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L’inaudito di Emanuele Severino, ovvero l’attrazione del nulla

1 Maggio 2010

Qui scriviamo i canti
di una nuova era.
La filosofia ufficiale,
le nenie funebri
di quella che finisce.

 

 

Salvador Dalí, Persistenza della memoria, 1931

Non sempre Severino arriva fino alla base del suo pensiero. Perlopiù si ferma prima, a quel “inaudito” indicato ma non svolto, che per i pochi che sono riusciti a seguire la sua filosofia fino a quel punto è espresso dalla formula: “l’essente è eterno, immutabile, immobile”.
Essente
è l’uomo: ogni uomo che si vede e tocca, ma anche quelli che non s’incontrano più per le vie e le piazze della città e hanno la loro foto su una lastra in cimitero e di cui, perché si crede che le cose vengano dal nulla e nel nulla ritornano, si dice erroneamente o superficialmente che sono morti, e quelli che non abbiamo mai visto perché non sono ancora nati. I primi, infatti, per Severino sono soltanto usciti dal cerchio dell’apparire e i secondi non sono ancora entrati in esso. Inoltre, essente è anche ogni filo d’erba del prato di questa primavera e di ogni altra passata e futura, i sassi della via, ogni granello di sabbia del mare, le stelle del cielo, i bruchi che si arrampicano sui fili d’erba, la secrezione che essi lasciano spostandosi eccetera – tutto eterno, immutabile, immobile, che non è stato o sarà, ma è.
Dunque, Severino non arriva spesso fino alla formula dell’“inaudito”, che è la base di partenza, il fondamento su cui sorge la sua filosofia, ma qualche volta è successo in modo chiaro e distinto: nel libro Il muro di pietra, per esempio, uno dei tanti che ha scritto. (E. Severino, Il muro di pietra, Rizzoli, pagg. 195-196) Ecco in che modo: partendo da Proust.
Seguono le pagine 195 e 196 di quel libro, che dividiamo in tre parti, e sotto ad ognuna un commento.

Prima parte.
Nel Tempo ritrovato Proust parla degli attimi in cui ritorna il suo passato di bambino, quando a tarda sera attendeva il ritorno a casa dei genitori e a un certo punto tintinnava in giardino il campanellino del cancello. Il tintinnio e i passi dei genitori, in quegli attimi, “io li udivo ancora, li udivo proprio loro, pur situati così lontani nel passato […] Era proprio quel campanello a risuonare ancora in me, senza che io nulla potessi mutare nelle strida del suo sonaglio […] Dunque quello scampanellio vi era sempre, e con lui, fra esso e l’attimo presente, tutto quel passato indefinitamente trascorso che ignoravo di portare ancora in me”.
Quegli attimi, scrive Proust, non sono soltanto “resurrezioni del passato”, ma resurrezioni “totali” del passato, non sono “semplicemente un’eco, un duplicato d’una sensazione passata”, “ma proprio quella sensazione stessa”.

Qui si dice che si ripresenta eterno, immutabile e immobile, ciò che dovrebbe essere lontano, vago, perduto. Come sono i ricordi in genere, che poi svaniscono completamente, o diventano solo indecifrabili segni come le pietre di una via antica corrose dal tempo e dall’uso, che nessuno più sa a cosa servivano e dove conducevano. Invece a Proust si ripresentano le stesse cose di quando era bambino: non “un duplicato d’una sensazione passata, ma proprio quella sensazione stessa”.
Un’esperienza che non è toccata solo a Proust, ma anche ad altri. A Borges, per esempio, durante una passeggiata notturna, che così racconta: “Una sorta di gravitazione familiare mi guidò verso quartieri, del cui nome voglio sempre ricordarmi e che dettano reverenza al mio cuore” […] “Mi arrestai a guardare quella semplicità, Pensai, certo ad alta voce: ‘È come trent’anni fa’. Calcolai la data: un’epoca recente in altri paesi, ma già remota in questa mutevole parte del mondo. […] Il facile pensiero ‘sono nel mille ottocento e tanti’ cessò d’essere poche approssimative parole e divenne realtà profonda. Mi sentii morto, sentii che percepivo astrattamente il mondo; sentii un indefinito timore penetrato di scienza che è la luce migliore della metafisica. Non credetti, no, di aver risalito le prevedibili acque del Tempo; piuttosto sospettai d’essere in possesso del senso reticente o assente dell’inconcepibile parola eternità. Solo in seguito potei definire tale immaginazione”.
“La scrivo, ora, così: questa pura rappresentazione di fatti omogenei – notte in quiete, muro nitido, odore di provincia della madreselva, fango essenziale – non è soltanto identica a quella che si verificò in quest’angolo tanti anni fa; è, senza somiglianze né ripetizioni, la stessa. Il tempo, se possiamo intuire tale identità, è una delusione: l’indifferenza e inseparabilità di un momento del suo apparente ieri e di un altro del suo apparente oggi, bastano a disintegrarlo”
(J.L. Borges, Nuova confutazione del tempo, Mondadori, pagg. 1080-1081).
Dunque, nel corso di una vita, simili ai ricordi si ripresentano anche avvenimenti lontani nel passato che sono gli stessi della prima volta. “Resurrezioni totali”, li ha chiamati Proust. Non “poche approssimative parole” ma “realtà profonda”, ha detto Borges.

 

Seconda parte.
Dunque, il passato si ripresenta in carne ed ossa. Come son proprio le montagne, e non le loro semplici immagini, a ripresentarsi allorché le nubi che le avvolgevano si dissolvono e si allontanano. Proust avverte qualcosa d’inaudito al di là dei consueti modi di considerare il passato da parte della “nostra cultura” (sente la voce della Non-Follia). Ma poi, l’inaudito, egli lo perde subito di vista, perché se quella del passato è una “resurrezione totale”, è però, per lui, conservato soltanto nella coscienza dell’artista, cioè di un essere “destinato a morire”, a diventare un “essere che non è più”, che è annientato dall’“azione distruttrice del tempo”. “Anche per Heidegger la poesia di Hölderlin intuisce ciò che rimane, lo stabile, l’“Essere”; ma la stabilità dell’“Essere” rimane sino a che i poeti esistono: con la loro morte, anche la stabilità si annienta.”

Qui si entra decisamente nel cuore della filosofia di Severino. Bene la voce della “Non-Follia” che i poeti percepiscono, dice Severino, ma ecco il loro limite: percepiscono l’eterno, immutabile immobile ma all’interno di un di un essere “destinato a morire”, cioè solo nel corso della loro vita finché dura. Poi, seguendo invece la voce comune e generale della Follia, credono che il loro corpo finisca nel nulla. Perciò quella voce, per Severino, è solo un’eco dell’eterno, che pian piano si spegne
Ma non conosce Severino la metempsicosi? Lui non ci crede, d’accordo, ma c’è per moltissimi, anzi è la teoria più diffusa in tutti i piani della conoscenza: miti, misteri, religioni, sapienza, filosofia (vedi
Per sempre e L’infinito di Leopardi). Per molti è la più razionale teoria dell’immortalità personale. E nella metempsicosi non ci sono ritorni d’avvenimenti accaduti nel passato di una sola vita, ma in vite precedenti quella in corso, che emergono da profondità più oscure e lontane. Inoltre i pochi esempi di “resurrezione totale”, che sono avvenuti nel corso di una vita quelli di Proust e di Borges per intenderci –, sono piccola cosa rispetto agli altri.
Riporto alcuni esempi celebri, già esposti in altri post di questo blog, ma essi sono innumerevoli.

Buddha la notte precedente il Risveglio − Buddha significa lo Svegliato −, come ha scritto di lui il suo maggiore biografo Asvagosa, ha richiamato alla memoria “migliaia di vite, come rivivendole” e le ha collegate fra loro.
Ermete Trismegisto, nato tre volte in Egitto, ogni volta si è dedicato alla conoscenza, finché nell’ultima vita terrena si è illuminato, “si è ricordato delle precedenti esistenze, ha ricuperato il suo vero nome” e poi è salito al mondo superiore dov’è l’origine.
Pitagora ricordava anche il suo precedente nome: Euforbo; era un milite nella guerra di Troia e ha perso la vita in battaglia sotto quelle mura, ucciso da Menelao.
Dunque, ritorna il passato “in carne ed ossa” nel modo di Proust e Borges, ma molto più spesso in quello di Buddha, Pitagora, Ermete, e nel secondo, allora, non c’è il corpo fisico che lo chiude e limita. Non c’è il corpo che, “destinato a morire”, quando ciò avviene decreta la fine anche di quel che è avvertito e vissuto come eterno, immutabile, immobile. E come potrebbe? Come può il guscio provocare la fine della perla, il fango della miniera del diamante e il corpo della mente?
Come può ciò che per tutti perisce, fuorché per Severino, trascinare nella sua sorte l’eterno?

 

Terza parte.
“Totali resurrezioni, ma all’interno del perituro – prosegue imperterrito Severino. Totali resurrezioni, ma all’interno di una vita che è morte. Il passato, per Proust, “è sempre”, ma perdura rimanendo nascosto in uno scrigno destinato alla morte. Come ogni altra voce dell’Occidente, nemmeno Proust vede che lo scrigno, in cui il passato permane, è eterno. Il suo modo di pensare è simile a quello di chi si rallegrasse per il fatto che i passeggeri di una nave che si sa destinata a un naufragio in cui non c’è scampo per nessuno escono dalle loro cabine, dove si erano da tempo nascosti o da tempo erano stati dimenticati, e si riuniscono nella sala da pranzo (cioè nella sala della memoria). Possono solo intonarvi un canto funebre, che celebra l’effimera resurrezione del tempo che è stato ritrovato e che è destinato a essere definitivamente perduto”.

E qui scatta la differenza esistente fra Severino e tutti i personaggi che ha avuto la cultura nei millenni che ci hanno preceduto, compresi quelli dell’Oriente. Personaggi che hanno contribuito ad aumentarla e svilupparla fino ad arrivare, in Occidente e per gli autori di questo blog, alla fine della via della conoscenza iniziata venticinque secoli fa nell’antica Grecia. In questo capolinea l’eterno, immutabile, immobile, è la coincidenza di fine e inizio, ed è soprattutto il “Centro” di tal giro, dove si può portarsi e da cui tutto il movimento appare. Da cui si vede, in altre parole, tutto ciò che ruota in cielo e in terra. Come già in parte  avviene d’altronde: vediamo il sole che percorre la volta celeste, le fasi della luna, le stelle che ritornano nel cielo della notte, il giro delle stagioni… Ma ora molto di più. Ora anche l’intero cerchio della vita umana: giorno e notte assieme, conscio e inconscio assieme, vita e morte unite.
Sembrerebbe però, secondo questo mio dire, che a un tale risultato si sia arrivati, quindi ci sarebbe un “eterno” che ha avuto inizio. Ma l’inizio è coincidenza con la fine, quindi non c’è un inizio. Cos’è accaduto, allora? È accaduto che non alla vasta e numerosa specie, non all’interminabile natura, non a Dio, ma all’uomo, ciò che era sentimento, fede, intuizione, è diventata idea chiara e distinta. Ecco cos’è capitato. E la via ora c’è per lui, il suo cerchio è tutto intero, il suo centro è immobile, immutabile, eterno. Centro di ciò che gira in cielo e in terra: galassie, stelle, pianeti, stagioni, piante, animali, uomini.
Perciò la terza parte del brano andrebbe corretta così.
− Il corpo, sia esso eterno come vuole Severino, o limitato e finito come sostengono tutti gli altri, passati e presenti, non è limite e impedimento al manifestarsi delle “resurrezioni totali”, tant’è vero che possono avvenire non solo da un giorno della vita ad un altro della stessa, seppur lontano, ma anche da vita a vita.
− È eterno, immutabile, immobile, ciò che viene sperimentato come tale, vale a dire la “resurrezione totale” di Proust, “la realtà profonda” di Borges, i ricordi di vite precedenti di Buddha, Pitagora, Ermete, e per me “la chiesetta sperduta” che è riapparsa da profondità lontane e nascoste, e sono riuscito a trovare la strada che collega le due. Una strada di tempo, perciò, che sembrava non finire mai, invece è ritornata su se stessa, formando un cerchio e diventando
eterno ritorni (vedi L’antica via dei Miti e dei Misteri, percorsa ora con la lampada della conoscenza filosofica, Editrice Leonardo, Pasian di Prato, Udine). Ma chi muore nessuno l’ha più visto circolare per le vie e le piazze della città con il corpo che aveva quando li ha lasciati, neppure i parenti più stretti e gli amici più cari. O esiste solo un caso: quello di Cristo, ma anche lui, come affermano i Vangeli, dopo la resurrezione era pressoché irriconoscibile e aveva un corpo che passava attraverso i muri.
− Inoltre perché dovrebbe essere eterno, immutabile, immobile, anche l’involucro, cioè lo scrigno che contiene la perla, la terra che nasconde il diamante, il carcere che rinchiude l’anima, la mente, l’Io, il Sé?
− Va da se, inoltre che ciò viene sperimentato come eterno, immutabile, immobile, non può avere limitazioni. Non “c’è” e poi “non c’è più” solo perché il corpo finisce. Esso rimane, indipendentemente dal corpo. Così, infatti, è sempre stato. Così è e sarà.
Concludendo: non è necessario che il corpo sia eterno, immutabile, immobile, per l’eterno, immutabile, immobile, che lo abita.

 

P.S.
Non insisterei tanto con la filosofia di Severino, a confutarla, a dimostrare la sua infondatezza, se il punto più profondo dell’Abisso del nulla, da quanto mi risulta, non fosse stato toccato proprio da essa. E, arrivati a quel livello, non si esce più con le proprie gambe, perché si manifesta tutta la potenza del nascosto, tutta l’attrazione del senza fondo. Tutto e fermo e si ferma lì sotto. Tutto è bloccato, immobile, immutabile: eternamente, come similmente accade in fisica quando − dicono gli scienziati − si raggiunge lo zero assoluto.
In quel nulla vanno a finire:
− Parmenide, che secondo Severino è stato il primo nichilista perché, per lui, l’essere e non l’essente è eterno, immutabile, immobile.
− Tutta la filosofia che è nata subito dopo, da Socrate fino ai nostri giorni, perché essa è in tanta parte le vie indicate dal sapiente di Elea (vedi Lettera aperta: le cinque vie di Parmenide).
− Tutta la storia d’Occidente e anche quella dell’Oriente, fondata sulla fede che le cose escano dal nulla e nel nulla ritornino.
− La metempsicosi, perché non si ritorna con lo stesso corpo, o non è certamente necessario.
− Il divenire, perché esso è − dice Severino − “trasformazione e metamorfosi – divenire – altro, appunto. Il risultato del divenire è altro dall’inizio del divenire. Il risultato, cioè il compimento del divenire, è la situazione in cui la cosa che diviene è diventata altro da sé è altro da sé. Ma che una cosa sia altro da sé, cioè non sia ciò che essa è, non è forse il senso stesso dell’impossibile? Non è forse l’essenza stessa della follia” (E. Severino, Nascere, Rizzoli, pagg. 265-266).
− Infine il nulla stesso, perché “tutto è eterno, immutabile, immobile”.
Più nichilismo di così!
E tutto viene infaticabilmente ripetuto, ribadito, rispiegato, a chi si ostina a non capire e continua a domandare. Ma non c’è nulla da capire, c’è solo il vuoto là sotto.
“Io definisco la filosofia di Severino come espressione di una tesi che è falsa (negazione dello spessore ontologico del divenire e, quindi, del non essere e della morte) − ha detto di essa Giovanni Reale − però espressa nel modo più coerente e più perfetto. Ma con N. Gòmez Dàvile io penso che la coerenza di un discorso non è prova di verità, ma solo di coerenza” (Giovanni Reale, Corriere della Sera, 6 gennaio 2005).

Il cerchio e la riga

1 marzo 2009

Novella Cantarutti, Senza titolo

Novella Cantarutti

Novella Cantarutti

Rotolo indietro
Nelle braccia che mi hanno sorretto
Come incavi di alberi grandi,
da madre in ava,
indietro
nel tempo senza storia
fino alla cuna d’acqua.
Avanti invece
sono soltanto righe
di muro, di ferro, d’asfalto
senza appoggio.

Può la poesia dire cose che altrimenti non arrivano alla parola, che altri linguaggi – quelli della prosa, per esempio, o della filosofia o della scienza – non sanno sollevare fino alla percezione? Sembra proprio di sì, e di tal natura è la breve poesia di Novella Cantarutti, che non ha titolo, ma che io chiamerei Il cerchio e la riga.
Non tutta la poesia però ha queste caratteristiche. Non le filastrocche, o quella delle sagre e delle cerimonie che suona familiare alle orecchie della maggior parte, e neppure la poesia che occupa posti importanti nella scala delle altezze perché canta sentimenti profondi, imprese mitiche, avvenimenti eccezionali.

Io anzi ne conosco poca di anticipatrice di mondi nuovi o di nuovi aspetti del medesimo. Quella di Hölderlin e Novalis, per esempio. Il primo ha visto e seguito gli Dèi in fuga nella notte santa, fino a smarrirsi; il secondo ha affrontato e indagato il regno della notte e morte per ritrovare la fidanzata Sophie, “dove quel petalo era volato” in giovanissima età. Oppure la poesia dei presocratici, da cui il pensiero filosofico è nato. Sapienza che ha preceduto il sapere razionale quel loro dire in versi.

Collocata la poesia di Novella nel posto che le spetta, vale a dire nel tempo e luogo che è il crinale fra passato e futuro in questo caso, provo ora a sviluppare quel che essa dice in modo molto breve ed enigmatico. Me lo consente, io credo, una lunga pratica in questo campo e poi quel mio accanirmi, durato una vita, su quelle righe diritte che stanno davanti, soprattutto su quella della vita. Quella che comincia, si sviluppa per un breve tratto o arco, e poi finisce e dopo non si sa. Con questa io ho combattuto fino a ridurla a un cerchio anch’essa. È la linea che ha un verso solo su cui, come si vedrà, la poesia s’appunta, forse per additare come la sibilla delfica che essa è il problema del nostro tempo, che ora dobbiamo risolvere per salvarci.

La poesia comincia, dunque, nel punto dove, come scia di nave che avanza, il passato si scioglie e scompare e dopo c’è il futuro. Ma “Rotolo indietro”, dice il primo verso, e pare che ci sia in esso anche una nota di rifiuto ad andare avanti. Chi può rotolare è cerchio o cosa rotonda ed è tale tutto ciò che in noi è natura: vale a dire il corpo e tante sue manifestazioni; e rotola, recita la poesia, in altre rotondità. Nelle braccia della madre, e da madre in ava sempre più indietro. Più indietro di ciò che è apparso come Storia più di venticinque secoli fa, prima di Erodoto, di Tucidide. Quanto prima?
Dove diceva Pitagora, che ricordava molte delle sue precedenti esistenze, e in una di esse anche il suo nome di allora: Euforbo, milite nella guerra di Troia e ucciso in battaglia sotto le mura di quella città da Menelao, re di Sparta.
Dove diceva Buddha, che la notte precedente l’illuminazione ha richiamato alla memoria “migliaia di vite come rivivendole e le ha collegate fra loro”.
Dove ha detto Ermete Trismegisto, nato tre volte in Egitto dove si è dedicato alla conoscenza, finché nell’ultima vita terrena si è illuminato, ha ricordato le sue precedenti esistenze, ha ricuperato il suo vero nome, e poi è salito al mondo superiore dov’è l’origine.
Fin dove Empedocle ricordava d’esser stato: “Un tempo io fui già fanciullo e fanciulla, arbusto, uccello e muto pesce che salta fuori del mare”.
O ancora più in giù? Forse si, “nel tempo senza storia”, afferma la poesia. Forse essa attinge anche alla profondità più grande, alla “cuna d’acqua” che è il grembo della madre, dell’ava, ma anche il fondo primordiale dove la vita sulla terra è cominciata quattro miliardi d’anni fa. Perché, come il sonno, il sogno, l’inconscio da cui arriva, non ha limiti di tempo e di spazio la poesia. Inoltre c’è somiglianza fra una “cuna” e l’altra, fra il primordiale grembo del mare e quello della donna. Il secondo è una specialità del primo.

Ed ora l’altra parte che chiamiamo futuro, quella delle “righe”, che ci appare come davanti e che stiamo conducendo fra pianti e canti. Non più il tondo ma il dritto. Ma cos’è questo dritto che viene dopo se dietro di noi tutto rotola; anche il sole, la terra, la luna, le stagioni, e tutto appare tondo e circolare? Cos’è quel dritto innaturale? Lo dice la poesia cos’è: “Righe/ di muro, di ferro, d’asfalto/ senza appoggio”. Cioè tecnica. E se grattiamo un po’ su quelle dure scorze, ecco che appare quel che sta prima di esse: la conoscenza umana, quella scientifica che ha dato numeri, ordine, misure. Poi, se s’insiste e si va più a fondo, appare la filosofia, appare la sapienza da cui la filosofia è nata e infine l’autore di questo mondo di conoscenza e tecnica. Si chiama Io. Ciò che s’è staccato in tanta parte dalla natura e mira ad aumentare la distanza; quello che è libero, si dice, che si conduce da sé. l’Io penso di Cartesio, ma anche quello di Kant, e poi l’Io assoluto di Fichte, Schelling, Hegel, che per loro è anche Dio.
Ma è pure la nostra povertà più grande; ce ne siamo accorti soprattutto nel secolo appena trascorso, funestato da due guerre mondiali e da campi di sterminio. Un Io che ci fa intendere la morte e ce la pone sempre davanti, ma non arriva a darci la vita oltre i limiti concessi dalla natura; un Io che ci apre all’immortalità ma essa è come un miraggio nel deserto.
Le “righe”, dunque, sono le opere dell’uomo, le conoscenze che le hanno prodotte, la concezione lineare del tempo che le accompagna, dritta come un fuso, ma “senza appoggio”. Nessun sostegno per loro come invece l’hanno i corpi celesti che circolano, ritornano al punto da dove sono partiti, coincide la fine con l’inizio e mai non cadono.
La riga è la conoscenza che abbiamo di noi stessi, che è limitata al tempo della vita, alla parte diurna di essa. Può andare anche oltre, anche a ciò che hanno escogitato gli altri in pensieri ed opere e al cammino comune compiuto in un luogo e tempo determinati. Per esempio quello degli italiani nella loro patria o assieme ad altri popoli in Occidente. Ma sempre riga rimane.

La conclusione la poesia non la dice, ma l’addita. Perché deriva dalle altre due. Se il futuro è “riga”, basta piegarla. Affinché, come dice il TAO, “allontanarsi significhi tornare”; simile a quel che ha detto Hegel: “L’andare innanzi è un tornare indietro, al fondamento, all’originario e al vero, dal quale ciò con cui si è cominciato dipende ed è, di fatto, prodotto”. Perché, come ha detto Goethe, “Più si conosce e più si sa/ tanto più si riconosce che tutto in circolo ruoterà”.
Dietro, infatti, solo così sono le righe: piegate, arcuate, a tornanti. Il cielo è concavo, i corpi celesti sono tondi, la donna è curve e circonferenze innumerevoli. E la stessa cosa sarà davanti.

Piegare la riga, torcerla, finché non ritorna dove è cominciata, questa è la soluzione del problema: cosa più facile da dire, però, che da fare. Io ci ho messo cinquant’anni per riuscirci e ho dovuto superare prove immani: uscire la Labirinto, attraversare l’Abisso, scoprire il segreto della Porta per poterla aprire, e attraversare quella soglia, e mi ha aiutato il Cielo. Ma non sarei ugualmente riuscito nel mio intento se non c’era la filosofia, tutta quanta, dalla sua Aurora avvenuta venticinque secoli fa nell’antica Grecia Fino al Tramonto del secolo scorso e alla Notte e Mezzanotte degli ultimi decenni. Fino a tal punto mi ha accompagnato la filosofia, e le ultime orme che ho seguito sono state quelle di Schopenhauer, Nietzsche, Heidegger, Freud, Jung, Jünger. Poi per il superamento dell’ultima parte, dalla Mezzanotte in poi, dove provando a scendere per poi risalire non si trova il fondo, ho fatto tutto da solo usando lo stratagemma che mi ha dato la filosofia, ponendo la traccia di quel Ponte sospeso sull’Abisso che potrebbe diventare un capolavoro della conoscenza umana.
In tal modo la riga si è incurvata, è diventata un arco e un cerchio, e “in una circonferenza fine e principio stanno assieme, sono lo stesso”.
Ma questa è una lunga storia ed io mi fermo. Dico soltanto che anche la via della conoscenza che appariva diritta, ora non lo è più. Ma questa è ancora cosa segreta e nascosta, quasi nessuno ancora la sa.

Per sempre

24 febbraio 2009

Grazia Sacchi, Per sempre

grazia_sacchi

Grazia Sacchi

X & SEMPRE
Ti amerò per sempre
Più che per sempre,
al di là del tempo
e dello spazio
e quando ti rivedrò,
tra cento, mille anni
riconoscerò,
nella folla anonima,
il tuo volto
tra infiniti altri.

Tu trasformerai
il sogno in pensiero
e come vento
strapperai le mie radici
per portarmi via.

Le anime,
sole e perdute,
in un istante di luce,
s’incontreranno
ancora
trovando l’unità,
tra cento, mille anni,
in qualunque età,
di nuovo
come ora.

Grazia nella sua poesia intitolata X & SEMPRE dice che l’amore è “per sempre”. In quest’affermazione non è sola ma in numerosa compagnia: quella di chi ama e di chi s’accende d’amore, la qual cosa capita a tutti almeno una volta nella vita; ed ogni amore dice di sé che è perenne, perché così lo vuole il sentimento.
L’ho detto anch’io all’inizio della mia avventura, quella riassunta nei libretti intitolati La chiesetta sperduta e L’antica via dei Miti e dei Misteri – percorsa ora con in mano la lampada della conoscenza filosofica, ed anzi è stato per trovare quel “per sempre” e per dimostrarlo che l’ho intrapresa.

Grazia poi ci dice cosa significa “per sempre”. Significa che durerà tutta una vita e poi riprenderà in un’altra: “tra cento, mille anni”, perché questi sono tempi che non appartengono ad una sola esistenza. Tra cento o mille anni continua Grazia “riconoscerò nella folla anonima, il tuo volto tra infiniti altri”.
E qui lo scenario si apre sulla metempsicosi, dottrina diffusa in tutte le civiltà e religioni, nella sapienza, filosofia, poesia.
Faceva parte delle dottrine segrete degli antichi Egizi, l’Induismo e le altre religioni d’Oriente si basano su di essa, così pure i Misteri dell’antica Grecia, quelli d’Eleusi, di Dioniso, poi i Misteri romani del tempio, le dottrine cabalistiche segrete degli Ebrei, ed era presente anche nel Cristianesimo delle origini.
Inoltre la metempsicosi è in primo piano nella sapienza orientale e occidentale Buddha la notte precedente l’Illuminazione, come ha scritto di lui il suo maggiore biografo Asvagosa, ha richiamato alla memoria “migliaia di vite, come rivivendole” e le ha collegate fra loro. Ermete Trismegisto, nato tre volte in Egitto, ogni volta si è dedicato alla conoscenza, finché nell’ultima vita terrena si è illuminato, si è ricordato delle precedenti esistenze, ha ricuperato il suo vero nome, e poi è salito al mondo superiore dov’è l’origine. Pitagora ricordava anche il suo precedente nome: Euforbo; era un milite nella guerra di Troia e ha perso la vita in battaglia sotto quelle mura, ucciso da Menelao.
Dopo la nascita della filosofia, Platone, amanuense di Socrate il primo filosofo, l’ha così espressa: “conoscere e ricordare”, la qual cosa implica che si sia già stati. Ha fatto seguito una numerosa schiera per i quali la metempsicosi è diventata la più razionale teoria dell’immortalità personale. Ne cito alcuni: Plotino, Böhme, Swedenborg, Giordano Bruno, Campanella, tanta parte della filosofia tedesca del secolo diciannovesimo, quella di Kant, Schelling, Hegel, Schopenhauer, Lessing, Cudsworth, Hume, Mazzini.
Poi i poeti e scrittori antichi e nuovi: Virgilio, Ovidio, Walter Scott, Goethe, Poe, Charles Dickens, Walt Whitman, Borges.
Queste però sono solo alcune punte degli iceberg. Sotto di esse le innumerevoli esperienze e i ricordi di tanti meno celebri e vicini di casa, perché quasi tutti hanno incontrato persone o cose che hanno risvegliato ricordi di un passato che non credevano esistesse e che esprimono con le parole: “Ho già vissuto questo momento, ho già visto questo luogo, ho già incontrato questa persona”; soltanto che i ricordi che s’accendono nel sentimento durano poco o dopo tanto non sai più se son tuoi o strani segni che affiorano da profondità abissali.
Ma dove c’incontreremo? Grazia non specifica: c’è tutta la vastità del sentimento nella poesia, ma anche l’indeterminatezza. Nel vasto e numeroso mondo perciò se non c’è indicazione precisa, ma in tal modo la ricerca diventa difficile, faticosa, problematica. Come sempre avviene d’altronde qui sulla terra dove uomo e donna sono metà distinte e separate che si cercano instancabilmente e spesso senza mai trovarsi davvero; e quando accade si afferma che è per caso o perché l’ha voluto il Destino, ma ancora non si sa che il “caso” è soltanto l’incerto e difettoso appellativo del Destino e che con il Destino si può venire a patti.

Perciò a me, che ho volutocome dice Grazia trasformare “il sogno in pensiero”, è apparso il luogo preciso, inconfondibile, come un faro in riva all’oceano tenebroso. Quel luogo è stato la chiesetta ideale, eterna, uguale a quella di sasso e di legno esistente in un paesino del Cadore, che era dispersa quando è apparsa ma che sono riuscito a trovare dopo cinquant’anni di ricerche. Naturalmente, questo è stato e sarà il luogo per me, un ricordo d’altre vite ormai fisso nell’immutabile e perenne: il centro della ruota che gira.
La trasformazione del sogno in pensiero, vale a dire del sentimento poetico in conoscenza chiara e distinta, è avvenuto nel modo che sempre si segue quando arriva il momento di passare dal progetto all’opera, dall’idea alla sua realizzazione. In questo caso costruendo un cammino fra la chiesetta terrena e quella celeste e superando gli ostacoli esistenti fra le due.
E siccome quella apparsa non era di questo mondo, ma assomigliava ad un’idea platonica la cui patria è l’Empireo, sono dovuto uscire dalla Terra e dal Cosmo per trovarla. Raggiunto quel confine dopo molti anni, non c’era la chiesetta al di là di esso, ma cominciava un Abisso. La sua esistenza in ogni modo non è stata una sorpresa, perché se quel luogo era il ricordo di una vita precedente, fra una vita e l’altra c’è sempre la morte essa è l’Abisso. Similmente tra veglia da veglia c’è il sonno, e Hypnos e Thanathos per gli antichi erano fratelli.
Perciò ho dovuto attraversare la morte per trovare in modo stabile e sicuro il collegamento con l’altra vita e con il ricordo della chiesetta in essa contenuto e conservato, come similmente si attraversa ogni notte il sonno qui sulla Terra per unire veglia a veglia, e ci sono riuscito costruendo un ponte. Il ponte sull’Abisso l’ho chiamato.
Dopo l’Abisso, al di là di una Porta di cui ho dovuto indovinare il segreto perché s’aprisse, c’era l’arrivo, e mi sono accorto che ero giunto nello stesso punto da cui sono partito cinquant’anni prima, vale a dire alla chiesetta. A quella che era sperduta, indubbiamente, ma anche a quella di sasso e legno del paesino del Cadore, perché le due non apparivano più separate come alla partenza, ora coincidevano. Le due erano una sola. Quella celeste e l’altra, la terrestre, erano la stessa cosa. L’oggetto e il ricordo di esso o idea erano lo stesso. Fine e principio stavano assieme.

Anche per Grazia c’è coincidenza. Fra lei e l’oggetto amato in questo caso, perché l’amore che prospetta di ritrovare dopo cento, mille anni, è lo stesso che ha ispirato la poesia, e il tempo che separa uno dall’altro diventa solo una lunga attesa in questo mondo di cose divise a metà e separate, che già per molti è solo apparenza. C’è qualcosa d’eterno, insomma, in noi che il corpo porta a spasso nel mondo delle cose sensibili. La vita finora sembra sia soltanto questo: una vacanza su un pianeta che si chiama Terra, con arrivi da profondità sconosciute e partenze per destinazioni ignote. Non c’è ancora una dimora dopo la vacanza che ci accolga in modo stabile e sicuro, o non ci sono coordinate esatte per trovarla.
Arrivata alla coincidenza sull’onda del sentimento anche Grazia, come normalmente accade, non è riuscita poi a mantenere quella posizione. Le crisi, i dubbi, le retrocessioni nel mondo delle cose sensibili, i distacchi, sono anche i segni sensibili dei limiti del sentimento e delle parole di poesia che l’esprimono.

Ecco, allora, che si capisce la necessità dell’ulteriore passo in avanti, il perché della trasformazione del sentimento in conoscenza, o come dice Proust in un equivalente intellettuale. Ecco perché io ho voluto trovare il luogo che la poesia m’aveva messo di fronte: la chiesetta sperduta. Perché non mi sono accontentato di sentire che ” le anime/ sole e perdute/ in un istante di luce/ s’incontreranno/ ancora/ trovando unità”, ma ho voluto sapere dove, come, quando. E ho tracciato il cammino, costruito il ponte, aperto la porta, varcata la soglia.

Infine i versi “…e come vento/ strapperai le mie radici/ per portarmi via”, i più sorprendenti; perché le radici sono proprio i sentimenti, quelli che hanno segno che consideriamo positivo, come amore, gioia, compassione, ecc., ma anche gli altri di segno opposto: odio, tristezza, crudeltà. Insomma anche lo sradicamento, con la trasformazione del sentimento in conoscenza è previsto nella poesia di Grazia, e da essi, infatti, io mi son staccato seguendo il cammino che portava fuori del labirinto. Ma non per rimanere senza amore, per esempio, ma per raggiungere il luogo dove esso è “per sempre”, o per arrivare alla coincidenza degli opposti, che è la stessa cosa, perché ero diretto al regno dell’unità e mi lasciavo alle spalle questo qui, frammentato e disperso, dove le parti solo eccezionalmente si uniscono per sempre.

A questo punto il lettore dovrà decidere se la poesia è fantasia, per cui diventerebbe sogno di un visionario anche lo sviluppo di quei versi fino al raggiungimento della conoscenza apodittica, oppure espressione di quel che c’è di più grande in noi e previsione di un mutamento.

Nel primo caso, povera poesia! Sarebbe ciò che il volgo dice spesso di essa e dell’autore: che è un’illusione, una vana consolazione, e il poeta un “pitocco”, un “perdigiorno”. Se invece è ciò che hanno sempre pensato le anime grandi e gentili: il modo primo e privilegiato di guardare in alto dov’è la nostra vera patria, allora anche l’ulteriore sviluppo verso la conoscenza chiara e distinta diventa la via maestra da seguire fino a ciò che è “per sempre”.