede
Greggi, fontane ed erbe;
Poi stanco si riposa in su la sera:
Altro mai non ispera.
Dimmi, o luna: a che vale
Al pastor la sua vita,
La vostra vita a voi? Dimmi: ove tende
Questo vagar mio breve,
Il tuo corso immortale?

Vecchierel bianco, infermo,
Mezzo vestito e scalzo,
Con gravissimo fascio in su le spalle,
Per montagna e per valle,
Per sassi acuti, ed alta rena, e fratte,
Al vento, alla tempesta, e quando avvampa
L’ora, e quando poi gela,
Corre via, corre, anela,
Varca torrenti e stagni,
Cade, risorge, e più e più s’affretta,
Senza posa o ristoro,
Lacero, sanguinoso; infin che arriva
Colà dove la via
E dove il tanto affaticar fu volto:
Abisso orrido, immenso,
Ov’ei precipitando, il tutto oblia.
Vergine luna, tale
È la vita mortale.

Caspar Friedrich, Luna nascente sul mare (1821)

Caspar Friedrich, Luna nascente sul mare (1821)

Nei primi otto versi c’è il cammino della luna nel cielo, continuo e immutabile, di cui si sa ormai tutto: dove comincia ogni fase, dove finisce, come si ripete. Ed è un continuo riandare, sempre uguale: l’eterno ritorno dello stesso che Nietzsche, come ho già avuto modo di dire in una precedente coincidenza, considerava il peso più grande (vedi la decima coincidenza, Montale, Casa sul mare) e noia e tedio insopportabili. Leopardi invece dice: “ancor non sei tu paga” di questo riandare, di questo contemplare i deserti, “ancor non prendi a schivo, ancor sei vaga/ di mirar queste valli”? Ed è la stessa cosa detta con altre parole: Nietzsche in modo più drammatico. Il supplizio di Sisifo, la condanna di Tantalo.
Questo ritornare ogni volta all’inizio però la rende “immortale”. Comincia, gira, ritorna al punto di partenza, ripete, e così per sempre. Una condizione privilegiata, perciò, quella della luna, rispetto alla vita dell’uomo: perché quest’ultima è peritura, l’altra no.
A questo punto sappiamo cosa vuol dire immortalità: lo insegna il poeta, o c’è una definizione di essa chiara e distinta. Vuol dire compiere il giro completo e poi “riandare”, per i sempiterni calli.
Di fronte ad esso la “vita del pastore” che si sveglia all’alba e prima era nel sonno: ma cos’è il sonno? Egli non lo sa, perciò il suo giro s’è interrotto per lui nella notte. Arriva, in ogni modo, da regioni sconosciute e misteriose e perciò non sa da dove. “Poi stanco si riposa in su la sera”, ritorna nel sonno e non sa dove va. Ecco la differenza con il moto della luna, che invece “sorge alla sera”, si muove nella notte, ma è presente anche nel giorno. Non ha mai staccato dal suo moto, non ha mai interrotto la sua vigile presenza. Essa perciò conosce da dove viene e dove va.
Inoltre le interruzioni notturne del pastore sono segnali d’avvertimento dell’ultima che ci aspetta perché, come dicevano gli antichi, sonno e morte sono fratelli e alla fine si passa dall’uno all’altra. Essa, infatti, appare nella seconda strofa, dove anziché gioventù e sonno c’è vecchiaia e morte.
C’è tutta l’indigenza della vita, la sua precarietà, la sua tragica conclusione nei versi che seguono. In particolare:
C’è la vecchiaia e l’infermità.
La povertà, perché il vecchierel è “mezzo vestito e scalzo”.
La necessità di provvedere al fabbisogno per vivere: la legna per scaldarsi in questo caso.
Ci sono le avversità del tempo: venti, tempesta, caldo torrido, gelo.
Poi la faticosa e perigliosa corsa, varcando torrenti e stagni, cadendo, rialzandosi lacero e sanguinoso.
Per andare dove? Verso l’Abisso e alla fine precipitare in quel buco orrido immenso.Qui la morte ha nome abisso, come anch’io spesso l’ho chiamata.
Povero uomo! Mi pare che dai tempi di Buddha nessuno ha messo a nudo la sua vera condizione come ha fatto Leopardi con questi versi. O forse anche altri, ma lasciando un po’ di spazio all’illusione, alla speranza.

Si dirà: ma la vita umana è anche bella, c’è anche il paese di Bengodi sulle sue terre, tante cose sono attraenti e desiderabili. Ed io rispondo: è come il Luna Park, dove si portano i bambini, ed essi si divertono e non vorrebbero più uscire. Ma poi finisce il giorno, calano le ombre, arriva l’oscurità, chiudono le giostre. E comincia la solitudine, la tristezza, il pianto, il grido.
Per Leopardi la chiusura è definitiva: quello era l’ultimo spettacolo. Riuscito male, fra l’altro, specialmente per il vecchierello.
Buddha, invece, ha meditato sulla dolorosa condizione umana, che termina sempre con la morte, e ha trovato e percorso una via d’uscita che parte dal samsâra o ruota del divenire e porta al Nirvana – da nirva che significa spegnere. Poi l’ha insegnata.
Nirvana
perciò vuol dire spegnimento, ma anche contemporanea Illuminazione: spegnimento del mondo che si lascia, perciò, come si annebbiano e oscurano immediatamente le cose se si alzano gli occhi verso il sole e poi si ritorna ad osservarle, e Luce illuminante per chi ormai è entrato e la guarda apertamente e la sostiene. Perciò anche Nirvana e Illuminazione sono la stessa cosa: la Patria luminosa dove i sapienti sono entrati. Il tragitto per arrivare al Nirvana Buddha l’ha chiamato “Sentiero”.
Esso è soprattutto una via filosofica, anche se è improntata più sulla sapienza che sulla filosofia. Non c’è stata in Oriente la deviazione operata da Socrate e Platone fin dall’inizio. O Buddha, contemporaneo di Parmenide, non ha avuto discepoli o seguaci che hanno deviato dalla via maestra, contravvenendo ai suoi insegnamenti (vedi dodicesima coincidenza, Eliot, The rock). Oppure qualcosa di simile è avvenuto, ma solo alcuni secoli dopo la morte del maestro, all’inizio dell’era cristiana. Alla scuola da lui fondata, chiamata Piccolo veicolo (hinayana), che insegnava la conquista della verità per se stessi, simile perciò alla Via della Verità di Parmenide, si è affiancato il Grande veicolo (mahayana), un sentiero aperto a molti, ed esso assomiglia allora alla via della filosofia iniziata da Socrate e Platone. Perché questo potesse avvenire, l’illuminato (Bodhisattva) evitava di spegnersi nel nirvana e rimaneva per aiutare tutte le esistenze nella ricerca della verità e della liberazione.
Ma questa è un’altra storia che sarà da raccontare, perché è essenziale per la comprensione di ciò che ha separato l’Oriente dall’Occidente per tanti secoli e quel che ora li sta avvicinando.

Ora le note filosofiche.
La prima
: il corso immortale della luna in cielo e quello mortale dell’uomo sulla terra. Certamente non è la luna che sa, che confronta la sua esistenza con quella umana. Essa è un corpo inanimato, non ha coscienza: la sua coscienza è l’uomo, solo lui sa che è immortale. O, in ogni caso, è l’uomo che vede e parla.
E cosa vede? Il vagare breve di sé, perché sa quando comincia e come finisce, e il moto circolare continuo dell’altra. L’abbiamo già visto questo moto, nella poesia Casa sul mare di Montale, dove al posto della rotante luna ci sono “i giri di ruota della pompa” (vedi decima coincidenza Montale, Casa sul mare), o in quella di Novella Cantarutti che inizia così: “Rotolo indietro…”, e tutto ciò che sta dietro, dice la filosofia, è natura naturata e si muove in tondo ­– astri, vita vegetale, animale, umana.
Il confronto perciò è sempre fra il movimento lineare e quello circolare: di chi arriva sulla scena per compiere un tratto di cammino e poi com’è apparso così sparisce, e chi invece svolta, ritorna dove ha cominciato e riprende lo stesso corso.
Ora una domanda: se è solo l’uomo, sempre l’uomo, che vede e parla, non è solo lui, sempre lui, che dà la patente d’immortale alla luna e di mortale a sé? Certamente, ma sulla base dell’esperienza diranno tutti quanti, un’esperienza comune continuamente ripetuta e convalidata. Ciò che, insomma, è evidenza e scienza assieme, se si tiene presente che i risultati di quest’ultima non avvengono per caso, o, anche se ciò accade qualche volta, si possono però ripetere quando si vuole, e solo per questo possono appartenere alla scienza e fregiarsi dei suoi titoli.

Se, dunque, la durata della vita è diversa per la luna e l’uomo, ecco allora la seconda nota, che ha qui la forma di domanda: non può essere la luna immortale perché di essa vediamo tutto il cammino, e noi mortali perché il nostro c’è noto solo in piccola parte? Infatti, per ogni uomo ci sono continue interruzioni misteriose e prefissate anche durante il tratto diurno – quelle del sonno; e c’è poi la fermata e la caduta nel profondo da cui non si risale, o – come dice il poeta – dove tutto si dimentica. Ed è quest’ultima soprattutto che ci fa dire di noi stessi: siamo mortali.
Il primo che l’ha affermato è stato Alcmeone, citato da Aristotele, e quel suo dire suona così: “Gli uomini sono perituri perché non possono congiungere la loro fine al loro principio”.
Conoscenza perciò difettosa e limitata la nostra?
È quello che sto cercando di dimostrare in un impegno che si è già preso, qualunque sia il risultato, tanta parte del mio tempo e mi sta occupando ancora con queste Coincidenze. Esse vogliono essere anche una comunicazione presentata in modo nuovo e con un fondamento indiscutibile: la poesia. In modo che se qualcuno vuole intervenire per dichiararle inattendibili, si trovi a fare i conti anche con lei. Non con i singoli poeti, perché qualcuno potrebbe sentirsi messo a nudo e preferire la veste magica di prima, ma con la poesia, che dovrà adeguarsi perciò anch’essa alla nuova condizione. Dovrà penetrare di più nella parte oscura, quella d’altronde da cui sono giunti gli input fino ad oggi, per cui la provenienza non cambia, e svilupparsi di più nel regno della luce mettendo nuovi fiori e frutti.

La terza nota. Leopardi parla della luna da fuori della luna e come altro da essa, mentre parla dell’uomo dall’uomo. Dal suo interno, voglio dire.
Si obietterà che, come la luna, stanno fuori anche il pastore e il vecchierello. Ma non è la stessa cosa. Essi sono uomini, non sono altra cosa dal poeta, e ciò che vale per loro vale anche per lui. Tutti e tre sono mortali, tutti e tre seguono la stessa strada altalenante fra la luce e l’oscurità e nella zona buia sono trasportati e non hanno occhi per vedere. Poi c’è l’Abisso dove tutti vanno a finire.
A questo punto, ecco che appare la possibilità per l’uomo di saperne di più di sé. Se delle cose del cielo come la luna conosciamo tutte le sue fasi e il suo eterno riandare perché le vediamo da fuori e come altro da noi stessi, allora anche per vedere l’intero nostro cammino dobbiamo uscire. Da noi stessi a questo punto. È ciò che ho chiamato anche uscita dal mondo o dal labirinto.
Dopo c’è l’Abisso, ma arrivando sulla sua sponda ad occhi aperti e anticipando il tempo del suo ineluttabile accadere, già si comincia ad accorgersi di tutto il cammino e a far progetti. Com’è accaduto a Heidegger e Jünger dopo che sono giunti sulla linea di Mezzanotte (vedi quinta coincidenza, Aurobindo).
Uscir dal mondo o dal labirinto, perciò, è il primo importante risultato. Di esso ho già parlato in alcune precedenti coincidenze (vedi coincidenze prima, seconda, terza, nona e undicesima).

Quarta nota. Chi è che si innalza e guarda da fuori?
A questo punto, per vedere tutto il cammino, anche il semicerchio notturno, non è più sufficiente l’Io, ci vuole il Sé, l’ultima conquista dell’Occidente nel campo del soggetto.
Quello che nella poesia d’Aurobindo ha nome arcangelo (vedi quinta coincidenza, Aurobindo). Oppure quell’essere “un quarto uomo,/ tre quarti verbo” di Robertson (vedi nona coincidenza, Robertson, Andrà a ovest). O quello che vuole passare “di là dal tempo” di Montale (vedi decima coincidenza, Montale, Casa al mare).
Visto dai padri fondatori della psicanalisi, il Sé non è solo la parte in luce ma anche tratto d’Oceano vicino alla terra emersa. Quest’ultima è l’autocoscienza, l’altra è simile al bassofondo che gli olandesi hanno strappato al Mare del nord, imbrigliandolo con le loro dighe: a quell’opera Freud ha paragonato il lavoro della psicanalisi nella parte a notte dell’uomo e dell’umanità (vedi settima coincidenza, Kavafis, Candele). Della stessa cosa, vale a dire del Sé, Jung ha detto che è coincidenza di conscio e inconscio (vedi settima coincidenza, Kavafis, Candele).

P.S.
Lungo la via della conoscenza, prima di arrivare all’uscita dal mondo o dal labirinto, ho visto anch’io segnali che indicavano quella tappa. Ne riporto due che mi hanno particolarmente colpito, e un eguale effetto potrebbero produrlo in chi li legge.
Il primo: “C’è un altro che non vedo che comanda,/ come io comando a quelli che stanno sotto./ E mi comanda di assumere il comando/ perché egli è stato innalzato”.
Il secondo: “Se già osservo il vegetale e l’animale che stanno sotto/ allora potrò vedere anche l’umano/ se mi hanno detto di salire ancora”.
Questa è invece la conclusione che s’impone: Io sono uscito da me per dire di me stesso: c’è il giro completo della vita che tu puoi vedere e ripetere se vuoi. Ma ora dipende da te e non perché costretto.

I vantaggi

2 agosto 2009

I vantaggi che si acquistano arrivando alla fine del giro eterno in modo consapevole, perché inconsapevolmente sempre si giunge ma allora solo per ripeterlo ciecamente, instancabilmente. Quest’ultimo è l’eterno riandare delle piante, degli animali e dell’uomo. Ma ora quella fatica, simile alla condanna di Sisifo, per l’uomo appare terminata

Moebius, M.C. Escher

Moebius, M.C. Escher

Nel lungo titolo si parla di
“giro eterno”;
d’arrivo alla fine di esso in due modi: “inconsapevole” e “consapevole”;
e dei “vantaggi” che si “acquistano” giungendo nel secondo modo.
Innanzi tutto il giro eterno: cos’è?
Il titolo ci dice qualcosa di esso: è l’eterno riandare delle piante, degli animali e dell’uomo. Cui si può aggiungere, senza tema di esaurire l’elenco che appare interminabile, l’infaticabile girotondo dei corpi celesti, la girandola dei mesi e delle stagioni, le rotondità dei nidi continuamente mantenute e ripetute; il turbinio del vento quando è più potente; i gorghi dell’acqua quando è aspirata nel profondo.
Sono giri della natura che, come si sa, sono fatti d’apparizioni e nascondimenti, di atti e potenze, di veglia e sonno, di coscienza e inconscio.
Apparizioni e sparizioni sono la luna piena e quella nuova, la terra nelle tenebre e la stessa illuminata, il sole che sorge e il sole che tramonta. Apparizione è anche la costellazione che ritorna dal giro dell’eclittica e sparizione il suo contrario.
In potenza è l’uomo nel seme, in atto dalla nascita in poi, specialmente nell’età del fiorire, vale a dire nel mezzo del cammino della vita.  
Nella veglia, invece, c’è il manifestarsi della coscienza e nel sonno il suo sparire. In modo ancora più ampio e profondo, coscienza è la percezione complessiva che l’uomo ha di sé “del proprio corpo e delle proprie sensazioni, delle proprie idee, dei significati e dei fini delle proprie azioni”, sempre limitata, continuamente interrotta, immersa nel dubbio, in continua sospensione; e l’inconscio è il suo contrario, “vale a dire il complesso dei processi psichici che non giungono alla soglia della coscienza” ed esso appare senza fondo.
Come in natura, anche nella cultura il giro eterno ha molti nomi ed aspetti. Ne dico alcuni da portare come esempi.
Uno è l’Anno perfetto (Platone, Timeo, paragrafo trigesimo nono), lungo venticinquemilaottocento anni, come risulta dai calcoli della moderna astronomia. Dopo questo gran giro dei pianeti e delle stelle, i cieli ritorneranno al punto di partenza e tutto riprenderà nuovamente, hanno detto Anassimandro (Hyp., Refut. omn. haeres, I, 6, 1), Eraclito (Censorino, De die natali, 18), Empedocle (Fr. 17 Diels), Cicerone (Cicerone, Sulla natura degli dèi, libro II), Macrobio (Tacito, Dialogo degli oratori, 16). Anche la Storia umana, hanno aggiunto altri che sono arrivati a tanto in un’estensione della stessa idea: perché se i periodi planetari sono ciclici, lo sarà anche la storia universale – deduzione che appare difficilmente confutabile.
Un altro aspetto del giro: il farsi invisibile a poco a poco della santa dottrina del Buddha Sâkyamuni, fino alla scomparsa, ma ritornerà con un altro Buddha (secondo le profezie che risalgono all’inizio dell’era cristiana, ciò accadrà dopo venticinque secoli dall’Illuminazione di Buddha, e quando perfino i monaci “diventeranno forti soltanto nella lotta e nel rimprovero).
Infine l’ultimo in ordine di tempo, quello che ci riguarda più da vicino perché tocca direttamente l’uomo: è l’eterno ritorno del medesimo di Nietzsche, e chi ritorna da questo circolo non è più quello di prima. È il pastore che ha staccato con un morso la testa del serpente che gli era entrato in bocca (Così parlò Zarathustra – La visione e l’enigma, Adelphi, edizione Colli-Montinari); è l’uomo che si è liberato dal supplizio dell’eterno e cieco riandare.
Rispetto ai giri della natura che la stragrande maggioranza sta ancora conducendo nell’inconsapevolezza fra canti e pianti, in quelli della cultura l’uomo prospetta e progetta il suo personale ritorno. Ha detto lo stoico Nemesio: “Quando nel loro moto gli astri siano tornati allo stesso segno e alla latitudine e longitudine in cui ciascuno era al principio, accade nel corso dei tempi, una conflagrazione e distruzione totale; poi di nuovo si ritorna al principio e allo stesso ordine cosmico e di nuovo muovendosi gli astri ugualmente, ogni avvenimento accaduto nel precedente ciclo torna a ripetersi senza alcuna differenza. Vi sarà infatti di nuovo Socrate, di nuovo Platone e di nuovo ciascuno degli uomini con gli stessi amici e concittadini; le stesse cose credute e gli stessi argomenti discussi, e ogni città e villaggio e campagna ritornerà ugualmente. Questo ritorno universale si effettuerà non una sola volta ma molte volte e all’infinito” (De nat. Hom., 38). Ha detto Lucilio Vanini: “Di nuovo Achille andrà a Troia; rinasceranno le cerimonie e le religioni; la storia umana si ripete; nulla c’è adesso che non sia stato; ciò che è stato sarà; ma tutto questo in generale, non (come determina Platone) in particolare” (Lucilio Vanini, De admirandis naturae arcanis, dialogo 52). Ha detto David Hume: “Non immaginiamo la materia infinita come fece Epicuro; immaginiamola finita. Un numero finito di particelle non è suscettibile d’infinite trasposizioni; in una durata eterna, tutti gli ordini e posizioni possibili avverranno un numero infinito di volte. Questo mondo, con tutti i suoi particolari, perfino i più minuscoli, è stato elaborato e annichilato: infinitamente” (David Hume, Dialogues concerning natural religion, VIII).
Ha detto Goethe: “Il cerchio che l’umanità deve percorrere è abbastanza determinato, e nonostante la grande stasi prodotta dalle barbarie, essa ha già percorso questo cammino più di una volta. Se le si vuole inoltre attribuire un movimento a spirale, si può dire che essa ritorni sempre di nuovo nella regione già attraversata. In questo modo si ripetono tutte le opinioni vere e tutti gli errori” (Geschichte der Farbenlehre, tratto da Karl Löwith, Da Hegel a Nietzsche, Einaudi). Egli anche in altri modi ha espresso il ciclico ritornare: con le Madri del Faust che si trovano nella Galleria oscura”, che sono “il principio che produce e che conserva, dal quale si origina tutto ciò che ha vita e forma sulla superficie della terra. Ciò che cessa di vivere ritorna ad esse come natura spirituale, ed esse lo custodiscono fino a che trovi l’occasione di entrare in una nuova esistenza. […] Eterna metamorfosi dell’esistenza terrestre, del nascere e del crescere, del trasformarsi e del distruggersi…” (J.P. Eckermann, Gespräche mit Goethe, cit. pag. 385).
Fra l’arrivo inconsapevole e quello consapevole, dunque, c’è differenza grande: anch’essa è indicata nel titolo e si tratta di vedere in che consiste. Anzi è ciò che il titolo espressamente vuole che si sviluppi. Che finalmente si dica in modo chiaro e tondo a cosa è servita nella mia avventura – che è giunta alla consapevolezza dopo tanti precedenti tentativi nel Mito, nelle religioni, nei Misteri, nelle fiabe –, la fatica di uscire dal Labirinto alle prime luci dell’Alba, arrivare al Tramonto, continuare nel Buio fino alla Mezzanotte, attraversare l’Abisso per arrivare ad una nuova sponda della Luce, o rivedere la stessa in modo nuovo. Ciò che è già stato scritto, insomma, nel libro L’antica via dei Miti e dei Misteri – percorsa ora con in mano la lampada della conoscenza filosofica. Una Luce che così trovata e riscoperta è la fonte dei “vantaggi” di cui parla il titolo. Ecco, allora, che si arriva ad essi, ai loro nomi e alle idee chiare e distinte che li esprimono. 

Arrivo consapevole si ha quando, partiti da un inizio determinato ad esso si ritorna, dopo aver fatto esperienza di tutta la via. Nel mio caso, partito da un’immagine della chiesetta sperduta, apparsa come in sogno tanti anni prima, l’ho trovata come si suole dire in carne ed ossa, dopo un immane giro sulla terra e nel pensiero. Oppure, partito dall’inizio della civiltà occidentale – da Parmenide che ha aperto lo spazio dove l’Occidente si sarebbe riversato e da Erodoto che ha cominciato a raccontare quel viaggio –, sono arrivato alla sua fine che è la linea di Mezzanotte, raggiunta alcuni decenni fa da Heidegger e Jünger.

Assomigliano perciò gli arrivi consapevoli a quelli dei viaggi di qui, quando si ritorna in una città già vista, in luoghi già visitati, da parenti o persone amiche, di cui si conoscono gli indirizzi.  Perciò il percorso che unisce un’esistenza passata alla presente è simile a quello che collega un luogo della terra a un altro luogo, o a se stesso in un ritorno dopo un giro completo, per cui si può dire con Eraclito che “sulla circonferenza il principio e la fine sono insieme raccolti, sono lo stesso” (Eraclito, frammento 103 D.K.). Anche in questo caso la via è tracciata sulla terra, ma per andare per essa è necessario conoscerla. E prima ancora aver gambe e piedi per camminare, occhi per vedere, cultura per leggere piante e mappe e per cogliere i segnali e capirli. Insomma, anche per la via che collega le esistenze, per poter andare ci devono essere prima gli esistenti, le vie della natura tracciate nella terra e nei corpi, le luci che illuminano e riscaldano, come quella del sole a primavera che chiama piante e fiori ad apparire, come la luna che presiede alle nascite degli animali e degli uomini.
Oltre che visione di tutta la via, cosa accade ancora quando si raggiunge la fine ed essa è anche il punto da cui l’avventura è cominciata? Avviene la: coincidenza degli opposti. Coincidenza di Fine e Inizio, la prima e più evidente. Poi tutte le altre e fra esse quella uomo – donna. Essa appare la più vicina, perché ci sono suoi aspetti e prove anche qui, vale a dire in questo mondo di metà divise e contrapposte. Accade nell’innamoramento, quando una metà incontra l’altra metà e da segni misteriosi si riconoscono, come se fossero già state unite. Narra, infatti, il Mito che erano una cosa sola prima che Zeus li dividesse con la spada (In un Mito, citato da Platone, l’uomo e la donna erano all’inizio un solo corpo, di forma circolare, – e non due distinti e separati come sono oggi, che se si sentono uno solo soltanto nell’amore e per davvero lo sono un po’ solo quando si penetrano – capace quell’unica carne d’auto generarsi, e così potevano sfidare impunemente il tempo e la morte. Ma apparvero troppo potenti quei due così uniti al timoroso Zeus. Per tale motivo, prima che s’accorgessero della loro potenza e fossero presi dall’idea di scalare l’Olimpo, come avevano fatto i Giganti, egli li tagliò in due con la spada. Da quel lontano passato non solo l’uomo ha perso la Notte e la donna il Giorno, rimanendo l’uno e l’altra, così soli e staccati, una debole e inservibile metà, ma ognuna delle due parti separate con la forza cerca l’altra e ha pace solo se la trova. Ecco il perché della continua inquietudine e agitazione. Pressoché impossibile, però, il ritrovamento e ricongiungimento fra tanta lacerazione e dispersione; e poi, anche quando la ricerca sembra avere un approdo, non c’è mai la certezza che sia la metà originale quella che appare, perché tante si assomigliano, perché sembra soltanto che sia quella perduta. Poi la stragrande maggioranza s’accorge invece che non è così. Allora interviene mutuo bisogno, mutua stima, mutua comprensione e rimangono lo stesso assieme finché dura la vita; ma i più si dividono finché non incontrano un altro o un’altra. Soltanto molto raramente sono la metà che cercano: per lo più la nuova unione è un’altra illusione, un nuovo aspetto dell’inganno). Affermano le religioni che lo diventeranno ancora alla fine dei tempi, quando verrà il Regno dei cieli (In un frammento da un testo apocrifo, chiamato Il vangelo degli Egizi, conservato da Clemente Alessandrino è affermato che il Redentore, interrogato su quando sarebbe venuto il Suo regno, ha risposto: “Quando quei due [maschio e femmina] saranno uno solo, nell’esterno come nell’interno, e il maschio con la femmina non sarà né maschio né femmina”).
Dove il cammino finisce, naturalmente lì anche incomincia e si può riprendere il giro in modo consapevole questa volta. Oppure si può uscire perché in quel punto c’è anche “la Porta che divide i sentieri della Notte e del Giorno”, già nota a Parmenide che così l’ha chiamata, e ad altri.

Arrivo inconsapevole è, di converso, quello che lungo la via della natura e della Storia tocca ancora all’uomo. È quello d’ognuno che arriva alla luce del sole e della ragione ma senza saper come, seguendo le antiche strade che sono state costruite dalla specie d’appartenenza: in poche parole, ogni nascita. Anche il tratto fra nascita e morte è fatto di luci e ombre: veglia e sonno, conscio e inconscio. Luci ed ombre dalla nascita alla morte e tenebra prima e dopo: perciò le parole che contraddistinguono questa parte del percorso: non si sa da dove si viene e dove si va né chi è davvero colui che procede in tal modo. Da ciò inoltre la forma che quel tratto di via ha preso per i più: quella di un segmento o arco che comincia da un punto indeterminato e termina in un altro altrettanto sperduto e solo. Naturalmente, tutto questo ora è visto in un confronto, ed appare così in modo chiaro e distinto la differenza esistente tra il giro completo e una piccola parte di esso. Del primo si può dire: si sa da dove comincia, cos’è e dove conduce; e di chi lo percorre: nell’ambito del suo giro egli è un intero, sussistente in sé, immutabile e immobile nel suo centro. Sono arrivi inconsapevoli anche quelli della metempsicosi e reincarnazione, perché anche se si ricorda di essere già stati, però non si conosce la strada che ha portato di nuovo a rivedere le stelle. C’è in questo caso un aumento di visione e perciò di luce, ma essa non è sufficiente ad illuminare tutto il giro. La metempsicosi come appare finora assomiglia piuttosto ad un faro nella notte che s’appunta, attraversando le tenebre, su rive lontane della vita, aldilà dell’Abisso.

Dai lidi della California

6 marzo 2009

Walt Whitman, Dai lidi della California

Dai lidi della California, guardando verso Occidente,
investigando, infaticabilmente,
cercando ciò che non è ancora trovato.
Io fanciullo, molto vecchio, guardo lontano al di sopra delle onde,
verso la dimora della Maternità, verso il paese delle migrazioni.
Guardo lungi dai lidi del mio mare occidentale:
il circolo è ormai quasi compiuto.
Poiché, partendo dall’Indostan, dalle valli del Kashmire,
in direzione dell’Occidente, dall’Asia, dal Nord,
dal Dio, dal saggio e dall’Eroe
dal Sud, dalle fiorite penisole e dalle isole degli aromi,
sono andato errando per lungo tempo, errando intorno alla Terra.
Ora sono diretto nuovamente al ritorno in patria,
molto contento e lieto.
Ma dov’è ciò, in cerca di cui sono partito tanto tempo fa?
E perché non è ancora trovato?
Io so dì essere immortale.
Io so che quest’orbita mia non può essere misurata dal compasso del carpentiere.
E che io venga in possesso di ciò che mi appartiene, oggi,
ovvero fra diecimila o dieci milioni d’anni.
Io posso lietamente prenderlo ora o attendere egualmente lieto.
In quanto a te, o Vita, io penso che tu comprenda i resti di molte morti.
Senza dubbio io stesso sono morto diecimila volte, già.

da Foglie d’erba, Sandron, Palermo, pag. 103

Walt Whitman

Walt Whitman

L’America è l’Occidente giunto fino a quel punto, cioè fino alla terra che è stata chiamata così dal nome d’Amerigo Vespucci, il navigatore italiano che dopo Colombo comprese e dimostrò che era stato scoperto un nuovo continente a metà strada e non l’arrivo in Oriente. Sono gli italiani che in questo caso hanno portato molto avanti il cammino sulla terra. Non fino in Oriente tuttavia; esso era ancora lontano, dopo un altro oceano, e sotto molti aspetti quell’approdo non è ancora avvenuto, il cerchio non è ancora chiuso.
America perciò è la punta più avanzata dell’Occidente lungo il cammino che esso ha seguito fin dal suo apparire nella luce della conoscenza chiara e distinta, soprattutto quella filosofica, cominciato nell’antica Grecia più di venticinque secoli fa. Un cammino simile a quello del sole: da levante al tramonto.
Si tratta naturalmente dell’aspetto terreno e marino della lunga odissea, perché c’è n’è anche un altro: quello in noi, della conoscenza e volontà.
Ebbene è da quel punto avanzato che guarda Whitman, precisamente dai lidi della California. L’Europa e l’Atlantico, da cui giunse Colombo per primo, sono alle sue spalle e anche l’attraversamento del continente americano, dalle spiagge dell’Atlantico a quelle del Pacifico, ed egli si trova ora in queste ultime, con davanti il grande oceano, il più furioso a dispetto del suo nome, e solo dopo l’Oriente l’Asia.
Recita la poesia che è un “fanciullo molto vecchio” che guarda. Perché “fanciullo” e perché contemporaneamente “vecchio”? Vecchio perché è partito da tanto tempo e molto lungo è stato il cammino dalla partenza a dove ora si trova. Tuttavia è anche “fanciullo”, perché è dei piccini la meraviglia ed essa non si è mai spenta se non è ancora arrivato e continua l’attesa e il desiderio. Ma c’è anche un altro motivo più profondo e misterioso: la fine del viaggio è anche “la fonte della maternità”, e il poeta è diretto a incontrare la madre, a fondersi con lei, e quest’evento è ormai vicino perché “il circolo è ormai quasi compiuto”.
In quanto al luogo e tempo dell’inizio lo dice nei versi che seguono. Il luogo: l’Indostan, le valli del Kashmire, direzione Occidente. Dall’India, perciò, ha iniziato il suo cammino, o dall’Oriente in generale. Il tempo: tutto quello che è trascorso per arrivare fino ai lidi della California, almeno venticinque secoli perciò, o anche di più, molti di più, se non si guarda solo alla Storia ma anche a quell’immensa semioscurità che è il tempo dei miti, dei misteri e delle religioni. Così tanto perciò il tempo da avere speso la vita che possiede in quell’andare e non solo quella che sta volgendo verso la sua fine naturale, ma anche molte altre.
Che non si sia trattato di un viaggio solo terrestre ma anche ideale, mentale, si desume dagli altri punti di partenza: il Dio, il saggio, l’eroe.
Conosco anch’io bene questo percorso perché l’ho fatto dopo di lui, quindi in qualche modo aiutato anche dalle sue indicazioni e da quelle di tanti altri poeti, eroi, iniziati, sapienti, filosofi che mi hanno preceduto, e perciò non ho difficoltà a seguirlo in Terra e in Cielo.

Sulla Terra, io sono partito non dall’India ma dalla Grecia. Un po’ più avanti perciò, perché nel cammino circolare l’India viene prima della Grecia, ma ho iniziato da lì perché c’era e c’è in quel punto una pietra miliare che non potrà mai essere spostata o rimossa finché durerà la civiltà sulla Terra. È la pietra angolare che segna l’inizio dell’Occidente: soprattutto della sua filosofia, Storia, arte. Quella pietra è anche la “Porta che separa i sentieri della Notte e del Giorno”, che Parmenide ha visto e descritto e che per primo ha varcato giungendo dalla “casa della Notte”. Ai nostri giorni, Heidegger ha chiamato epoché dell’Essere il punto dove si è maggiormente manifestato e quello dove ventiquattro secoli dopo si è sempre più nascosto fino a scomparire, come il sole quando tramonta e scende sotto l’orizzonte. Perché sono simili i cammini del Sole e dell’Essere, ma il secondo si può vederlo soltanto con gli occhi della mente.

La civiltà greca appena nata è continuata poi in Occidente nella luce della Ragione la cui fonte è, appunto, l’Essere. Visto solo da Parmenide quest’ultimo e da pochi altri di quel tempo e luogo. Quasi contemporaneamente però la stessa luce è apparsa in India a Buddha che si è illuminato e ha tracciato e percorso il “sentiero” per sé e per gli altri, in Cina a Lao-tzu che ha scritto il Tao Tê Ching, in Persia a Zarathustra, in Egitto ad Ermete Trismegisto. Perciò vanno bene come inizio del viaggio anche le località nominate da Whitman.

Si dice che Lau-tzu, dopo aver terminato la sua opera, ha lasciato la Cina, rivolto a Occidente. Ha superato la frontiera e non ha più fatto ritorno.
In modo simile ma in senso inverso, anch’io, dopo aver fissato in modo chiaro e distinto la partenza dalla Grecia antica, sono poi tornato un po’ indietro ed ho trovato, appunto, i quattro sapienti non occidentali.
Dunque la partenza è avvenuta da luoghi terreni, ma anche da quelli della cultura. Una cultura che in breve tempo, soprattutto in Occidente, è passata dal Mito al Logos, dal Caos al Cosmo, dalla Preistoria alla Storia.

Buddha, Lao-tzu, Zarathustra, Ermete Trismegisto sono certamente i saggi orientali che la poesia nomina. E il Dio e l’eroe chi sono, dove sono?
In India un po’ dio è anche Buddha; la stessa cosa in Cina, Medio Oriente, Egitto per Lao-tzu, Zarathustra ed Ermete, perché quelle dottrine per molti seguaci e fedeli sono anche religioni. Così questi quattro sono stati divinizzati nelle loro patrie da molti. In Grecia, invece, dopo i sapienti sono subito giunti i filosofi, e i popoli della Grecia non hanno avuto tempo di costruire altari per i loro profeti, perché i filosofi hanno usato la luce del nuovo Giorno soprattutto nei modi della Ragione.

Mancano ancora gli eroi. Chi è eroe?
Ècolui che non ha seguito solo la via della mente e del cuore, ma anche quella terrena combattendo e affrontando l’ignoto anche con il corpo e mettendo in gioco la vita. Il primo che ho conosciuto di questo tipo è stato Gilgamesh. Per ritrovare l’amico Enkidu, che gli dèi avevano condannato a morte prematura perché temevano la forza e il coraggio dei due quando combattevano assieme, egli si mise alla sua ricerca. C’era anche un’altra necessità che lo spingeva ora che aveva visto la morte così da vicino: la paura e l’angoscia per essa; e decise di cercarla e affrontarla a viso aperto, prima che fosse lei ad aggredirlo alle spalle e all’improvviso, come aveva fatto con Enkidu.
Lungo la via della ricerca, dopo aver superato ardue prove e sopportato fatiche sovrumane, egli arrivò fino alle acque di morte, ma per riuscire ad attraversare anche quelle doveva rimanere sveglio per sei giorni e sette notti. Per sei giorni e sette notti, ininterrottamente, doveva valicare ad occhi aperti in entrata e uscita le porte fra la veglia e il sonno, o almeno non perdere mai il collegamento, e questa era la misura della difficoltà da vincere per superare le acque di morte. Di tanto è più largo e profondo l’Abisso della morte che separa due esistenze da quello del sonno che divide invece due veglie della stessa esistenza! Ma egli si addormentò fin dalla prima notte e così non ritrovò l’amico, non raggiunse l’immortalità.
Un altro eroe è stato Ulisse, specialmente quello cantato da Dante, che supera le Colonne d’Ercole con la “poppa rivolta nel mattino” e affronta l’Oceano per seguire “virtude e conoscenza”. Poi quelli cantati dal Mito e dalla poesia: che scoprono la via d’uscita dal Labirinto come Teseo, che entrano nel regno dei morti e alcuni riescono anche ad attraversarlo, come Ercole, Orfeo, Enea.
Ultimo eroe di tal genere, che non può essere lasciato fuori di questo pur brevissimo e provvisorio elenco perché è il più vicino a noi moderni, è Cristoforo Colombo, ben noto anche a Whitman che gli ha dedicato un suo canto. Colombo, come si sa, voleva “buscar” l’Oriente partendo da Occidente, dalle spiagge occidentali dell’Atlantico. Circumnavigando la Terra perciò, ma non c’era soltanto quest’aspetto fisico nella sua impresa. Egli era un seguace dell’idea di Toscanelli: un ciclo legato all’evento di una nuova età del mondo, che poteva essere realizzato percorrendo la via del sole nella notte. Verso Occidente, dunque, fino a raggiungere l’Oriente. E’ quest’ideale che Colombo adottò, un “sogno” millenario che si andava sempre più avvicinando alla “veglia”, alla “comprensione”, all’ “autocoscienza”.

Simile dunque agli erramenti attorno alla Terra di Whitman e degli eroi che l’hanno preceduto, soprattutto il viaggio di Colombo. Anche se quest’ultimo ha navigato prevalentemente sui mari della Terra ed è noto soprattutto per quest’aspetto dell’avventura. Vicine, per esempio, le tappe raggiunte dai due nel loro cammino circolare verso l’Oriente: Colombo le isole di Cuba e Haiti alle porte del continente americano e Whitman le spiagge americane sull’oceano Pacifico.

Dopo la partenza antica e il suo errare attorno alla Terra fino ai “lidi della California”, il poeta s’attende il ritorno nella Patria da cui è partito tanti anni prima. Ma dal luogo dove è arrivato essa ancora non appare. Perciò si chiede: “Dov’è ciò, in cerca di cui sono partito tanto tempo fa? E perché non è ancora trovato?”.
Al di là del Pacifico, si trova, e certamente lo sapeva. Ma c’era anche un altro Abisso ben più grande, anzi immane, che lo separava. Era la morte, ed essa appariva insuperabile.
O superabile in modo sconosciuto ma tuttavia esistente: quello dei ritorni inconsapevoli, messi in atto continuamente e infaticabilmente dalla natura. Perché anche il cammino per giungere fino a quelle spiagge il poeta non l’aveva compiuto nel corso di una sola vita e perciò era giunto più volte su questa Terra senza accorgersi, come accade dunque normalmente e pressoché generalmente. Ma ora vicino alla meta qualcosa si ridesta: il senso dell’eterno e dell’immortalità. Ed ecco la soluzione che s’affaccia: l’affidamento alla metempsicosi che è il braccio secolare dell’immortalità, perché l’Abisso non è stato ancora superato. “So di essere immortale”, egli dice, “E ch’io venga in possesso di ciò che mi appartiene, oggi,/ ovvero fra dieci mila o dieci milioni di anni./ Io posso lietamente prenderlo ora od attendere egualmente lieto.” Anche perché – ha detto Nietzsche –, come il sonno non ha tempo misurabile nei modi della veglia, così non lo ha la morte. “Tra l’ultimo istante della coscienza e il primo risplendere di una vita nuova c’è nessun tempo; l’intervallo dura quanto un fulmine, anche se non bastano a misurarlo bilioni d’anni. Dove manca un io, l’infinito può equivalere alla successione”,

Infine gli ultimi due versi che confermano il suo affidamento all’immortalità nei modi della metempsicosi: “In quanto a te, o Vita, io penso che tu comprenda i resti di molte morti./ Senza dubbio io stesso sono morto dieci mila volte, già”.
La Vita, scritta così con la maiuscola, comprende i “resti di molte morti”, come la vita che ci tocca di volta in volta su questa terra e dove si appare staccati e isolati dal grande flusso, comprende le interruzioni che sono le notti e i sonni.

P.S.
Sul piano della conoscenza ora c’è una strada che termina con un ponte che collega le esistenze fra di loro, perché dopo trentacinque secoli dal tentativo di superare le “acque di morte” compiuto da Gilgamesh, il primo che appare nella preistoria dell’Occidente, la meta è stata raggiunta. Il mio cammino circolare a quella quota ha portato alla conclusione un viaggio iniziato e perseguito da molti su altri piani: quelli del mito, dei misteri, delle religioni, della sapienza, della poesia, della filosofia, che lungo i millenni ha avuto per protagonisti personaggi divini, semidei, eroi, iniziati, mistici, poeti, sapienti, filosofi. Un viaggio che ha avuto in alcuni casi delle conclusioni in quelle dimensioni. Ci sono stati eroi che sono riusciti ad uscire dagli Inferi dopo aver compiuto là sotto imprese mitiche. Mistici che hanno superato la nube della non conoscenza e la notte oscura. Cantori, come Orfeo, che hanno ammansito le fiere infernali e commosso gli abitanti di quei luoghi senza speranza, che lo hanno lasciato passare e uscire. Sapienti che hanno visto, conosciuto e superato la Porta che separa il mondo delle apparenze da quello dell’Essere. Poeti che hanno visto e attraversato l’Inferno e hanno raggiunto il Paradiso. Insomma di risultati ce ne sono stati lungo i millenni della vita umana sulla Terra.

Tuttavia essi sono avvenuti su piani o dimensioni che non erano e non sono soltanto in mano all’uomo o affidati esclusivamente a lui. Ora invece su quello della conoscenza chiara e distinta, la cui fonte indiscussa è l’uomo. Anche la struttura che attraversa l’Abisso è un ponte costruito con la filosofia, e così si chiude il cerchio e finisce l’era storica fondata sulla ragione o prevalentemente in essa. La prima conclusione cosciente di un ciclo, sembra, da quando l’uomo è apparso sulla Terra. <!–[endif]–>

Il cerchio e la riga

1 marzo 2009

Novella Cantarutti, Senza titolo

Novella Cantarutti

Novella Cantarutti

Rotolo indietro
Nelle braccia che mi hanno sorretto
Come incavi di alberi grandi,
da madre in ava,
indietro
nel tempo senza storia
fino alla cuna d’acqua.
Avanti invece
sono soltanto righe
di muro, di ferro, d’asfalto
senza appoggio.

Può la poesia dire cose che altrimenti non arrivano alla parola, che altri linguaggi – quelli della prosa, per esempio, o della filosofia o della scienza – non sanno sollevare fino alla percezione? Sembra proprio di sì, e di tal natura è la breve poesia di Novella Cantarutti, che non ha titolo, ma che io chiamerei Il cerchio e la riga.
Non tutta la poesia però ha queste caratteristiche. Non le filastrocche, o quella delle sagre e delle cerimonie che suona familiare alle orecchie della maggior parte, e neppure la poesia che occupa posti importanti nella scala delle altezze perché canta sentimenti profondi, imprese mitiche, avvenimenti eccezionali.

Io anzi ne conosco poca di anticipatrice di mondi nuovi o di nuovi aspetti del medesimo. Quella di Hölderlin e Novalis, per esempio. Il primo ha visto e seguito gli Dèi in fuga nella notte santa, fino a smarrirsi; il secondo ha affrontato e indagato il regno della notte e morte per ritrovare la fidanzata Sophie, “dove quel petalo era volato” in giovanissima età. Oppure la poesia dei presocratici, da cui il pensiero filosofico è nato. Sapienza che ha preceduto il sapere razionale quel loro dire in versi.

Collocata la poesia di Novella nel posto che le spetta, vale a dire nel tempo e luogo che è il crinale fra passato e futuro in questo caso, provo ora a sviluppare quel che essa dice in modo molto breve ed enigmatico. Me lo consente, io credo, una lunga pratica in questo campo e poi quel mio accanirmi, durato una vita, su quelle righe diritte che stanno davanti, soprattutto su quella della vita. Quella che comincia, si sviluppa per un breve tratto o arco, e poi finisce e dopo non si sa. Con questa io ho combattuto fino a ridurla a un cerchio anch’essa. È la linea che ha un verso solo su cui, come si vedrà, la poesia s’appunta, forse per additare come la sibilla delfica che essa è il problema del nostro tempo, che ora dobbiamo risolvere per salvarci.

La poesia comincia, dunque, nel punto dove, come scia di nave che avanza, il passato si scioglie e scompare e dopo c’è il futuro. Ma “Rotolo indietro”, dice il primo verso, e pare che ci sia in esso anche una nota di rifiuto ad andare avanti. Chi può rotolare è cerchio o cosa rotonda ed è tale tutto ciò che in noi è natura: vale a dire il corpo e tante sue manifestazioni; e rotola, recita la poesia, in altre rotondità. Nelle braccia della madre, e da madre in ava sempre più indietro. Più indietro di ciò che è apparso come Storia più di venticinque secoli fa, prima di Erodoto, di Tucidide. Quanto prima?
Dove diceva Pitagora, che ricordava molte delle sue precedenti esistenze, e in una di esse anche il suo nome di allora: Euforbo, milite nella guerra di Troia e ucciso in battaglia sotto le mura di quella città da Menelao, re di Sparta.
Dove diceva Buddha, che la notte precedente l’illuminazione ha richiamato alla memoria “migliaia di vite come rivivendole e le ha collegate fra loro”.
Dove ha detto Ermete Trismegisto, nato tre volte in Egitto dove si è dedicato alla conoscenza, finché nell’ultima vita terrena si è illuminato, ha ricordato le sue precedenti esistenze, ha ricuperato il suo vero nome, e poi è salito al mondo superiore dov’è l’origine.
Fin dove Empedocle ricordava d’esser stato: “Un tempo io fui già fanciullo e fanciulla, arbusto, uccello e muto pesce che salta fuori del mare”.
O ancora più in giù? Forse si, “nel tempo senza storia”, afferma la poesia. Forse essa attinge anche alla profondità più grande, alla “cuna d’acqua” che è il grembo della madre, dell’ava, ma anche il fondo primordiale dove la vita sulla terra è cominciata quattro miliardi d’anni fa. Perché, come il sonno, il sogno, l’inconscio da cui arriva, non ha limiti di tempo e di spazio la poesia. Inoltre c’è somiglianza fra una “cuna” e l’altra, fra il primordiale grembo del mare e quello della donna. Il secondo è una specialità del primo.

Ed ora l’altra parte che chiamiamo futuro, quella delle “righe”, che ci appare come davanti e che stiamo conducendo fra pianti e canti. Non più il tondo ma il dritto. Ma cos’è questo dritto che viene dopo se dietro di noi tutto rotola; anche il sole, la terra, la luna, le stagioni, e tutto appare tondo e circolare? Cos’è quel dritto innaturale? Lo dice la poesia cos’è: “Righe/ di muro, di ferro, d’asfalto/ senza appoggio”. Cioè tecnica. E se grattiamo un po’ su quelle dure scorze, ecco che appare quel che sta prima di esse: la conoscenza umana, quella scientifica che ha dato numeri, ordine, misure. Poi, se s’insiste e si va più a fondo, appare la filosofia, appare la sapienza da cui la filosofia è nata e infine l’autore di questo mondo di conoscenza e tecnica. Si chiama Io. Ciò che s’è staccato in tanta parte dalla natura e mira ad aumentare la distanza; quello che è libero, si dice, che si conduce da sé. l’Io penso di Cartesio, ma anche quello di Kant, e poi l’Io assoluto di Fichte, Schelling, Hegel, che per loro è anche Dio.
Ma è pure la nostra povertà più grande; ce ne siamo accorti soprattutto nel secolo appena trascorso, funestato da due guerre mondiali e da campi di sterminio. Un Io che ci fa intendere la morte e ce la pone sempre davanti, ma non arriva a darci la vita oltre i limiti concessi dalla natura; un Io che ci apre all’immortalità ma essa è come un miraggio nel deserto.
Le “righe”, dunque, sono le opere dell’uomo, le conoscenze che le hanno prodotte, la concezione lineare del tempo che le accompagna, dritta come un fuso, ma “senza appoggio”. Nessun sostegno per loro come invece l’hanno i corpi celesti che circolano, ritornano al punto da dove sono partiti, coincide la fine con l’inizio e mai non cadono.
La riga è la conoscenza che abbiamo di noi stessi, che è limitata al tempo della vita, alla parte diurna di essa. Può andare anche oltre, anche a ciò che hanno escogitato gli altri in pensieri ed opere e al cammino comune compiuto in un luogo e tempo determinati. Per esempio quello degli italiani nella loro patria o assieme ad altri popoli in Occidente. Ma sempre riga rimane.

La conclusione la poesia non la dice, ma l’addita. Perché deriva dalle altre due. Se il futuro è “riga”, basta piegarla. Affinché, come dice il TAO, “allontanarsi significhi tornare”; simile a quel che ha detto Hegel: “L’andare innanzi è un tornare indietro, al fondamento, all’originario e al vero, dal quale ciò con cui si è cominciato dipende ed è, di fatto, prodotto”. Perché, come ha detto Goethe, “Più si conosce e più si sa/ tanto più si riconosce che tutto in circolo ruoterà”.
Dietro, infatti, solo così sono le righe: piegate, arcuate, a tornanti. Il cielo è concavo, i corpi celesti sono tondi, la donna è curve e circonferenze innumerevoli. E la stessa cosa sarà davanti.

Piegare la riga, torcerla, finché non ritorna dove è cominciata, questa è la soluzione del problema: cosa più facile da dire, però, che da fare. Io ci ho messo cinquant’anni per riuscirci e ho dovuto superare prove immani: uscire la Labirinto, attraversare l’Abisso, scoprire il segreto della Porta per poterla aprire, e attraversare quella soglia, e mi ha aiutato il Cielo. Ma non sarei ugualmente riuscito nel mio intento se non c’era la filosofia, tutta quanta, dalla sua Aurora avvenuta venticinque secoli fa nell’antica Grecia Fino al Tramonto del secolo scorso e alla Notte e Mezzanotte degli ultimi decenni. Fino a tal punto mi ha accompagnato la filosofia, e le ultime orme che ho seguito sono state quelle di Schopenhauer, Nietzsche, Heidegger, Freud, Jung, Jünger. Poi per il superamento dell’ultima parte, dalla Mezzanotte in poi, dove provando a scendere per poi risalire non si trova il fondo, ho fatto tutto da solo usando lo stratagemma che mi ha dato la filosofia, ponendo la traccia di quel Ponte sospeso sull’Abisso che potrebbe diventare un capolavoro della conoscenza umana.
In tal modo la riga si è incurvata, è diventata un arco e un cerchio, e “in una circonferenza fine e principio stanno assieme, sono lo stesso”.
Ma questa è una lunga storia ed io mi fermo. Dico soltanto che anche la via della conoscenza che appariva diritta, ora non lo è più. Ma questa è ancora cosa segreta e nascosta, quasi nessuno ancora la sa.