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Il tempo lineare e l’eterno ritorno

19 gennaio 2010

Maurits Cornelis Escher, Rettili (1943)

Sono stato un viandante
per sentieri sconosciuti.

Ora ritorno a casa.


Premessa

Tutte le cose che compiono un giro intero, quando riappaiono anche dopo lungo tempo, sono le stesse che l’hanno iniziato.
Ritorna il sole ogni mattina, ed è lo stesso.
Dopo la falce di luna calante che ad oriente si assottiglia sempre più e poi scompare, si presenta l’altra metà ad occidente e cresce fino a diventare luna piena, ed è sempre la stessa.
Alla fine della precessione degli equinozi, un giro cosmico lungo 25760 anni solari, ritorna la costellazione che l’ha iniziato − la prossima è l’Acquario −, ed è la stessa. Uguali alle precedenti anche le altre che seguiranno quando instancabilmente le riporterà l’eterno girotondo universale.
Quando si compirà il celeste giro − ha detto Platone −, anche la Storia umana riprenderà da capo con i protagonisti di allora, che ripeteranno le stesse imprese, ed ha chiamato quel cerchio cosmico rotante Anno perfetto.
Come i pianeti e le stelle, anche le piante e gli animali che ritornano dopo un giro sono gli stessi e non altri come normalmente si crede: così hanno intuito poeti e filosofi. Per John Keats, l’usignolo che egli ha udito all’età di ventitré anni in un giardino di Hamstead è lo stesso che migliaia d’anni addietro, nei campi d’Israele, allietò con il suo canto Ruth la moabita. E per Schopenhauer il gatto che stava giocando sotto i suoi occhi era lo stesso che saltava e scherzava in quel luogo trecento anni prima.
Dunque tutti ritornano alla fine del loro giro in cielo o nella vita: pianeti, stelle, costellazioni, piante, animali, e sono gli stessi; ma c’è un’eccezione. C’è chi non sembra godere di questo privilegio ed è proprio l’uomo l’escluso, colui che invece vede o intuisce il ritorno degli altri. Di se stesso, infatti, ha detto e dice: non so da dove vengo, chi sono, dove vado. Eppure, fino ad un certo punto non è diverso dagli animali perché ha un corpo fisico simile al loro, perciò dovrebbe affermare di sé quel che ha intuito dell’usignolo e del gatto: che anche lui ritorna ed è lo stesso. Infatti, se ne parla, ma solo in generale, come membro della specie. Mentre qui è il singolo che conta e lui normalmente non sa di sé. Né ha trovato finora, quando è emerso dal nascosto, indicazioni chiare e distinte che gl’insegnassero da dove è giunto e dove va. Così è presente, di volta in volta, solo in una vita. Invece se si volgesse anche alle altre sapendo che ci sono, come fa con le veglie passate dove non basta il sonno a scollegarle, gli apparirebbe la collana d’esistenze, al cui confronto quella singola che sta vivendo è solo una perla isolata e strana. Cos’è, allora, che non permane del singolo negli eterni girotondi della vita?
È l’Io penso, la coscienza, la soggettività. Non ritorna cioè l’abitante di un corpo animale, il quale invece nei modi della specie ripete instancabilmente se stesso. Almeno fino ad oggi l’Io non è mai tornato, o meglio non ha mai percorso tutta intera la via della conoscenza a mente sveglia, essa non è mai diventata chiara e distinta per tutto il giro; perché in altri modi, come nella metempsicosi, casi ce ne sono stati di ritornanti che non hanno dimenticato completamente le passate esistenze.
La chiesetta sperduta − che sarà in seguito qui pubblicata − è il racconto del ritorno in tal modo. Afferma che per la prima volta il giro della vita umana è stato possibile compierlo per intero in modo consapevole.
Perciò questo risultato è già stato raggiunto; ma, a quanto sembra, qualcosa mancava ancora ad un tal suggello se dopo sono apparsi i segnali intitolati Il tempo e l’eternità. Mancava la dimostrazione del passaggio dal tempo all’eternità, conseguenza dell’attraversamento dell’Abisso, e le indicazioni e i loro commenti fra poco la svolgeranno.


Prima indicazione

In verità il tempo non c’è nei suoi tre modi,
vale a dire passato, presente e futuro.
Non c’è questa strada di tempo
che parte da un punto indecifrabile
e arriva ad un altro altrettanto misterioso.
C’è piuttosto il viaggiatore
che percorre una via sconosciuta,
la quale poi all’improvviso
termina sul ciglio di un abisso.
Ed è l’abisso che suggella
la forma della strada e la misura:
con un tratto già percorso, cioè il passato,
un misterioso e instancabile passaggio
ad ogni passo che è il presente,
e un altro tratto da percorrere
che si chiama futuro.

I tre modi del tempo, passato, presente e futuro, sono quelli normalmente in uso. Valgono certamente per gli uomini: siamo noi che ci muoviamo da un inizio, la nascita, e si procede verso una fine che viene sempre raggiunta anche se non si vorrebbe mai arrivare. Il tratto già percorso lo chiamiamo passato, poi c’è un continuo attraversamento e il punto dove avviene è il presente, mentre quel che ancora rimane a percorrere ha nome futuro. Il tutto per l’uomo d’oggi ha una durata media di circa ottant’anni.
Ci sono anche tragitti più lunghi, quelli delle civiltà per esempio. Si tratta di millenni in questi casi, ma anche per essi usiamo lo stesso criterio di misurazione e gli stessi nomi, e così anche per ogni altra cosa che appare, si muove e scompare in cielo e in terra: pianeti, stelle, comete, minerali, piante, animali.
Dunque, passato, presente e futuro sono i nomi e aspetti del tempo che corrispondono alla nostra attuale conoscenza ed esigenza e vengono continuamente e comunemente usati in ogni occasione e circostanza. Ma ora il cartello apparso afferma invece che non ci sono e che perciò una strada di tempo così fatta davvero non c’è. Non c’è perché era solo illusione e fantasia, e ad un certo punto è scomparsa lasciando il posto ad altro, oppure non è mai esistita?
Non c’è più, come una fiamma che si è spenta, come le impronte sulla sabbia che il mare ha cancellato, è la risposta che appare più adatta. Ma ora devo motivare questa mia scelta: perché ad essa sono arrivato dopo lungo tempo durante il quale ho aspettato senza mai intervenire in modo diretto e invadente. Perché io ormai non voglio più le cose, vale a dire non le cerco più per terre, mari e cieli, ma fermo nel punto dove inizio e fine coincidono, in questo caso dove la chiesetta celeste e quella terrestre si sono incontrate e unite, aspetto che giungano, che arrivino alla presenza. Una posizione simile o uguale a quella descritta da Marco Aurelio, Agostino, Nietzsche, Severino.
Per il primo, “Chi ha visto il presente ha visto tutte le cose: quelle che furono nell’insondabile passato, quelle che saranno nel futuro”.
Per Agostino, “Solo impropriamente si dice che i tempi sono tre, passato, presente e futuro, ma più corretto sarebbe dire che i tempi sono tre in questo senso: presente di ciò che è passato, presente di ciò che è presente e presente di ciò che è futuro. Si, questi tre sono in un certo senso nell’anima e non vedo come possano essere altrove: il presente di ciò che è passato è la memoria, di ciò che è presente la percezione, di ciò che è futuro l’aspettativa”.
Nietzsche è arrivato fin dove passato e futuro s’incontrano e coincidono e ha chiamato “Portone carraio” quel punto.
Per Severino le cose, gli uomini, le loro azioni, anche le più piccole e insignificanti, non arrivano dal nulla e finiscono nel nulla, ma come le stelle e le costellazioni appaiono e scompaiono e chi si trova nel punto adatto e nel momento propizio − il presente eterno −, le vede continuamente arrivare, apparire e scomparire.
Dunque sono arrivato alla conclusione che il tempo con i suoi tre aspetti, come l’abbiamo inteso e ancora oggi l’intendiamo, non si può dire che non è mai stato, perché anzi così è ancora per la stragrande maggioranza e in tale veste viene usato, ma più semplicemente che esso, dopo l’attraversamento dell’Abisso, la scoperta della coincidenza degli opposti e del segreto della Porta, e l’uscita dal cerchio chiuso dell’eterno ritorno, appare superato, come le mappe del cielo stellato prima delle scoperte di Galileo e Newton. Infatti, è nel punto dove passato, presente e futuro si sciolgono come neve al sole e il tempo muta in eternità, che l’indicazione è apparsa. D’altronde basta volgersi a guardare perché anche il più piccolo dubbio scompaia: l’intera via è diventata un cerchio, e in un cerchio − come ha detto Eraclito − “Il principio e la fine stanno assieme, sono lo stesso”. In altre parole non c’è più l’inizio casuale e l’arrivo quando ad altrui piace. Inoltre il cammino non è più un tratto o un arco sospesi nel nulla e non c’è una sola direzione di marcia: si può arrivare all’inizio anche tornando indietro, sostegno che si è rivelato indispensabile per la riuscita dell’attraversamento dell’Abisso, come ho raccontato ne La chiesetta sperduta, parte seconda, paragrafo 13. È di fronte a questa maggiore evidenza, all’intero che prima era nascosto e misterioso in tanta parte, che gli aspetti della via percorsa dai viventi umani che sembravano “oggettivi” hanno perso consistenza diventando sempre più vaghi e indistinti, fino a scomparire dove gli estremi s’incontrano e coincidono.
L’indicazione però, come ben si vede, non finisce qui. Dopo i primi cinque versi che nominano la “strada di tempo” − anche se per affermare che non c’è più, o che è solo illusione −, essa continua rivolta a chi quella via percorre. Per cui, allora, c’è conferma che qualcosa c’è, se non si può cancellare il viaggiatore ed egli è tale perché ha seguito un cammino. Che cosa? I versi che seguono suonano così:
“C’è piuttosto il viaggiatore/ che percorre una via misteriosa,/ la quale poi all’improvviso/ termina sul ciglio di un abisso./ Ed è l’abisso che suggella/ la forma della strada e la misura,/ con un tratto già percorso, cioè il passato,/ un misterioso e instancabile passaggio/ ad ogni passo che è il presente,/ e un altro tratto da percorrere che si chiama futuro”.
Dicono allora i versi che la strada su cui il viaggiatore si trova gli assomiglia, vale a dire ha i suoi aspetti e limiti. Ma cosa sia davvero egli non lo sa perché ne percorre solo un tratto insignificante; e soprattutto perché cessa all’improvviso e lui precipita. Una via così è perciò soltanto qualcosa che egli racconta ricavandolo dalla sua instabilità, insicurezza, precarietà.
Perciò il mio commento che in precedenza assegnava a quel cammino una qualche oggettività, ora l’indicazione sembra escluderla completamente. Per davvero non c’è una strada di tempo divisa in tre parti distinte: passato, presente e futuro; ma solo il viaggiatore che crede di procedere in tal modo come su un percorso a lui assegnato misteriosamente, ed è soprattutto l’abisso dove precipita che “suggella” in modo definitivo tale forma e misura. Si ritorna così alla sua natura di sogno, con le caratteristiche che si assegnano a quel che in tal modo appare: vacuità, misteriosità, illusorietà. Un sogno o incubo lungamente ripetuto però e da tutti i viventi, finché ha acquistato stabile dimora nella veglia e perfino nella luce della ragione, diventando misura universale di tutte le cose che albergano in cielo e in terra.


Seconda indicazione

È il viaggiatore il titolare
di quest’aspetto della via
a senso unico,
con un inizio e una fine misteriosi,
dove è gettato a sua insaputa
e tolto anche se non vuole.
Ma la terra è sferica
e gli astri ruotano nel cielo
mentre la parte cosciente del viaggiatore
s’accende e si spegne prima di un giro.

Nei primi sette versi viene ribadito quel che è già apparso nella precedente indicazione: il carattere fantasmagorico della via; quello che gli assegna il viaggiatore quando dice di essa che ha un inizio misterioso e una fine inevitabile e crudele, che il cammino che ha percorso è irrecuperabile e lo chiama passato, e quello che rimane è incerto, pericoloso, a tempo determinato, perché finisce sempre nell’abisso.
Poi però altre vie che non hanno quella precarietà e limitazioni cominciano a presentarsi. Sono quelle sulla rotonda terra che riportano sempre al punto di partenza se le si percorre fino in fondo. Se si segue il cammino tenebroso, per esempio, quello della notte o del sonno. Oppure la via delle stagioni che riporta i fiori anno dopo anno, e i percorsi circolari degli astri. È chiaro in che consiste la loro maggiore evidenza e consistenza: nella loro natura di giri interi e di ritorni eterni, che risaltano ancor di più ora che si confrontano con il cammino dell’uomo che appare illuminato solo per un breve tratto. La luce è la coscienza, ma essa − dice l’ultimo verso – “s’accende e si spegne prima di un giro”. A questo punto sembra farsi avanti la causa dell’andare misterioso e oscuro del viandante: perché non riesce ad illuminare tutto il suo cammino mentre, da spettatore, può invece vedere da fuori o dall’alto i percorsi completi delle piante, degli animali, dei pianeti e le instancabili ripetizioni. Nel suo girone perciò è un internato. Dentro il giro significa lungo il suo svolgimento, parte di esso. Quindi non l’ha percorso tutto, o meglio non l’ha visto e compreso tutto; perché in ogni caso il giro lo porta a termine e ci pensa la natura a trasportarlo dove per lui c’è solo oscurità e mistero. Il circolo c’è sempre, insomma, ma gli è noto solo il tratto che percorre ad occhi aperti e mente sveglia, quello, in altre parole, da quando viene alla luce a quando ritorna nelle tenebre. Da ciò si deduce quel che dobbiamo cercare e trovare: la rotondità della vita. La quale, come si sa dalle pagine precedenti, è stata raggiunta; ma ora è dal versante del tempo che si guarda.
La rotondità della vita − oltre che nella natura dove è giorno e notte, veglia e sonno, conscio e inconscio, vita e morte −, ha come tratto diurno anche la Storia dell’Occidente, che è iniziata con Erodoto e Tucidide, ed è giunta al Tramonto più di un secolo fa. Questo è lo svolgimento più lungo e vasto che siamo riusciti ad esprimere e segnalare, e si tratta di un percorso progettato e costruito nella luce della ragione; ma provenendo da altro, tuttavia, ed entrando in altro. Giungendo dal lato oscuro e rientrando in esso dopo un tratto di cammino. Storia perciò è un altro nome del semicerchio diurno dove il viaggiatore entra e viene tenuto acceso anche da lui. E qual è il tratto che ogni vivente illumina? Soprattutto quello che va dalla nascita alla morte dove questi due momenti sono segnati e poi quelli più importanti della sua vita e della sua opera. Ma può andare indietro seguendo la via comune e generale anche fino all’inizio della Storia, e prevedere la fine e viverla nel modo della conoscenza chiara e distinta, com’è capitato a chi scrive. Può arrivare ormai fin dove coincidono fine e inizio e anche all’uscita dall’ultimo cerchio che per alcuni è ormai prigione. Rare finora le evasioni e perlopiù dovute al caso. Questa è l’indicazione più importante che spero di lasciare in eredità.
Negli ultimi due versi è detto chiaramente chi è l’autore del racconto della via che, in modo comune e pressoché generale, finora è conosciuta solo come tratto o curva: “è la parte cosciente del viaggiatore”. È colui che vorrebbe sapere perché ci troviamo in tale stato d’indigenza e precarietà, dove siamo gettati e tolti, e nel tratto da quell’inizio a quella fine in tanti modi quasi trascinati. D’altronde costerebbe troppo il ribellarsi mettendo fine prima del tempo all’insensato procedere, perciò si accettano supinamente i comandi della natura i cui fini sono imperscrutabili, accontentandosi di quel che ci dà in cambio: ci affascina con i suoi spettacoli, ci paga con la soddisfazione dei sensi e il piacere della carne; anche se alla fine, raggiunti i suoi scopi, ci mette da parte con le malattie e la vecchiaia e poi ci elimina. Oppure la natura ci ha portato fino al campo base e lì finisce la sua opera, ma da quel punto ora il solitario può partire.
Una luce perciò molto limitata quella del viaggiatore, che illumina e misura antichi cicli da cui è uscito in epoche remote, ma non dall’ultimo dove ora si trova. Di esso è visibile soltanto un tratto, come ciò che appare nel cerchio luminoso di una lampada che il viaggiatore tiene accesa nella notte.


Terza indicazione

Se si supera l’Abisso invece tutto cambia:
si arriva nel passato passando per il futuro.
A questo punto però i nomi delle due vie
si contraddicono ed oppongono.
Come si può secondo la ragione
che afferma che il tempo procede in un verso solo
arrivare al passato dal futuro,
e come può il passato, che per noi significa
che non c’è più, essere ancora?
Sarebbero degli ex quei nomi: ex via del futuro
ex presente, ex via del passato.

Giunti a questo punto, è utile ribadire ciò che è stato posto in rilievo fin dall’inizio: che questi cartelli intitolati Il tempo e l’eternità, hanno cominciato ad apparire dopo l’attraversamento dell’Abisso e ad avventura conclusa, vale a dire dopo che la chiesetta terrestre e quella celeste sono diventate una sola, o chi ha cercato la seconda e l’ha trovata è giunto a tale grado di consapevolezza. Perciò è da una posizione dove tutto è mutato che un nuovo tempo appare ed esso ben si addice al cambiamento. Afferma, infatti, il secondo verso di questo terzo segnale: “Si arriva nel passato passando per il futuro”, e qui tutta la diversità con il tempo di prima già si rivela. Perché nel modo di prima, con il tempo disposto in quell’ordine − passato, presente, futuro −, e seguendo quella direzione obbligata, mai si può arrivare al punto di partenza, ma da esso ci si allontana sempre più, oppure il cammino s’interrompe sempre per chi continua così, o si consuma la lampada che illumina la strada.
Ma come “si arriva nel passato passando per il futuro”? Perché, procedendo in tondo, più si va avanti più si torna indietro. “Allontanarsi significa tornare” − ha detto Lao-tzu. E si giunge dove coincidono inizio e fine, dove l’uno e l’altra − come ha detto Eraclito − sono “lo stesso”.
E “lo stesso” è anche chi parte e chi arriva se riconosce il punto di partenza. Io, come ho raccontato nelle pagine precedenti, sono partito da un ricordo d’esistenze precedenti − la chiesetta sperduta in una dimensione ignota −, e sono arrivato alla stessa in questa vita dopo il superamento dell’Abisso e la scoperta del segreto della Porta. Collegando il futuro con il passato che sono aspetti illusori dello stesso, dunque, sperimentando e affermando che coincidono. Come accade ad inizio e fine, d’altronde.
Ma qui la ragione entra in crisi profonda perché le fondazioni, su cui si sono elevate la filosofia e la scienza che sono le sue espressioni più grandi, non reggono più; sotto c’è il vuoto o un terreno infido che non garantisce più nulla. Esso si chiama sogno, inconscio, abisso, morte. I nomi delle due vie “Si contraddicono ed oppongono”– dice il segnale. Infatti “Come si può secondo la ragione/ che afferma che il tempo procede in un verso solo/ arrivare al passato dal futuro,/ e come può il passato, che per noi significa/ che non c’è più, essere ancora?” Soprattutto il sommo principio di non contraddizione entra in coma profondo. Esso afferma che “Nessuno, e non solo chi è sano di mente, ma nemmeno chi è pazzo ha il coraggio di dire sul serio a se stesso, e con l’intenzione di persuadersene, che il bove è il cavallo, o che il due è uno”: con queste parole l’ha espresso Platone nel Teeteto; e Aristotele l’ha così confermato e rinvigorito: “Non è possibile che lo stesso uomo pensi che una stessa cosa sia e non sia”; e non contento ha appuntato su questo principio la più alta onorificenza, dove c’è scritto: è il più saldo di tutti. In verità però non c’è pazzia né contraddizione perché tutto funziona così nella sfera delle apparenze e continuerà in tal modo, ma c’è l’irrompere di una dimensione che prima non c’era o era sconosciuta e misteriosa, ed è al suo cospetto che la precedente sbiadisce, svanisce, e con essa il tempo che la regola e governa. Ora c’è un tempo per prima dell’Abisso e della coincidenza degli opposti e un altro per dopo il passaggio e l’arrivo. Il futuro, che ha un verso solo nel tratto percorso dall’uomo ad occhi aperti e mente sveglia e che per lui finisce, si volge invece con chi supera l’Abisso e muta nome ed aspetto. Ecco perché non si contraddicono i due termini quando vengono usati in una situazione dove inizio e fine non sono più le estremità di un tratto della via ma appare tutto il cammino, il cerchio intero della vita.


Quarta indicazione

Il tempo che ha nomi, numeri e misure
è quello della vita di un uomo,
di un popolo, di una civiltà.
Ma si tratta in ogni caso di scampoli di tempo
che compaiono nell’immutabile ed immobile.

La quarta indicazione conferma e corrobora quel che è indicato nelle precedenti: “Il tempo che ha nomi, numeri e misure/ è quello della vita di un uomo,/ di un popolo, di una civiltà”. Si tratta perciò di un tempo che corrisponde a questo mondo: mutevole, vario, colorato, numeroso. Ma quel che appare così non si sa da dove viene e dove va, e perciò neppure chi è o cos’è. Perché oltre che tempo degli uomini, popoli, civiltà, lo è anche d’ogni altra cosa e del mondo stesso, o noi lo applichiamo anche a quel totale. Un mondo che − dicono gli scienziati − è cominciato circa tredici miliardi d’anni fa, si è sviluppato fino al punto che oggi ordiniamo e misuriamo e perciò è tutto passato quel che appare; e continuerà così ancora per molto, ma poi − affermano molti – si fermerà e comincerà a contrarsi fino a raggiungere il punto di partenza. Indubbiamente una scia lunghissima questa qui, enormemente più lunga di quella della vita di un uomo e di una civiltà, e tuttavia un segno anch’essa: un apparire, svilupparsi, contrarsi, sparire, quindi uno scampolo di tempo.
Di conseguenza, anche tutto quel che appare non ha spiegazione in se stesso: perché appare dal risveglio umano, è conforme ad esso, non supera i suoi limiti. Oltre il risveglio però c’è il sonno e l’inconscio e da quella parte è situato il non apparente. Il caso è simile a quello del pellegrino che avanza nel buio ma dispone di una lampada: quando è spenta c’è solo tenebra e mistero. Quando è accesa, qualcosa si presenta: una parte della via percorsa, il posto dove si trova, qualcosa del cammino che sta seguendo. Ma quanto ne ha fatto e quanto ne rimane ancora, davvero non lo sa.
A questo punto però l’indicazione nomina qualcosa di diverso e lo pone in relazione ad esso. Afferma che quel che appare è scampolo di un totale che qui è indicato con due appellativi: immutabile ed immobile. Perciò così stanno le cose dopo l’irruzione di queste due parole. Tempo quando è passato, presente, futuro − vale a dire quando ha questi nomi ed aspetti −, anche se è lungo miliardi d’anni, è sempre un tratto, una linea, un apparente e sparente nell’immutabile ed immobile. L’immutabile ed immobile invece non ha dimensioni. È l’Essere. È la coincidenza degli opposti − così si afferma in queste pagine. È l’uscita dalle apparenze e dal tempo lineare che le misura. È il passaggio dal tempo all’eternità.


Quinta indicazione

Tempo nei tre modi conosciuti
è perciò scia di vita
che appare nell’eterno,
come quella di un aeroplano
dentro il cielo.

Quest’indicazione, suscitata da una breve e labile scia nel cielo limpido che un aeroplano lasciava dietro di se, è l’ultima di quel giorno dedicato al tempo, o in cui esso ha voluto far capolino e sorprendermi. La prima invece era apparsa il mattino lungo il viaggio d’andata, quando la strada aveva cominciato a salire ripida verso le montagne.
Mi trovavo sulla riva destra del lago alpino quando l’ho vista, quello con la diga per intenderci, che ho descritto nella prima parte del libro La chiesetta sperduta. L’avevo costeggiato fino allo chalet dove c’è anche il noleggio di barche e pedalò, e m’ero da poco volto al ritorno quando, guardando verso occidente, si è presentato ai miei occhi il bianco segno che continuamente si formava e scioglieva dietro ad un puntino nero che avanzava nell’azzurro. Quasi contemporaneamente è giunto il segnale che traduceva e interpretava quella visione, anche se il cammino era giunto a conclusione da un po’, dopo la scoperta della coincidenza delle due chiesette, quella terrena e l’altra, ricordo di vite precedenti. Perciò non erano più segnali di via questi ultimi se, appunto, essa era terminata nel punto dove gli opposti coincidono. Che cosa allora? Indicazioni di ciò che, in confronto alla prima, la nuova dimensione non è, è la risposta che si presenta per prima. Ecco, infatti, quel che essa non è.
Non è “tempo nei tre modi conosciuti”, perché esso vale per il mondo delle apparenze e misura solo aspetti che appaiono e scompaiono: il non permanente, il non apodittico − hanno detto i sapienti.
Non è tratto o linea, “come quella di un aeroplano/ dentro il cielo”, o come il cammino che percorre l’uomo dalla nascita alla morte; ma è il cielo ed è la vita. Quando la via s’è fatta ininterrotta perché l’abisso è stato superato, e dopo che è avvenuta la coincidenza di fine e inizio e i due – come ha detto Lao-tzu – si danno nascita fra loro, allora il passato, il presente e il futuro, sono diventati aspetti della precarietà di prima e della fine sempre inevitabile; in altre parole della scia dell’aeroplano dentro il cielo e del breve tratto di cammino dell’uomo nella luce del sole e della coscienza. Ed è cominciata la trasformazione. Non c’è, dunque, un tratto di via, ma solo la nostra esperienza e conoscenza di un tratto di via, quel faro di luce che normalmente c’è dato di tenere acceso su qualcosa di ben più grande, il quale appare soltanto se si riesce a superare l’Abisso, completare il cerchio, uscire dalla Porta.
Di fronte a questi aspetti parziali e limitati, vale a dire alla sola apparenza, c’è una parola che dice quel che c’è dopo. C’è l’eterno, vale a dire l’Essere. In conclusione, è nell’Essere che la coincidenza delle due chiesette è avvenuta.
Tuttavia il tempo di prima c’è ancora, perché siamo anche corpi, simile a quelli degli altri animali e come loro soggetti alla natura, perciò con inizio e fine. Inoltre perché siamo in visita a quest’aspetto della vita, che chiamiamo mondo, universo, come bambini portati al Luna Park, e si piange per entrare e poi anche quando si esce, e per entrare e uscire indossiamo dei corpi. Infine perché lo raccontiamo il nostro viaggio, per lasciare segni per chi verrà a darci il cambio, e le pietre incise, i marmi lavorati, le pagine scritte, non sono illimitate. Perciò c’è coesistenza in noi dei due modi del tempo e ci sarà finché saremo così, corpo e mente, materia e spirito.
Però che non ci sia soltanto il tempo diviso in passato, presente e futuro dopo il raggiungimento della coincidenza degli opposti e l’uscita dal cerchio della natura, ormai è idea chiara e distinta. Dopo c’è anche l’altro, quello che le indicazioni in esame presentano, ed esso ha nome eternità. Io li vivo e vedo entrambi perché sono in me, presenti contemporaneamente. Quello precedente continua a svolgersi inanellando giorni che consegna al passato, ricavandoli dagli instancabili giri del sole, dalle fasi della luna, dall’alternarsi delle stagioni. E poi c’è un punto fisso nel più profondo, immutabile, inestinguibile, da quando, dopo un’avventura immane, ho ritrovato la chiesetta che era sperduta. Lì non c’è scorrere di tempo; è come il centro nel giro della vita, come un faro sempre acceso nelle tenebre che volge la sua luce tutt’intorno. E io in questo scorcio della mia esistenza vivo con due tempi addosso, con quello di prima e con quest’ultimo nel cuore e nella mente, dopo che il Destino me l’ha fatto ritrovare.

Enrico Suso, Un mistico

31 ottobre 2009

Enrico Suso, Libretto delle verità

Suso

Enrico Suso

Finché l’uomo non comprende due contraria,
cioè due cose contrarie congiuntamente in una,
in verità, senza alcun dubbio,
non è molto facile parlare con lui di tali cose
(cioè del molteplice che è nell’Uno, eppure resta molteplice),
perché quando comprende ciò,
allora soltanto ha percorso la metà
del cammino della vita che io intendo.

Nel circolo della conoscenza, che sono riuscito a tracciare dopo un camino nella natura e nella cultura durato cinquant’anni, la coincidenza degli opposti si trova al di là del Ponte che attraversa l’Abisso, sull’altra riva. Essa è anche il punto dove finisce la Notte e l’esile chiarore dell’Alba comincia ad apparire (là c’è anche la “Porta che divide i sentieri del Giorno e della Notte” vista e raccontata da Parmenide, quella che è riuscito a superare con il favore della dea che la sorvegliava, e a entrare nel Giorno; e non poteva essere altrimenti, perché uno solo è il giro della vita e muta soltanto il nostro modo di vedere e di sapere).
Enrico Suso però non ha seguito la via della conoscenza, ma quella mistica, perché è un mistico tedesco del quattordicesimo secolo o in tale contesto viene prevalentemente collocato; perciò ha proceduto per la seconda. In essa l’Abisso ha anche altri nomi: caligine, nube della non conoscenza, notte oscura, dotta ignoranza, notte dell’anima.
Con quale nome e aspetto si è presentato a Suso non lo so, ma leggendo le sue opere si potrà ricavare. Che sia giunto da lì però è indubbio, perché c’è sempre quella prova da sostenere e cammino da percorrere prima di arrivare alla coincidenza degli opposti. Lo attestano anche altri esempi di mistici il cui percorso invece lo conosco un po’ di più. Dalla notte oscura è arrivato Giovanni della croce, dalla nube della non conoscenza Riccardo di San Vittore e Pseudo Dionigi, dalla notte dell’anima Angela da Foligno, “nella caligine di una nube” Mosè ha incontrato Dio. Dunque, è sempre alla fine dell’oscurità e inizio della luce che la coincidenza avviene.
Che cosa avviene?
Due cose contrarie si congiungono in una, dice il secondo verso del pensiero poetico di Enrico Suso e si comprende che il molteplice è nell’Uno, eppure resta molteplice (Non diversamente da Enrico Suso, Angelo Silesio, contemporaneo di Suso, così ha espresso la stessa esperienza: “Non ottiene l’uomo perfetta beatitudine/ Se l’unità non ha inghiottito l’alterità”).
Ecco l’importante: comprendere. Non si afferma che le cose non sono nell’Uno perché lì sempre si trovano e non potrebbero esistere altrimenti, ma che si arriva a comprendere quest’essenziale verità quando si supera l’Abisso; e comprenderla significa aderire ad essa, perciò non-essere ed essere nello stesso tempo, recitare la propria parte e amare Dio, come dice un’indicazione che ho visto sulla via della conoscenza, dopo l’uscita dal labirinto (Così diceva quell’indicazione: “Io mi trovo a sapere delle Cose,/ delle loro forme, limitazioni, tempi, colorazioni, come accade e perché, / che cosa cade perché resti la Cosa./ E si sa quando Cosa s’aggiunge a ciò che in fondo giace./ Ecco che Cosa mi dà pace: essere e non – essere,/ essere già stato e aver dimenticato,/ essere un tutto e vedermi breve,/ recitare la mia parte e amare Iddio”).
Oltre che coincidenza degli opposti, l’unione del singolo con il tutto si chiama anche estasi, il cui significato originario è entrare in Dio – èkstasi.

Altre esperienze nella mistica, simili a quella di Suso, suonano così.
Ha detto Caterina da Genova: “Ma l’amor puro e netto non può dire voler da Dio alcuna cosa (per buona che esser possa) la quale abbia nome di partecipazione; perché vuole esso Dio, tutto, puro, netto, e grande, siccome è: e quando gliene mancasse un minimo puntino, non si potrebbe contentare, anzi gli parria esser nell’inferno. E perciò dico ch’io non voglio amor creato, cioè amore che gustar si possa, né intendere, né dilettare: non voglio, dico, amore che passi per mezzo dell’intelletto, della memoria, della volontà; perché l’amor puro passa tutte queste cose, e le trascende, dicendo: Io non mi quieterò fino a tanto che io sia serrato e rinchiuso in quel divino petto, dove si perdono tutte le forme create, e così perdute restano poi divine: né altramente si può quietare il puro, vero, e netto amore. Onde ho deliberato, mentre ch’io viverò dir sempre al Mondo: Di fuori fa di me tutto quello che vuoi; ma nell’intrinseco lasciami stare: perché non posso, né voglio, né vorrei poter voler occuparlo se non in esso Dio, il quale se l’ha preso, e serratosegli dentro talmente, che non vuole aprire ad alcuno. Per l’alienazione in che mi truovo delle cose corporali, non le posso sopportare. Per lo che parmi di non esser più di questo mondo, non potendo come gli altri far l’opere del mondo: anzi ogni operazione che vedo fare dagli altri, mi dà noia, perché non opero com’essi né com’ero usata. Sentomi tutta alienata dalle cose terrene, e massime dalle mie proprie; che sol’in vederle con gli occhi, non le posso più sopportare: e dico ad ogni cosa, lasciatemi stare; perché non posso più aver cura né memoria di voi, come se per me non foste. Non posso lavorare, né andare, né stare, né ancor parlare: ma vedomi una cosa inutile, e superflua al mondo: Molti sono che si meravigliano, e per non intendere la causa si scandalizzano: e veramente, se non fosse che Dio mi provvede, alcuna volta dal mondo io sarei tenuta pazza; e questo è perché quasi sempre fuor di me stessa vivo”.

Ha detto Angela da Foligno: “Poi vidi Dio in una tenebra, e per questo in una tenebra, perché egli è un bene più grande di quanto si possa pensare o capire, al quale nulla che possa essere pensato o capito riesce ad accostarsi. E poiché quel bene è nella tenebra, esso è tanto più certo e superiore a tutte le cose tanto più lo si contempla nella tenebra ed è oltremodo nascosto. E in seguito io vedo nella tenebra che esso è superiore a tutti i possibili altri beni e che ogni altra cosa al suo cospetto si fa opaca e che tutto quello che si può pensare è inferiore a questo bene”.

Ha detto Janne-Maire Bouvier: “Al principio della nuova vita, vidi chiaramente che l’anima era unita al suo Dio, senza mezzi né cose in mezzo; ma ancora non era del tutto perduta. In lui si perdeva ogni giorno, come si vede di un fiume, che si perde nell’oceano, versarsi nel mare e poi sciogliersi in esso, ma in modo che il fiume si distingue dal mare ancora per un po’, finché alla fine, ma solo per gradi, si muta nel mare stesso, che rendendolo partecipe a poco a poco delle sue qualità, lo converte a tal punto in sé da far si che da ultimo non ci sia più nient’altro che un unico mare”.

Ha detto Anna Kaharina Emmerch: “Da alcuni giorni oscillo di continuo tra visione sensibile e visione soprannaturale. Mi devo fare molto coraggio, perché, nel bel mezzo di un discorso con gli altri, vedo contemporaneamente davanti a me altre cose e altre immagini, e poi ascolto le mie parole, nonché quelle del mio interlocutore, come se provenissero da un recipiente cavo, tetro e grossolano. Io mi sento come se fossi ubriaca e stessi per crollare. Le parole che rivolgo alle persone che parlano con me escono pacatamente dalle mie labbra e sono spesso più vivaci del solito, senza che io sappia quello che ho detto, benché mi esprima con estrema coerenza. Devo mantenermi in questo doppio stato, ma non ci riesco se non con fatica. Vedo ciò che mi sta di fronte con gli occhi spenti, come uno che dorma e che stia cominciando a sognare. La seconda visione mi trascina a sé con violenza ed è più nitida della visione naturale; ma non avviene per il tramite degli occhi”.

Ha detto Ramakrishna: “A volte facevo in modo d’andare nella stanza dei domestici e di quelli che spazzavano il pavimento per poterlo lavare con le mie mani, e intanto pregavo: “Madre! Annienta in me ogni idea ch’io sia grande e brahmano, e che essi siano inferiori e paria, perché che altro sono loro, se non tu, sotto molteplici forme?” E ancora: La conoscenza di Dio può essere paragonata ad un uomo, l’amore di Dio ad una donna. La conoscenza accede soltanto alle sfere esterne di Dio, mentre nessuno può entrare nei profondi misteri divini se non come amante, perché per lui, come per la donna, si aprono le stanze più segrete”.

Ha detto Simeone il nuovo teologo: “Dimoro in te come il profumo nella rosa. Dimoro in te come il nitore nel giglio. Io, nobile frutto, sono sbocciato da te”.

Ha detto un grande mistico sufi: “Io e il mio amato siamo una cosa sola”.

Su un gradino più alto i cristiani collocano Gesù che ha detto: “Io e il Padre siamo una cosa sola”, e per aver pronunciato queste parole è stato crocefisso.

Ora la parola alla filosofia dal punto dove è giunta da poco, quello sull’altra sponda dell’Abisso.
Dunque, a loro modo, i mistici hanno superato l’Abisso e sono giunti al punto dove gli opposti coincidono. Poi ad esso è arrivata anche la filosofia.
Ventiquattro secoli ha impiegato per toccare la sponda di qua dell’immensa voragine, quella che corrisponde alla linea di Mezzanotte (vedi anche le precedenti Coincidenze: n. 5, n. 6, n. 8, n. 12), poi ci sono voluti cinquant’anni a me per arrivare dall’altra parte. Non è un vanto questo mio ma ciò che ha voluto il Destino. L’ho detto in altre occasioni e lo ripeto, poi si commenti quanto si vuole e come si vuole. Ciò che qui conta è che alle altre vie esistenti ora si aggiunge quella della filosofia al completo. Che ci fosse anche prima, ben si sa, perché ha tutti quegli anni di vita e certe previsioni e tentativi c’erano già: uno dei più importanti quello di Nicolò Cusano. E c’era soprattutto la sapienza dalla quale la filosofia è nata e a cui è tornata, perciò si è trattato fondamentalmente di un ritorno a casa, dopo un immane giro per sapere dov’è la casa, per scoprire e fissare le sue coordinate per sempre.
Partenza, percorso e arrivo sono segnati nel libretto intitolato La via dei Miti e dei Misteri…, perciò chi vuol coglierla tutta intera deve volgersi ad esso. Qui invece vorrei soffermarmi sugli aspetti filosofici apparsi già lungo il cammino e che una volta affrontati e superati l’hanno aperto fino alla meta. Essi sono il superamento della logica platonica e aristotelica in auge da quel lontano passato e la previsione e anticipazione della coincidenza degli opposti.

Per arrivare alla comprensione della coincidenza degli opposti, vale a dire di “due cose contrarie congiuntamente in una”, si doveva abbattere il granitico piedistallo su cui il “principio di non contraddizione” si elevava, privandolo così del suo valore apodittico e della sua validità universale. Non eliminarlo, cosa impossibile d’altronde, perché esso è certamente valido nel mondo delle metà distinte e separate, vale a dire in questo dove noi siamo ancora prevalentemente immersi. Dice quel principio che “Nessuno, e non solo chi è sano di mente, ma nemmeno chi è pazzo ha il coraggio di dire sul serio a se stesso, e con l’intenzione di persuadersene, che il bove è il cavallo, o che il due è uno”. Così l’ha formulato Platone nel Teeteto e Aristotele l’ha confermato e rinvigorito con queste parole: “Non è possibile che lo stesso uomo pensi che una stessa cosa sia e non sia” (Aristotele, Libro IV della metafisica). E non contento gli ha concesso la più alta onorificenza, dove c’è scritto: “è il più saldo di tutti”.
Da allora logica e ragione, vale a dire il braccio e la mente, sono andate a braccetto e nessuno ha più osato attaccarle, fuorché i mistici. Che hanno detto in coro e ripetuto che la Luce è anche Tenebra e la Tenebra è anche Luce; che le due stanno assieme indissolubilmente. Certo, essi non si riferiscono alle cose del mondo come normalmente appaiono, ma come si mostrano dopo, dove il principio di non contraddizione non ha più il potere assoluto. Se non vale più così tanto e non dappertutto, allora non c’è il bove e il cavallo sempre così distinti e separati come prima apparivano, non c’è l’uno e il due, e poi il tre, il quattro, il cinque, e poi la terra, la luna, le stelle, le rose, gli uomini: c’è il tutto in una volta. Perché hanno varcato l’ultima soglia della rappresentazione umana come viene ancora vissuta, scritta e raccontata, e si sono avventurati aldilà. In Occidente sono ancora eccezioni, ma poi si è giunti al Tramonto e anche dal piedistallo della filosofia si è cominciato a vedere che dal Giorno che finisce comincia la Notte, come venticinque secoli prima da essa era sorto il Giorno, e che i due si danno origine fra loro.

L’attacco al principio di non contraddizione è stato condotto da molti. Da Nicolò Cusano che in difesa della sua dottrina contro le critiche ad essa rivolte ha detto: “La coincidenza degli opposti vale per l’intelletto ma non per la comune razionalità discorsiva, che resta ancorata all’aristotelico principio di non contraddizione”. Da Hegel, che considerava il mistico l’unità concreta di quelle determinazioni che per l’intelligenza finita valgono solo nella loro separatezza e contrapposizione. Da Kant che ha sancito i limiti di una ragione che sembrava onnipotente ma che in realtà ha confini precisi, liberando così le altre facoltà della mente da quella prigione, anche se dorata. Da Schophenauer, il primo cui suonò evidente che la raggiunta consapevolezza dei limiti della ragione ha spianato la via al gran “salto oltre la ragione”: al ponte si potrebbe dire ora. Poi da Nietzsche, Leopardi, Freud, Jung, Dewey, Wittgenstein, Heidegger, Dostoevskij, e dalle correnti più avanzate della fisica e della matematica (“A partire dagli inizi del secolo scorso questo principio è andato incontro alle critiche più radicali, da Leopardi a Nietzsche a Freud, Dewey, Wittgenstein, Heidegger; da Dostoevskij a certe diffuse interpretazioni della dialettica hegeliana e del marxismo, alle ricerche sulla mentalità primitiva, sul mito, sull’arte; da certe interpretazioni della fisica quantistica e del principio di indeterminazione all’intuizionismo matematico e alle logiche non aristoteliche, e alle loro applicazioni non solo all’ambito delle scienze naturali, ma anche a quello delle scienze sociali”, Emanuele Severino, Pensieri sul cristianesimo). Dopo di ciò, anche l’ultimo tratto, il più arduo e misterioso, poteva essere superato. Ma io allora non conoscevo l’opera dei miei predecessori. L’ho appresa molto più tardi, ad avventura conclusa. Ciò significa che, come ha scritto Hegel, la civetta di Minerva – la sapienza – “arriva sempre al tramonto, quando tutto è avvenuto, e ad essa resta solo il compito di capire com’è avvenuto e che senso ha”.

Superata la barriera costituita dal principio di non contraddizione, la via s’è aperta per la continuazione verso la coincidenza degli opposti.
La prima esperienza di essa in campo filosofico è stata vissuta, mi sembra, da Nicolò da Cusa, chiamato anche il Cusano. Così l’ha raccontata lui stesso. “Mi trovavo per mare di ritorno dalla Grecia, e fu allora che, per dono divino (il più alto, credo, che abbia ricevuto da Dio), sono stato guidato fino ad afferrare le verità più incomprensibili in modo incomprensibile nella dotta ignoranza, mediante il superamento della conoscenza umana delle verità incorruttibili. Cosicché in Dio medesimo che è la verità, questa dottrina è stata sviluppata nei tre libri presenti che possono essere accorciati o allungati partendo dal medesimo principio” (Nicolò Cusano, La dotta ignoranza, Città Nuova 1991, pag. 199).
La dotta ignoranza è, appunto, conoscenza dal confine fra il noto e l’ignoto, fra il visibile e l’invisibile. Ignoranza perché da quel limite che appare impenetrabile, non è dato di sapere cosa c’è oltre. Però dotta, perché si arriva fino al limite del noto, vale a dire di questo mondo duplice e molteplice, che per i più costituisce tutta la conoscenza possibile. Quel confine il filosofo l’ha chiamato anche il muro del paradiso e Dio è dall’altra parte.
In questa prima esperienza di Nicolò da Cusa la via filosofica è ancora intrecciata e confusa con quella religiosa e la comprensione di essa è apparsa anche al suo autore più un dono di Dio che un risultato del pensiero. Inoltre perché il Cusano era un sacerdote e perché egli si richiama continuamente alle fonti dei mistici medievali, specialmente, agli scritti Eckhart e dello Pseudo Dionigi, sembra che la sua dottrina rinnovi solo pensieri che appartengono a quel patrimonio. Ma la collocazione dominante è l’altra, e la dottrina della dotta ignoranza diventerà sempre più patrimonio della conoscenza umana e si allungherà, dopo l’abbattimento delle barriere razionali, fino ad oltre l’Abisso.
Oltre la porta del Paradiso raggiunta dal Cusano.

Ora la seconda parte del percorso di Suso.
Dopo aver detto che non è facile parlare del “molteplice che è nell’Uno, eppure resta molteplice” “finché l’uomo non comprende due contraria”, Enrico Suso così continua: solo dopo che ha compreso ciò egli si trova a metà del cammino che io intendo. Ma non è invece l’arrivo? Così, infatti, ho anch’io spesso affermato: la coincidenza è la fine che incontra il suo inizio.
Fine del ciclo però, ritorno a casa. Ma poi Ulisse non è ripartito per l’avventura celeste (vedi undicesima coincidenza)? Ed io non ho detto che c’è la Porta di cui si possiedono le chiavi? E si può continuare nella consapevolezza ciò che qui si compie in tanta parte al buio, ma dalla Porta aperta si può anche passare sulla “via maestra” diretti all’Essere, dove “il molteplice e nell’Uno, eppure resta molteplice”. Ecco cos’altro c’è da svolgere, allora: aspetti che ho già trattati nel libro L’antica via dei Miti e dei Misteri
Perciò Suso non pone fine al suo dire a coincidenza raggiunta, ma – egli dice – a questo punto siamo soltanto a metà del cammino. Perché davanti c’è ancora per lui la via del Paradiso e Dio; per la filosofia, la strada maestra e l’Essere, quella seguita da Parmenide quando è giunto davanti alla Porta e dopo che s’è aperta (vedi il suo poemetto Sulla Natura, frammento 1).

P.S.
Come abbiamo già visto in altre occasioni, la base di partenza di tutte le coincidenze cui si arriva percorrendo le vie sopra indicate – la mistica e la filosofica ma, com’è già apparso nelle pagine precedenti, ci sono anche quelle del mito, dei misteri, della poesia -, è la natura con i suoi metodi.
Come natura, il nostro inizio, che condividiamo con tutti i viventi che abitano la terra, il mare, e il cielo, è la coincidenza di uno spermatozoo con la cellula femminile. E’ avvenuta nel grembo materno, dopo un’immensa avventura del seme maschile che va dal momento della sua emissione fino alla penetrazione e fusione. Perché uno solo arrivasse e fosse accolto, sono partiti in duecento milioni. Gli altri si sono perduti lungo vie labirintiche e impervie, o sono stati ingoiati dai leucociti, travolti dai flussi liquidi, imprigionati fino alla fine della loro effimera esistenza dalle ciglia vibratili delle mucose, sprofondati in solchi e voragini. Infine l’arrivo di uno solo, dell’eroe o del più fortunato, la coincidenza, l’inizio di una vita e il suo sviluppo fino all’uscita nella luce del sole. Per l’uomo anche in quella della mente. Ciò, dunque, a livello microscopico e in quanto siamo anche natura, anzi ancora prevalentemente così, è la prima coincidenza che ci riguarda da vicino, che avviene nel nascosto e nel segreto e che soltanto da pochi decenni siamo riusciti a vedere, seguire e decifrare guardandola da fuori e dall’alto.
A livello macroscopico, le due cose contrarie che si congiungono in una sono invece l’uomo e a donna; e questa seconda coincidenza sta a fondamento non solo della natura che continua a questo livello, ma anche di qualcosa di nuovo che si chiama cultura. E nella cultura i libri sacri e profani, con i nomi, le date, le storie dei grandi amori. Così prosegue nell’aperto del sole e della mente, seguendo le vie del mito, dei misteri, della religione, della poesia, ciò che è cominciato nel nascosto e nel segreto.
Infine quest’ultima strada, la più nuova: quella della conoscenza chiara e distinta.

Pascoli, il mare, il ponte

18 ottobre 2009

Giovanni Pascoli, Mare

M’affaccio alla finestra e vedo il mare:
vanno le stelle, tremolano l’onde.
Vedo stelle passare, onde passare:
un guizzo chiama, un palpito risponde.
Ecco sospira l’acqua, alita il vento:
sul mare è apparso un bel ponte d’argento.
Ponte gettato sui laghi sereni,
per chi dunque sei fatto e dove meni?

Emil Nolde, Crucifixion (1912)

Emil Nolde, Crucifixion (1912)


Una bella poesuola, mi son detto, quando l’ho letta la prima volta. Così carina e semplice che merita di essere ricordata e ripetuta, e in breve l’ho imparata a memoria. Da allora non è più uscita dalla mente, ma giaceva nel profondo, perché per molti anni non l’ho più vista e sentita. Infatti, ero tanto giovane allora, forse studente della scuola media o delle elementari. O forse non l’ho neppure letta a scuola ma in una delle mie peregrinazioni sui libri di poesia. Leggevo e quel che mi colpiva l’imparavo. Allora sembrava per gioco, oggi c’è qualcosa di più. Ora Mare entra nel novero delle Coincidenze.
Per via del ponte misterioso?
È quello che attira di più certamente e mi da modo di aprire sull’argomento ponte, che è una delle strutture più importanti della via della conoscenza. Senza il ponte, il cammino non poteva continuare, l’Abisso non sarebbe stato attraversato. Il viaggio si sarebbe fermato sulla linea di Mezzanotte, come, di fatto, è accaduto a tutti quelli che lungo la filosofia, seguendo i filosofi del Tramonto e della Notte da Schopenhauer in poi, sono arrivati fin lì, ma ancora non sanno che una struttura di tal genere ora esiste anche in tal campo. Si tratta solo di una corda che collega le due sponde, quella che portavo con me e che mi è riuscito a lasciar pendere alle mie spalle nel lavoro d’attraversamento dell’Abisso che ho compiuto.
È la prima volta, dunque, che un tal ponte viene qui gettato, ma esso esisteva già in altri campi. Ne ricordo alcuni.
Nelle religioni che fanno capo alla Bibbia, il ponte fra l’uomo e Dio lo ha posto Dio stesso. Il suo aspetto sensibile è l’arcobaleno: “Io porrò il mio arco nelle nubi, e sarà come segno dell’alleanza fra me e la terra”.
In molti rituali e nelle mitologie iniziatiche e funerarie sono numerose le immagini del ponte, che implicano l’idea di un passaggio pericoloso, a volte di una liana che oscilla sotto il passo.
Le leggende medievali parlano di ponti nascosti nell’acqua, o sottili e taglienti come il filo di una spada, che il cavaliere doveva attraversare per riuscire a compiere l’impresa cui era stato destinato.
Un ponte esiste anche in natura, e non poteva essere altrimenti se essa è l’origine di ciò che è venuto dopo, e dopo c’è tutta la cultura. Si chiama ponte di Varòlio dal nome del suo scopritore, è formato da circa trecento milioni di fibre nervose, ed è la via di collegamento dei due emisferi del cervello che hanno funzioni diverse, e in tal modo raggiungono la coincidenza (L’emisfero sinistro è molto più competente del destro nel linguaggio e nella logica; il destro ha una parte molto maggiore in abilità spaziali e nel pensiero “gestaltico”. Noi abbiamo linguaggio, arte, ispirazione, mantenuti separati dagli abissi enormi esistenti fra i due emisferi e collegati fra loro da un ponte dalla campata immensa. Se a questo punto si riflette sul fatto che gli uomini hanno maggiore attitudini per il linguaggio e la logica, e le donne per ciò che compete all’altra metà del cervello, allora si arriva a conseguenze imprevedibili. Una di esse è stata esposta da un filosofo donna, così riassunta: “L’alleanza fra l’uomo e la donna diviene allora un ponte fra la natura e la cultura, un ponte ancora da costruire.”, Luce Irigaray, Essere in due, Bollati Boringhieri).
Poi la prima comparsa del ponte anche nella filosofia; ma era giocoforza a quel punto, vale a dire dopo che la linea di Mezzanotte era stata raggiunta. Perché non c’era più cammino davanti, solo il vuoto e l’alternativa era la caduta in esso. Come, di fatto, sta avvenendo. Com’è sempre accaduto, per la verità, ma oggi l’Abisso è sotto gli occhi e si guarda rassegnati e vinti, e c’è chi si getta prima per non prolungare l’attesa disperata e l’agonia. Quella prima idea di ponte è opera di Nietzsche ed esso, per il filosofo dell’eterno ritorno, è l’umanità stessa che porta dell’uomo al superuomo.
Giunto davanti all’Abisso, a un ponte ha pensato anche Heidegger. Lui però di primo acchito l’ha escluso, perché ha pensato di riuscire a superarlo con un salto, ma per quella larghezza non sarebbero bastati gli stivali delle sette leghe”. Perciò era il Ponte che si doveva costruire. Egli ha detto: “Non c’è un ponte che conduca dalla scienza (il pensiero calcolante della ‘ragione’ occidentale) al pensiero (il pensiero che rinunciando ad ogni finalità ‘costruttiva’ si pone come risposta ad una chiamata, quella dell’essere). L’unico passaggio possibile è il salto. Il luogo dove questo salto ci conduce non è solo l’altro lato dell’abisso, ma una regione totalmente diversa” (Heidegger, Was heisst Denchen?, 61, II, 6). Poi ancora: “Il salto, a differenza del cammino (d’ogni cammino dell’Occidente, scientifico, filosofico, poetico…) porta il pensiero, senza ponti, cioè senza che vi sia un procedere continuo, in un altro ambito e in un’altra maniera di dire” (Heidegger, Weise des Sagens?, 63,95.). La diagnosi era esatta, le due sponde sono indicate in modo chiaro e distinto, ma un salto di tal genere poteva riuscire solo a qualcuno, com’eccezione.
Per ultimo il mio ponte, quello che collega la fine del millenario cammino filosofico nel mondo di qua con l’aldilà. Di come sono riuscito a idearlo, costruirlo e poi attraversare l’Abisso, ho detto nel libro L’antica via dei Miti e dei Misteri.

Perciò una struttura di collegamento assai recente il ponte in filosofia. Tuttavia la filosofia non ha mai rinunciato all’aldilà, anche se non c’era il ponte.
Com’è stato possibile, allora?
In altre parole, anche lungo la filosofia del giorno, quella che va da Socrate a Hegel, tale forma di conoscenza non si è mai fatta mancare l’altra parte. Ha parlato di essa, è sempre stata la sua meta, molti hanno abitato in ispirito quei luoghi, passando quindi dall’immanente al trascendente, o dalla fisica alla metafisica, o dal divenire all’essere. In definitiva da questa dimensione dove tutto è cambiamento e dalla vita si va inesorabilmente verso la morte finché non si arriva, a quella dell’essere, dove invece ogni cosa è per sempre.
Ma come ha potuto se, di fatto, con i piedi, è sempre stata di qua, vale a dire prima dell’Abisso?
Perché ha fatto uso degli altri ponti degli altri domini, quelli or ora descritti, arrivando aldilà non con una sua esperienza diretta ed esclusiva. Cioè i filosofi si sono fatti portare dall’altra parte sulle ali del mito, dei misteri, delle religioni, perché fino a Nietzsche , come ho già detto, con l’aldilà non c’è mai stata prima un’esperienza diretta. Alcuni esempi.
Socrate, dopo aver dimostrato l’immortalità dell’anima, per dirci dove essa va dopo la morte, ha messo da parte la ragione che non lo sapeva e si è rivolto al mito. Quello favoleggiato dai poeti, sacerdoti, mistici.
Secondo Platone, le sostanze immutabili (idee) risiedono “di là dal cielo”, vale a dire nell’Iperuranio, ma si tratta di un mito descritto nel Fedro ed è un mito anche la famosa caverna, dove gli uomini sono legati all’interno di essa e costretti a fissare il muro di fondo senza poter girare la testa; e vedono solo le ombre delle cose che passano davanti a foro d’ingresso; e credono vere, reali, le prime perché delle altre non sanno. Mito della caverna, infatti, è il titolo di quel racconto. Dichiaratamente, perciò, non c’è un cammino filosofico che collega, semmai, appunto, una visione da sogno.
L’aldilà di Aristotele è la “filosofia prima”, poi chiamata metafisica (Metafisica deriva dal posto che gli scritti aristotelici relativi avevano nella raccolta di Andronico da Rodi, precisamente dopo la fisica, che era la prima delle scienze particolari), ma c’è un vuoto incolmabile fra fisica e metafisica, lo stesso che Tommaso d’Aquino ha cercato di superare con le sue prove dell’esistenza di Dio.
Cartesio, per fondare il suo Cogito ergo sum, che non è mai riuscito a distinguerlo in modo chiaro e distinto dal sogno, ha chiamato in aiuto Dio. In altre parole la certezza di sé e del mondo l’ha fondata in Dio; e vale per Dio, seguendo la via della conoscenza e non quella della fede e del misticismo, l’impossibilità di collegarlo all’uomo.
Lo sapeva bene Kant, che ha posto limiti insuperabili alla conoscenza filosofica e ha chiamato “cosa in sé” ciò che, non per ragione ma per fede, poteva anche esserci (come frutto “di una intuizione non sensibile”, per esempio, cioè divina, mentre per noi il concetto rimane vuoto), ma non era dimostrabile; e cosa in sé era anche Dio. Ma alla fine ha dovuto gettare la spugna: c’era solo il vuoto di là della conoscenza umana della cosa; e a questa conclusione è giunto nell’ultima edizione della critica, dopo anni di riflessioni (Infine, “Non è afferrabile la possibilità di tali noumeni, e l’ambito che si estende al di fuori della sfera delle apparenze, è [per noi] vuoto; noi abbiamo cioè un intelletto che si estende di là delle apparenze, ma non abbiamo alcun’intuizione, anzi neppure il concetto di un’intuizione possibile, attraverso cui possono esserci dati al di fuori del campo della sensibilità degli oggetti, e l’intelletto possa venire usato in modo assertorio di là di tale sfera. Il concetto di un noumeno (cosa in sé) è quindi semplicemente un concetto-limite, destinato a circoscrivere la presunzione della sensibilità, e d’uso quindi soltanto negativo. Esso non è peraltro inventato ad arbitrio, ma è connesso alla limitazione della sensibilità, senza poter tuttavia porre nulla di positivo al di fuori di tale sfera”, Kant, Critica della ragion pura).
Continuando sulla via della conoscenza, infatti, i filosofi che sono venuti dopo Kant, precisamente Fichte, Schelling, Hegel, hanno negata la cosa in sé e l’Io è diventato anche Dio.
A conclusione di questa breve rassegna, lungo tutta la filosofia che va da Socrate a Hegel non c’era, dunque, nemmeno il progetto di un collegamento. Ed ora la domanda: com’è possibile che per ventiquattro secoli i filosofi si siano adagiati su questo qui pro quo, quello di passare aldilà su strutture altrui o di accontentarsi di intravedere da lontano e congetturare? E la risposta suona così: il legame c’era anche nel dna della filosofia, ma nascosto e segreto, abitava l’inconscio. Era quello espresso dalla sapienza prima che la filosofia fosse, quello che Socrate aveva sentito da Parmenide quando era assai giovane, ma non era riuscito a sollevarlo alla parola della filosofia.
L’unica vera esperienza a questo punto è stata quella di Parmenide, ma essa appartiene alla sapienza. Qual è la differenza? Che lui la strada l’ha percorsa davvero: quella che dalla “casa della notte” portava fino alla Porta. E la Porta s’è aperta davvero sotto i suoi occhi ed è passato. E il Giorno l’ha visto tutto in una volta, come quando dall’alba sulla terra appare anche il cielo del tramonto e l’orizzonte dove tutto di nuovo sparirà nel buio. Insomma c’è tutta la conoscenza e l’esperienza di un giro completo nell’avventura di Parmenide, e per lui si parla, infatti, di viaggio iniziatico, non solo d’opera di pensiero razionale. Ciò che ho già detto in altre occasioni e che qui ribadisco (vedi le Coincidenze 3, 5, 10, 12), per segnare ancora una volta il confine fra sapienza e filosofia, per dire a chiare e tonde lettere cosa le distingue. Sapienza è l’esperienza di tutto il giro della vita, di giorno-notte , veglia-sonno, conscio-inconscio, vita-morte; filosofia solo della metà.

Ritorno alla poesia Mare dopo l’excursus nella filosofia. Ma è venuta da sé la lunga camminata nel pensiero con passi da gigante, per cercare riferimenti e coincidenze, o meglio per portarli alla parola, perché gli uni e le altre hanno fatto capolino appena ho rivisto la poesia, e non l’ho letta anche se ho tenuto gli occhi chini sul foglio ma recitata a memoria. Ed ho subito pensato: Pascoli ha sollevato dall’inconscio quello che io ho tratto dall’intrico della cultura; lui l’ha manifestato con parole più belle, adatte al paesaggio che aveva sotto gli occhi e in modo più raccolto; io con pensieri più chiari e distinti. Vediamo ora come si combinano questi due modi di conoscere.
Il poeta s’affaccia alla finestra.
È sempre da un punto o luogo privilegiato che si guarda e nel momento propizio. Dalla finestra in questo caso ma anche dai “lidi della California” o dall’alto di “un colle” come Whitman (vedi Coincidenze 3 e 8). O dal presente, rivolti prima al passato e poi al futuro, come la Cantarutti e Kavafis (vedi le Coincidenze 2 e 7). O dalla spiaggia, guardando la “marina”, come Montale nella poesia Casa sul mare (vedi la Coincidenza 10).
Anche Pascoli dalla finestra vede il mare.
E sul mare “vanno le stelle, tremolano l’onde”.
Vede “stelle passare, onde passare:/ un guizzo chiama, un palpito risponde”.
Vede, in altre parole questo mondo che scorre. Quello che la filosofia chiama anche immanente, o fisico, o del divenire. Se poi si sa che il mare è uno degli aspetti sensibili dell’Abisso, si può capire subito dove vanno le cose: dove scompaiono e la vita muta in morte, come nel Canto notturno di un pastore errante dell’Asia. Ma questa volta c’è un ponte su quella sponda estrema.
Di esso, come ho detto più sopra, mi sono accorto anche la prima volta, da ragazzo. Ma allora mi sembrava una licenza poetica – così si diceva delle apparizioni strane e misteriose nella poesia. Sembrava un tocco extra che la rendeva più affascinante. D’altronde gli stessi poeti, a volte, indulgono su questa credenza popolare e in qualche caso l’alimentano. “È del poeta il fin la meraviglia”, ha detto uno di loro; ed ora eccola lì, nella veste di “un bel ponte d’argento” posto nel punto dove prima venivano meno l’uomo e il suo mondo, e si può non precipitare. Ed io per un mucchio d’anni mi sono invece cullato su quella ingenua interpretazione del ponte, finché il suo ripresentarsi non mi ha svegliato e scosso.
C’è l’eco di Eraclito nella poesia di Pascoli: “Tutto scorre”. Ma per il sapiente tutto va a confluire in una superiore unità, perché Il dio è giorno notte, inverno estate, guerra pace, sazietà fame, e muta come (il fuoco) quando si mescola ai profumi e prende il nome di ognuno di essi” (Eraclito, frammento 67). Ed ora c’è un Ponte che porta a quell’unione.
C’è l’eco d’Anassimandro, perché egli ha affermato che “principio degli esseri è Ápeiron (non-limitato, non-finito, non-particolare) […] da dove infatti gli esseri hanno la loro origine, ivi hanno anche la distruzione secondo necessità: poiché essi pagano l’uno all’altro la pena e l’espiazione dell’ingiustizia (la loro separazione) secondo l’ordine del tempo” (Anassimandro, frammento 1 D.K.).
Ma ora la giustizia è stata ripristinata: si va verso il non-particolare nella consapevolezza, ma passa solo chi sa e vuole.
Ecco perciò dove porta il Ponte: di là dell’Abisso dove c’è la coincidenza degli opposti.
Rimane l’ultimo verso che è una domanda: per chi dunque sei fatto e dove meni?
Dove porta il ponte già si sa, c’è la risposta: sull’altra riva e dall’altra parte, quella che ora ha per appellativo anche Ápeiron. Di essa, semmai, si vorrà saperne di più, e qualcosa ci dicono già le altre coincidenze.
Porta sulla riva dove l’amore è “per sempre”.
Dove “allontanarsi significa tornare”.
È il “ritorno in patria”.
È la dimensione di una nuova civiltà che nascerà dalle ceneri dell’Occidente, e l’abiteranno l’arcangelo di Aurobindo, il nuovo essere un quarto uomo tre quarti verbo di Robertson, chi passerà “di là dal tempo” di Montale. Poi tutti coloro che oseranno attraversare il Ponte e abbandonare la morta gora, dove l’Occidente è nato ma ora sta morendo.
A questo punto, anche la risposta alla domanda “per chi dunque sei fatto?” arriva da sola: è fatto per l’uomo nuovo.
Attenzione però: non si tratta di visioni vaghe e future come quelle dei maghi, perché il passaggio è già in atto.

P.S.
In genere c’è il ponte o la porta fra un dominio e l’altro, e si va dall’uno all’altro attraversando il ponte o aprendo e superando la porta. Perché a me, invece, sono toccati entrambi i passaggi? Mi sembra già di poter rispondere così: perché seguendo la via della conoscenza e attraversando il ponte, giunti al di là si può continuare, inanellando un altro giro, ma ad occhi aperti e mente sveglia questa volta, e sapendo da dove si arriva e dove si va. Oppure c’è la porta d’uscita e si lascia questa dimensione. Una possibilità quest’ultima su cui non mi sono ancora soffermato, non sufficientemente almeno, perché sono orientato verso la prima soluzione.
Forse per pigrizia, o perché, come dice il proverbio, è meglio “non lasciare la strada vecchia per la nuova”; ed io il vecchio giro lo conosco ormai a memoria.
Certamente un motivo è questo, ma c’è poi il luogo d’appuntamento perenne e l’attesa di chi deve arrivare. E tutto è già incanto, tutto è già presente e mai non muta.
In quanto al giro che mi piacerà ripetere, nel modo in cui si torna anche qui a rivedere luoghi di vacanze o altri aspetti se sono belli e cari, se a compierlo tutto questa volta ho impiegato cinquant’anni – perché c’era da trovare l’uscita dal labirinto, ideare e costruire il Ponte, attraversare l’Abisso, scoprire il segreto della Porta per aprirla –, la prossima ne basteranno cinque. Ma che dico! Forse nessun tempo, perché esso è tutto presente in un momento come il cerchio d’orizzonte della terra visto dall’alto di un colle. Ma mettiamo pure di compierlo a piedi, portandomi sulla circonferenza perciò, e allora confermo: cinque anni. Perché il tracciato nel labirinto lo conosco, non devo più districarmi fra i tratti di sentiero e i vicoli ciechi, né tirare la moneta per aria agli incroci, o aspettare che l’indicazione la mandi il Cielo, perché a volte c’è molto d’aspettare.

Giacomo Leopardi, Canto notturno di un pastore errante dell’Asia

11 ottobre 2009

Giacomo Leopardi,
Canto notturno di un pastore errante dell’Asia
Versi 1-38

Che fai tu, luna, in ciel? Dimmi, che fai,
Silenziosa luna?
Sorgi la sera, e vai,
contemplando i deserti; indi ti posi.
Ancor non sei tu paga
Di riandare i sempiterni calli?
Ancor non prendi a schivo, ancor sei vaga
Di mirar queste valli?
Somiglia alla tua vita
La vita del pastore.
Sorge in sul primo albore
Move la greggia oltre pel campo, e vede
Greggi, fontane ed erbe;
Poi stanco si riposa in su la sera:
Altro mai non ispera.
Dimmi, o luna: a che vale
Al pastor la sua vita,
La vostra vita a voi? Dimmi: ove tende
Questo vagar mio breve,
Il tuo corso immortale?

Vecchierel bianco, infermo,
Mezzo vestito e scalzo,
Con gravissimo fascio in su le spalle,
Per montagna e per valle,
Per sassi acuti, ed alta rena, e fratte,
Al vento, alla tempesta, e quando avvampa
L’ora, e quando poi gela,
Corre via, corre, anela,
Varca torrenti e stagni,
Cade, risorge, e più e più s’affretta,
Senza posa o ristoro,
Lacero, sanguinoso; infin che arriva
Colà dove la via
E dove il tanto affaticar fu volto:
Abisso orrido, immenso,
Ov’ei precipitando, il tutto oblia.
Vergine luna, tale
È la vita mortale.

Caspar Friedrich, Luna nascente sul mare (1821)

Caspar Friedrich, Luna nascente sul mare (1821)

Nei primi otto versi c’è il cammino della luna nel cielo, continuo e immutabile, di cui si sa ormai tutto: dove comincia ogni fase, dove finisce, come si ripete. Ed è un continuo riandare, sempre uguale: l’eterno ritorno dello stesso che Nietzsche, come ho già avuto modo di dire in una precedente coincidenza, considerava il peso più grande (vedi la decima coincidenza, Montale, Casa sul mare) e noia e tedio insopportabili. Leopardi invece dice: “ancor non sei tu paga” di questo riandare, di questo contemplare i deserti, “ancor non prendi a schivo, ancor sei vaga/ di mirar queste valli”? Ed è la stessa cosa detta con altre parole: Nietzsche in modo più drammatico. Il supplizio di Sisifo, la condanna di Tantalo.
Questo ritornare ogni volta all’inizio però la rende “immortale”. Comincia, gira, ritorna al punto di partenza, ripete, e così per sempre. Una condizione privilegiata, perciò, quella della luna, rispetto alla vita dell’uomo: perché quest’ultima è peritura, l’altra no.
A questo punto sappiamo cosa vuol dire immortalità: lo insegna il poeta, o c’è una definizione di essa chiara e distinta. Vuol dire compiere il giro completo e poi “riandare”, per i sempiterni calli.
Di fronte ad esso la “vita del pastore” che si sveglia all’alba e prima era nel sonno: ma cos’è il sonno? Egli non lo sa, perciò il suo giro s’è interrotto per lui nella notte. Arriva, in ogni modo, da regioni sconosciute e misteriose e perciò non sa da dove. “Poi stanco si riposa in su la sera”, ritorna nel sonno e non sa dove va. Ecco la differenza con il moto della luna, che invece “sorge alla sera”, si muove nella notte, ma è presente anche nel giorno. Non ha mai staccato dal suo moto, non ha mai interrotto la sua vigile presenza. Essa perciò conosce da dove viene e dove va.
Inoltre le interruzioni notturne del pastore sono segnali d’avvertimento dell’ultima che ci aspetta perché, come dicevano gli antichi, sonno e morte sono fratelli e alla fine si passa dall’uno all’altra. Essa, infatti, appare nella seconda strofa, dove anziché gioventù e sonno c’è vecchiaia e morte.
C’è tutta l’indigenza della vita, la sua precarietà, la sua tragica conclusione nei versi che seguono. In particolare:
C’è la vecchiaia e l’infermità.
La povertà, perché il vecchierel è “mezzo vestito e scalzo”.
La necessità di provvedere al fabbisogno per vivere: la legna per scaldarsi in questo caso.
Ci sono le avversità del tempo: venti, tempesta, caldo torrido, gelo.
Poi la faticosa e perigliosa corsa, varcando torrenti e stagni, cadendo, rialzandosi lacero e sanguinoso.
Per andare dove? Verso l’Abisso e alla fine precipitare in quel buco orrido immenso.Qui la morte ha nome abisso, come anch’io spesso l’ho chiamata.
Povero uomo! Mi pare che dai tempi di Buddha nessuno ha messo a nudo la sua vera condizione come ha fatto Leopardi con questi versi. O forse anche altri, ma lasciando un po’ di spazio all’illusione, alla speranza.

Si dirà: ma la vita umana è anche bella, c’è anche il paese di Bengodi sulle sue terre, tante cose sono attraenti e desiderabili. Ed io rispondo: è come il Luna Park, dove si portano i bambini, ed essi si divertono e non vorrebbero più uscire. Ma poi finisce il giorno, calano le ombre, arriva l’oscurità, chiudono le giostre. E comincia la solitudine, la tristezza, il pianto, il grido.
Per Leopardi la chiusura è definitiva: quello era l’ultimo spettacolo. Riuscito male, fra l’altro, specialmente per il vecchierello.
Buddha, invece, ha meditato sulla dolorosa condizione umana, che termina sempre con la morte, e ha trovato e percorso una via d’uscita che parte dal samsâra o ruota del divenire e porta al Nirvana – da nirva che significa spegnere. Poi l’ha insegnata.
Nirvana
perciò vuol dire spegnimento, ma anche contemporanea Illuminazione: spegnimento del mondo che si lascia, perciò, come si annebbiano e oscurano immediatamente le cose se si alzano gli occhi verso il sole e poi si ritorna ad osservarle, e Luce illuminante per chi ormai è entrato e la guarda apertamente e la sostiene. Perciò anche Nirvana e Illuminazione sono la stessa cosa: la Patria luminosa dove i sapienti sono entrati. Il tragitto per arrivare al Nirvana Buddha l’ha chiamato “Sentiero”.
Esso è soprattutto una via filosofica, anche se è improntata più sulla sapienza che sulla filosofia. Non c’è stata in Oriente la deviazione operata da Socrate e Platone fin dall’inizio. O Buddha, contemporaneo di Parmenide, non ha avuto discepoli o seguaci che hanno deviato dalla via maestra, contravvenendo ai suoi insegnamenti (vedi dodicesima coincidenza, Eliot, The rock). Oppure qualcosa di simile è avvenuto, ma solo alcuni secoli dopo la morte del maestro, all’inizio dell’era cristiana. Alla scuola da lui fondata, chiamata Piccolo veicolo (hinayana), che insegnava la conquista della verità per se stessi, simile perciò alla Via della Verità di Parmenide, si è affiancato il Grande veicolo (mahayana), un sentiero aperto a molti, ed esso assomiglia allora alla via della filosofia iniziata da Socrate e Platone. Perché questo potesse avvenire, l’illuminato (Bodhisattva) evitava di spegnersi nel nirvana e rimaneva per aiutare tutte le esistenze nella ricerca della verità e della liberazione.
Ma questa è un’altra storia che sarà da raccontare, perché è essenziale per la comprensione di ciò che ha separato l’Oriente dall’Occidente per tanti secoli e quel che ora li sta avvicinando.

Ora le note filosofiche.
La prima
: il corso immortale della luna in cielo e quello mortale dell’uomo sulla terra. Certamente non è la luna che sa, che confronta la sua esistenza con quella umana. Essa è un corpo inanimato, non ha coscienza: la sua coscienza è l’uomo, solo lui sa che è immortale. O, in ogni caso, è l’uomo che vede e parla.
E cosa vede? Il vagare breve di sé, perché sa quando comincia e come finisce, e il moto circolare continuo dell’altra. L’abbiamo già visto questo moto, nella poesia Casa sul mare di Montale, dove al posto della rotante luna ci sono “i giri di ruota della pompa” (vedi decima coincidenza Montale, Casa sul mare), o in quella di Novella Cantarutti che inizia così: “Rotolo indietro…”, e tutto ciò che sta dietro, dice la filosofia, è natura naturata e si muove in tondo ­– astri, vita vegetale, animale, umana.
Il confronto perciò è sempre fra il movimento lineare e quello circolare: di chi arriva sulla scena per compiere un tratto di cammino e poi com’è apparso così sparisce, e chi invece svolta, ritorna dove ha cominciato e riprende lo stesso corso.
Ora una domanda: se è solo l’uomo, sempre l’uomo, che vede e parla, non è solo lui, sempre lui, che dà la patente d’immortale alla luna e di mortale a sé? Certamente, ma sulla base dell’esperienza diranno tutti quanti, un’esperienza comune continuamente ripetuta e convalidata. Ciò che, insomma, è evidenza e scienza assieme, se si tiene presente che i risultati di quest’ultima non avvengono per caso, o, anche se ciò accade qualche volta, si possono però ripetere quando si vuole, e solo per questo possono appartenere alla scienza e fregiarsi dei suoi titoli.

Se, dunque, la durata della vita è diversa per la luna e l’uomo, ecco allora la seconda nota, che ha qui la forma di domanda: non può essere la luna immortale perché di essa vediamo tutto il cammino, e noi mortali perché il nostro c’è noto solo in piccola parte? Infatti, per ogni uomo ci sono continue interruzioni misteriose e prefissate anche durante il tratto diurno – quelle del sonno; e c’è poi la fermata e la caduta nel profondo da cui non si risale, o – come dice il poeta – dove tutto si dimentica. Ed è quest’ultima soprattutto che ci fa dire di noi stessi: siamo mortali.
Il primo che l’ha affermato è stato Alcmeone, citato da Aristotele, e quel suo dire suona così: “Gli uomini sono perituri perché non possono congiungere la loro fine al loro principio”.
Conoscenza perciò difettosa e limitata la nostra?
È quello che sto cercando di dimostrare in un impegno che si è già preso, qualunque sia il risultato, tanta parte del mio tempo e mi sta occupando ancora con queste Coincidenze. Esse vogliono essere anche una comunicazione presentata in modo nuovo e con un fondamento indiscutibile: la poesia. In modo che se qualcuno vuole intervenire per dichiararle inattendibili, si trovi a fare i conti anche con lei. Non con i singoli poeti, perché qualcuno potrebbe sentirsi messo a nudo e preferire la veste magica di prima, ma con la poesia, che dovrà adeguarsi perciò anch’essa alla nuova condizione. Dovrà penetrare di più nella parte oscura, quella d’altronde da cui sono giunti gli input fino ad oggi, per cui la provenienza non cambia, e svilupparsi di più nel regno della luce mettendo nuovi fiori e frutti.

La terza nota. Leopardi parla della luna da fuori della luna e come altro da essa, mentre parla dell’uomo dall’uomo. Dal suo interno, voglio dire.
Si obietterà che, come la luna, stanno fuori anche il pastore e il vecchierello. Ma non è la stessa cosa. Essi sono uomini, non sono altra cosa dal poeta, e ciò che vale per loro vale anche per lui. Tutti e tre sono mortali, tutti e tre seguono la stessa strada altalenante fra la luce e l’oscurità e nella zona buia sono trasportati e non hanno occhi per vedere. Poi c’è l’Abisso dove tutti vanno a finire.
A questo punto, ecco che appare la possibilità per l’uomo di saperne di più di sé. Se delle cose del cielo come la luna conosciamo tutte le sue fasi e il suo eterno riandare perché le vediamo da fuori e come altro da noi stessi, allora anche per vedere l’intero nostro cammino dobbiamo uscire. Da noi stessi a questo punto. È ciò che ho chiamato anche uscita dal mondo o dal labirinto.
Dopo c’è l’Abisso, ma arrivando sulla sua sponda ad occhi aperti e anticipando il tempo del suo ineluttabile accadere, già si comincia ad accorgersi di tutto il cammino e a far progetti. Com’è accaduto a Heidegger e Jünger dopo che sono giunti sulla linea di Mezzanotte (vedi quinta coincidenza, Aurobindo).
Uscir dal mondo o dal labirinto, perciò, è il primo importante risultato. Di esso ho già parlato in alcune precedenti coincidenze (vedi coincidenze prima, seconda, terza, nona e undicesima).

Quarta nota. Chi è che si innalza e guarda da fuori?
A questo punto, per vedere tutto il cammino, anche il semicerchio notturno, non è più sufficiente l’Io, ci vuole il Sé, l’ultima conquista dell’Occidente nel campo del soggetto.
Quello che nella poesia d’Aurobindo ha nome arcangelo (vedi quinta coincidenza, Aurobindo). Oppure quell’essere “un quarto uomo,/ tre quarti verbo” di Robertson (vedi nona coincidenza, Robertson, Andrà a ovest). O quello che vuole passare “di là dal tempo” di Montale (vedi decima coincidenza, Montale, Casa al mare).
Visto dai padri fondatori della psicanalisi, il Sé non è solo la parte in luce ma anche tratto d’Oceano vicino alla terra emersa. Quest’ultima è l’autocoscienza, l’altra è simile al bassofondo che gli olandesi hanno strappato al Mare del nord, imbrigliandolo con le loro dighe: a quell’opera Freud ha paragonato il lavoro della psicanalisi nella parte a notte dell’uomo e dell’umanità (vedi settima coincidenza, Kavafis, Candele). Della stessa cosa, vale a dire del Sé, Jung ha detto che è coincidenza di conscio e inconscio (vedi settima coincidenza, Kavafis, Candele).

P.S.
Lungo la via della conoscenza, prima di arrivare all’uscita dal mondo o dal labirinto, ho visto anch’io segnali che indicavano quella tappa. Ne riporto due che mi hanno particolarmente colpito, e un eguale effetto potrebbero produrlo in chi li legge.
Il primo: “C’è un altro che non vedo che comanda,/ come io comando a quelli che stanno sotto./ E mi comanda di assumere il comando/ perché egli è stato innalzato”.
Il secondo: “Se già osservo il vegetale e l’animale che stanno sotto/ allora potrò vedere anche l’umano/ se mi hanno detto di salire ancora”.
Questa è invece la conclusione che s’impone: Io sono uscito da me per dire di me stesso: c’è il giro completo della vita che tu puoi vedere e ripetere se vuoi. Ma ora dipende da te e non perché costretto.

Per sempre

24 febbraio 2009

Grazia Sacchi, Per sempre

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Grazia Sacchi

X & SEMPRE
Ti amerò per sempre
Più che per sempre,
al di là del tempo
e dello spazio
e quando ti rivedrò,
tra cento, mille anni
riconoscerò,
nella folla anonima,
il tuo volto
tra infiniti altri.

Tu trasformerai
il sogno in pensiero
e come vento
strapperai le mie radici
per portarmi via.

Le anime,
sole e perdute,
in un istante di luce,
s’incontreranno
ancora
trovando l’unità,
tra cento, mille anni,
in qualunque età,
di nuovo
come ora.

Grazia nella sua poesia intitolata X & SEMPRE dice che l’amore è “per sempre”. In quest’affermazione non è sola ma in numerosa compagnia: quella di chi ama e di chi s’accende d’amore, la qual cosa capita a tutti almeno una volta nella vita; ed ogni amore dice di sé che è perenne, perché così lo vuole il sentimento.
L’ho detto anch’io all’inizio della mia avventura, quella riassunta nei libretti intitolati La chiesetta sperduta e L’antica via dei Miti e dei Misteri – percorsa ora con in mano la lampada della conoscenza filosofica, ed anzi è stato per trovare quel “per sempre” e per dimostrarlo che l’ho intrapresa.

Grazia poi ci dice cosa significa “per sempre”. Significa che durerà tutta una vita e poi riprenderà in un’altra: “tra cento, mille anni”, perché questi sono tempi che non appartengono ad una sola esistenza. Tra cento o mille anni continua Grazia “riconoscerò nella folla anonima, il tuo volto tra infiniti altri”.
E qui lo scenario si apre sulla metempsicosi, dottrina diffusa in tutte le civiltà e religioni, nella sapienza, filosofia, poesia.
Faceva parte delle dottrine segrete degli antichi Egizi, l’Induismo e le altre religioni d’Oriente si basano su di essa, così pure i Misteri dell’antica Grecia, quelli d’Eleusi, di Dioniso, poi i Misteri romani del tempio, le dottrine cabalistiche segrete degli Ebrei, ed era presente anche nel Cristianesimo delle origini.
Inoltre la metempsicosi è in primo piano nella sapienza orientale e occidentale Buddha la notte precedente l’Illuminazione, come ha scritto di lui il suo maggiore biografo Asvagosa, ha richiamato alla memoria “migliaia di vite, come rivivendole” e le ha collegate fra loro. Ermete Trismegisto, nato tre volte in Egitto, ogni volta si è dedicato alla conoscenza, finché nell’ultima vita terrena si è illuminato, si è ricordato delle precedenti esistenze, ha ricuperato il suo vero nome, e poi è salito al mondo superiore dov’è l’origine. Pitagora ricordava anche il suo precedente nome: Euforbo; era un milite nella guerra di Troia e ha perso la vita in battaglia sotto quelle mura, ucciso da Menelao.
Dopo la nascita della filosofia, Platone, amanuense di Socrate il primo filosofo, l’ha così espressa: “conoscere e ricordare”, la qual cosa implica che si sia già stati. Ha fatto seguito una numerosa schiera per i quali la metempsicosi è diventata la più razionale teoria dell’immortalità personale. Ne cito alcuni: Plotino, Böhme, Swedenborg, Giordano Bruno, Campanella, tanta parte della filosofia tedesca del secolo diciannovesimo, quella di Kant, Schelling, Hegel, Schopenhauer, Lessing, Cudsworth, Hume, Mazzini.
Poi i poeti e scrittori antichi e nuovi: Virgilio, Ovidio, Walter Scott, Goethe, Poe, Charles Dickens, Walt Whitman, Borges.
Queste però sono solo alcune punte degli iceberg. Sotto di esse le innumerevoli esperienze e i ricordi di tanti meno celebri e vicini di casa, perché quasi tutti hanno incontrato persone o cose che hanno risvegliato ricordi di un passato che non credevano esistesse e che esprimono con le parole: “Ho già vissuto questo momento, ho già visto questo luogo, ho già incontrato questa persona”; soltanto che i ricordi che s’accendono nel sentimento durano poco o dopo tanto non sai più se son tuoi o strani segni che affiorano da profondità abissali.
Ma dove c’incontreremo? Grazia non specifica: c’è tutta la vastità del sentimento nella poesia, ma anche l’indeterminatezza. Nel vasto e numeroso mondo perciò se non c’è indicazione precisa, ma in tal modo la ricerca diventa difficile, faticosa, problematica. Come sempre avviene d’altronde qui sulla terra dove uomo e donna sono metà distinte e separate che si cercano instancabilmente e spesso senza mai trovarsi davvero; e quando accade si afferma che è per caso o perché l’ha voluto il Destino, ma ancora non si sa che il “caso” è soltanto l’incerto e difettoso appellativo del Destino e che con il Destino si può venire a patti.

Perciò a me, che ho volutocome dice Grazia trasformare “il sogno in pensiero”, è apparso il luogo preciso, inconfondibile, come un faro in riva all’oceano tenebroso. Quel luogo è stato la chiesetta ideale, eterna, uguale a quella di sasso e di legno esistente in un paesino del Cadore, che era dispersa quando è apparsa ma che sono riuscito a trovare dopo cinquant’anni di ricerche. Naturalmente, questo è stato e sarà il luogo per me, un ricordo d’altre vite ormai fisso nell’immutabile e perenne: il centro della ruota che gira.
La trasformazione del sogno in pensiero, vale a dire del sentimento poetico in conoscenza chiara e distinta, è avvenuto nel modo che sempre si segue quando arriva il momento di passare dal progetto all’opera, dall’idea alla sua realizzazione. In questo caso costruendo un cammino fra la chiesetta terrena e quella celeste e superando gli ostacoli esistenti fra le due.
E siccome quella apparsa non era di questo mondo, ma assomigliava ad un’idea platonica la cui patria è l’Empireo, sono dovuto uscire dalla Terra e dal Cosmo per trovarla. Raggiunto quel confine dopo molti anni, non c’era la chiesetta al di là di esso, ma cominciava un Abisso. La sua esistenza in ogni modo non è stata una sorpresa, perché se quel luogo era il ricordo di una vita precedente, fra una vita e l’altra c’è sempre la morte essa è l’Abisso. Similmente tra veglia da veglia c’è il sonno, e Hypnos e Thanathos per gli antichi erano fratelli.
Perciò ho dovuto attraversare la morte per trovare in modo stabile e sicuro il collegamento con l’altra vita e con il ricordo della chiesetta in essa contenuto e conservato, come similmente si attraversa ogni notte il sonno qui sulla Terra per unire veglia a veglia, e ci sono riuscito costruendo un ponte. Il ponte sull’Abisso l’ho chiamato.
Dopo l’Abisso, al di là di una Porta di cui ho dovuto indovinare il segreto perché s’aprisse, c’era l’arrivo, e mi sono accorto che ero giunto nello stesso punto da cui sono partito cinquant’anni prima, vale a dire alla chiesetta. A quella che era sperduta, indubbiamente, ma anche a quella di sasso e legno del paesino del Cadore, perché le due non apparivano più separate come alla partenza, ora coincidevano. Le due erano una sola. Quella celeste e l’altra, la terrestre, erano la stessa cosa. L’oggetto e il ricordo di esso o idea erano lo stesso. Fine e principio stavano assieme.

Anche per Grazia c’è coincidenza. Fra lei e l’oggetto amato in questo caso, perché l’amore che prospetta di ritrovare dopo cento, mille anni, è lo stesso che ha ispirato la poesia, e il tempo che separa uno dall’altro diventa solo una lunga attesa in questo mondo di cose divise a metà e separate, che già per molti è solo apparenza. C’è qualcosa d’eterno, insomma, in noi che il corpo porta a spasso nel mondo delle cose sensibili. La vita finora sembra sia soltanto questo: una vacanza su un pianeta che si chiama Terra, con arrivi da profondità sconosciute e partenze per destinazioni ignote. Non c’è ancora una dimora dopo la vacanza che ci accolga in modo stabile e sicuro, o non ci sono coordinate esatte per trovarla.
Arrivata alla coincidenza sull’onda del sentimento anche Grazia, come normalmente accade, non è riuscita poi a mantenere quella posizione. Le crisi, i dubbi, le retrocessioni nel mondo delle cose sensibili, i distacchi, sono anche i segni sensibili dei limiti del sentimento e delle parole di poesia che l’esprimono.

Ecco, allora, che si capisce la necessità dell’ulteriore passo in avanti, il perché della trasformazione del sentimento in conoscenza, o come dice Proust in un equivalente intellettuale. Ecco perché io ho voluto trovare il luogo che la poesia m’aveva messo di fronte: la chiesetta sperduta. Perché non mi sono accontentato di sentire che ” le anime/ sole e perdute/ in un istante di luce/ s’incontreranno/ ancora/ trovando unità”, ma ho voluto sapere dove, come, quando. E ho tracciato il cammino, costruito il ponte, aperto la porta, varcata la soglia.

Infine i versi “…e come vento/ strapperai le mie radici/ per portarmi via”, i più sorprendenti; perché le radici sono proprio i sentimenti, quelli che hanno segno che consideriamo positivo, come amore, gioia, compassione, ecc., ma anche gli altri di segno opposto: odio, tristezza, crudeltà. Insomma anche lo sradicamento, con la trasformazione del sentimento in conoscenza è previsto nella poesia di Grazia, e da essi, infatti, io mi son staccato seguendo il cammino che portava fuori del labirinto. Ma non per rimanere senza amore, per esempio, ma per raggiungere il luogo dove esso è “per sempre”, o per arrivare alla coincidenza degli opposti, che è la stessa cosa, perché ero diretto al regno dell’unità e mi lasciavo alle spalle questo qui, frammentato e disperso, dove le parti solo eccezionalmente si uniscono per sempre.

A questo punto il lettore dovrà decidere se la poesia è fantasia, per cui diventerebbe sogno di un visionario anche lo sviluppo di quei versi fino al raggiungimento della conoscenza apodittica, oppure espressione di quel che c’è di più grande in noi e previsione di un mutamento.

Nel primo caso, povera poesia! Sarebbe ciò che il volgo dice spesso di essa e dell’autore: che è un’illusione, una vana consolazione, e il poeta un “pitocco”, un “perdigiorno”. Se invece è ciò che hanno sempre pensato le anime grandi e gentili: il modo primo e privilegiato di guardare in alto dov’è la nostra vera patria, allora anche l’ulteriore sviluppo verso la conoscenza chiara e distinta diventa la via maestra da seguire fino a ciò che è “per sempre”.