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Giacomo Leopardi, Canto notturno di un pastore errante dell’Asia

11 ottobre 2009

Giacomo Leopardi,
Canto notturno di un pastore errante dell’Asia
Versi 1-38

Che fai tu, luna, in ciel? Dimmi, che fai,
Silenziosa luna?
Sorgi la sera, e vai,
contemplando i deserti; indi ti posi.
Ancor non sei tu paga
Di riandare i sempiterni calli?
Ancor non prendi a schivo, ancor sei vaga
Di mirar queste valli?
Somiglia alla tua vita
La vita del pastore.
Sorge in sul primo albore
Move la greggia oltre pel campo, e vede
Greggi, fontane ed erbe;
Poi stanco si riposa in su la sera:
Altro mai non ispera.
Dimmi, o luna: a che vale
Al pastor la sua vita,
La vostra vita a voi? Dimmi: ove tende
Questo vagar mio breve,
Il tuo corso immortale?

Vecchierel bianco, infermo,
Mezzo vestito e scalzo,
Con gravissimo fascio in su le spalle,
Per montagna e per valle,
Per sassi acuti, ed alta rena, e fratte,
Al vento, alla tempesta, e quando avvampa
L’ora, e quando poi gela,
Corre via, corre, anela,
Varca torrenti e stagni,
Cade, risorge, e più e più s’affretta,
Senza posa o ristoro,
Lacero, sanguinoso; infin che arriva
Colà dove la via
E dove il tanto affaticar fu volto:
Abisso orrido, immenso,
Ov’ei precipitando, il tutto oblia.
Vergine luna, tale
È la vita mortale.

Caspar Friedrich, Luna nascente sul mare (1821)

Caspar Friedrich, Luna nascente sul mare (1821)

Nei primi otto versi c’è il cammino della luna nel cielo, continuo e immutabile, di cui si sa ormai tutto: dove comincia ogni fase, dove finisce, come si ripete. Ed è un continuo riandare, sempre uguale: l’eterno ritorno dello stesso che Nietzsche, come ho già avuto modo di dire in una precedente coincidenza, considerava il peso più grande (vedi la decima coincidenza, Montale, Casa sul mare) e noia e tedio insopportabili. Leopardi invece dice: “ancor non sei tu paga” di questo riandare, di questo contemplare i deserti, “ancor non prendi a schivo, ancor sei vaga/ di mirar queste valli”? Ed è la stessa cosa detta con altre parole: Nietzsche in modo più drammatico. Il supplizio di Sisifo, la condanna di Tantalo.
Questo ritornare ogni volta all’inizio però la rende “immortale”. Comincia, gira, ritorna al punto di partenza, ripete, e così per sempre. Una condizione privilegiata, perciò, quella della luna, rispetto alla vita dell’uomo: perché quest’ultima è peritura, l’altra no.
A questo punto sappiamo cosa vuol dire immortalità: lo insegna il poeta, o c’è una definizione di essa chiara e distinta. Vuol dire compiere il giro completo e poi “riandare”, per i sempiterni calli.
Di fronte ad esso la “vita del pastore” che si sveglia all’alba e prima era nel sonno: ma cos’è il sonno? Egli non lo sa, perciò il suo giro s’è interrotto per lui nella notte. Arriva, in ogni modo, da regioni sconosciute e misteriose e perciò non sa da dove. “Poi stanco si riposa in su la sera”, ritorna nel sonno e non sa dove va. Ecco la differenza con il moto della luna, che invece “sorge alla sera”, si muove nella notte, ma è presente anche nel giorno. Non ha mai staccato dal suo moto, non ha mai interrotto la sua vigile presenza. Essa perciò conosce da dove viene e dove va.
Inoltre le interruzioni notturne del pastore sono segnali d’avvertimento dell’ultima che ci aspetta perché, come dicevano gli antichi, sonno e morte sono fratelli e alla fine si passa dall’uno all’altra. Essa, infatti, appare nella seconda strofa, dove anziché gioventù e sonno c’è vecchiaia e morte.
C’è tutta l’indigenza della vita, la sua precarietà, la sua tragica conclusione nei versi che seguono. In particolare:
C’è la vecchiaia e l’infermità.
La povertà, perché il vecchierel è “mezzo vestito e scalzo”.
La necessità di provvedere al fabbisogno per vivere: la legna per scaldarsi in questo caso.
Ci sono le avversità del tempo: venti, tempesta, caldo torrido, gelo.
Poi la faticosa e perigliosa corsa, varcando torrenti e stagni, cadendo, rialzandosi lacero e sanguinoso.
Per andare dove? Verso l’Abisso e alla fine precipitare in quel buco orrido immenso.Qui la morte ha nome abisso, come anch’io spesso l’ho chiamata.
Povero uomo! Mi pare che dai tempi di Buddha nessuno ha messo a nudo la sua vera condizione come ha fatto Leopardi con questi versi. O forse anche altri, ma lasciando un po’ di spazio all’illusione, alla speranza.

Si dirà: ma la vita umana è anche bella, c’è anche il paese di Bengodi sulle sue terre, tante cose sono attraenti e desiderabili. Ed io rispondo: è come il Luna Park, dove si portano i bambini, ed essi si divertono e non vorrebbero più uscire. Ma poi finisce il giorno, calano le ombre, arriva l’oscurità, chiudono le giostre. E comincia la solitudine, la tristezza, il pianto, il grido.
Per Leopardi la chiusura è definitiva: quello era l’ultimo spettacolo. Riuscito male, fra l’altro, specialmente per il vecchierello.
Buddha, invece, ha meditato sulla dolorosa condizione umana, che termina sempre con la morte, e ha trovato e percorso una via d’uscita che parte dal samsâra o ruota del divenire e porta al Nirvana – da nirva che significa spegnere. Poi l’ha insegnata.
Nirvana
perciò vuol dire spegnimento, ma anche contemporanea Illuminazione: spegnimento del mondo che si lascia, perciò, come si annebbiano e oscurano immediatamente le cose se si alzano gli occhi verso il sole e poi si ritorna ad osservarle, e Luce illuminante per chi ormai è entrato e la guarda apertamente e la sostiene. Perciò anche Nirvana e Illuminazione sono la stessa cosa: la Patria luminosa dove i sapienti sono entrati. Il tragitto per arrivare al Nirvana Buddha l’ha chiamato “Sentiero”.
Esso è soprattutto una via filosofica, anche se è improntata più sulla sapienza che sulla filosofia. Non c’è stata in Oriente la deviazione operata da Socrate e Platone fin dall’inizio. O Buddha, contemporaneo di Parmenide, non ha avuto discepoli o seguaci che hanno deviato dalla via maestra, contravvenendo ai suoi insegnamenti (vedi dodicesima coincidenza, Eliot, The rock). Oppure qualcosa di simile è avvenuto, ma solo alcuni secoli dopo la morte del maestro, all’inizio dell’era cristiana. Alla scuola da lui fondata, chiamata Piccolo veicolo (hinayana), che insegnava la conquista della verità per se stessi, simile perciò alla Via della Verità di Parmenide, si è affiancato il Grande veicolo (mahayana), un sentiero aperto a molti, ed esso assomiglia allora alla via della filosofia iniziata da Socrate e Platone. Perché questo potesse avvenire, l’illuminato (Bodhisattva) evitava di spegnersi nel nirvana e rimaneva per aiutare tutte le esistenze nella ricerca della verità e della liberazione.
Ma questa è un’altra storia che sarà da raccontare, perché è essenziale per la comprensione di ciò che ha separato l’Oriente dall’Occidente per tanti secoli e quel che ora li sta avvicinando.

Ora le note filosofiche.
La prima
: il corso immortale della luna in cielo e quello mortale dell’uomo sulla terra. Certamente non è la luna che sa, che confronta la sua esistenza con quella umana. Essa è un corpo inanimato, non ha coscienza: la sua coscienza è l’uomo, solo lui sa che è immortale. O, in ogni caso, è l’uomo che vede e parla.
E cosa vede? Il vagare breve di sé, perché sa quando comincia e come finisce, e il moto circolare continuo dell’altra. L’abbiamo già visto questo moto, nella poesia Casa sul mare di Montale, dove al posto della rotante luna ci sono “i giri di ruota della pompa” (vedi decima coincidenza Montale, Casa sul mare), o in quella di Novella Cantarutti che inizia così: “Rotolo indietro…”, e tutto ciò che sta dietro, dice la filosofia, è natura naturata e si muove in tondo ­– astri, vita vegetale, animale, umana.
Il confronto perciò è sempre fra il movimento lineare e quello circolare: di chi arriva sulla scena per compiere un tratto di cammino e poi com’è apparso così sparisce, e chi invece svolta, ritorna dove ha cominciato e riprende lo stesso corso.
Ora una domanda: se è solo l’uomo, sempre l’uomo, che vede e parla, non è solo lui, sempre lui, che dà la patente d’immortale alla luna e di mortale a sé? Certamente, ma sulla base dell’esperienza diranno tutti quanti, un’esperienza comune continuamente ripetuta e convalidata. Ciò che, insomma, è evidenza e scienza assieme, se si tiene presente che i risultati di quest’ultima non avvengono per caso, o, anche se ciò accade qualche volta, si possono però ripetere quando si vuole, e solo per questo possono appartenere alla scienza e fregiarsi dei suoi titoli.

Se, dunque, la durata della vita è diversa per la luna e l’uomo, ecco allora la seconda nota, che ha qui la forma di domanda: non può essere la luna immortale perché di essa vediamo tutto il cammino, e noi mortali perché il nostro c’è noto solo in piccola parte? Infatti, per ogni uomo ci sono continue interruzioni misteriose e prefissate anche durante il tratto diurno – quelle del sonno; e c’è poi la fermata e la caduta nel profondo da cui non si risale, o – come dice il poeta – dove tutto si dimentica. Ed è quest’ultima soprattutto che ci fa dire di noi stessi: siamo mortali.
Il primo che l’ha affermato è stato Alcmeone, citato da Aristotele, e quel suo dire suona così: “Gli uomini sono perituri perché non possono congiungere la loro fine al loro principio”.
Conoscenza perciò difettosa e limitata la nostra?
È quello che sto cercando di dimostrare in un impegno che si è già preso, qualunque sia il risultato, tanta parte del mio tempo e mi sta occupando ancora con queste Coincidenze. Esse vogliono essere anche una comunicazione presentata in modo nuovo e con un fondamento indiscutibile: la poesia. In modo che se qualcuno vuole intervenire per dichiararle inattendibili, si trovi a fare i conti anche con lei. Non con i singoli poeti, perché qualcuno potrebbe sentirsi messo a nudo e preferire la veste magica di prima, ma con la poesia, che dovrà adeguarsi perciò anch’essa alla nuova condizione. Dovrà penetrare di più nella parte oscura, quella d’altronde da cui sono giunti gli input fino ad oggi, per cui la provenienza non cambia, e svilupparsi di più nel regno della luce mettendo nuovi fiori e frutti.

La terza nota. Leopardi parla della luna da fuori della luna e come altro da essa, mentre parla dell’uomo dall’uomo. Dal suo interno, voglio dire.
Si obietterà che, come la luna, stanno fuori anche il pastore e il vecchierello. Ma non è la stessa cosa. Essi sono uomini, non sono altra cosa dal poeta, e ciò che vale per loro vale anche per lui. Tutti e tre sono mortali, tutti e tre seguono la stessa strada altalenante fra la luce e l’oscurità e nella zona buia sono trasportati e non hanno occhi per vedere. Poi c’è l’Abisso dove tutti vanno a finire.
A questo punto, ecco che appare la possibilità per l’uomo di saperne di più di sé. Se delle cose del cielo come la luna conosciamo tutte le sue fasi e il suo eterno riandare perché le vediamo da fuori e come altro da noi stessi, allora anche per vedere l’intero nostro cammino dobbiamo uscire. Da noi stessi a questo punto. È ciò che ho chiamato anche uscita dal mondo o dal labirinto.
Dopo c’è l’Abisso, ma arrivando sulla sua sponda ad occhi aperti e anticipando il tempo del suo ineluttabile accadere, già si comincia ad accorgersi di tutto il cammino e a far progetti. Com’è accaduto a Heidegger e Jünger dopo che sono giunti sulla linea di Mezzanotte (vedi quinta coincidenza, Aurobindo).
Uscir dal mondo o dal labirinto, perciò, è il primo importante risultato. Di esso ho già parlato in alcune precedenti coincidenze (vedi coincidenze prima, seconda, terza, nona e undicesima).

Quarta nota. Chi è che si innalza e guarda da fuori?
A questo punto, per vedere tutto il cammino, anche il semicerchio notturno, non è più sufficiente l’Io, ci vuole il Sé, l’ultima conquista dell’Occidente nel campo del soggetto.
Quello che nella poesia d’Aurobindo ha nome arcangelo (vedi quinta coincidenza, Aurobindo). Oppure quell’essere “un quarto uomo,/ tre quarti verbo” di Robertson (vedi nona coincidenza, Robertson, Andrà a ovest). O quello che vuole passare “di là dal tempo” di Montale (vedi decima coincidenza, Montale, Casa al mare).
Visto dai padri fondatori della psicanalisi, il Sé non è solo la parte in luce ma anche tratto d’Oceano vicino alla terra emersa. Quest’ultima è l’autocoscienza, l’altra è simile al bassofondo che gli olandesi hanno strappato al Mare del nord, imbrigliandolo con le loro dighe: a quell’opera Freud ha paragonato il lavoro della psicanalisi nella parte a notte dell’uomo e dell’umanità (vedi settima coincidenza, Kavafis, Candele). Della stessa cosa, vale a dire del Sé, Jung ha detto che è coincidenza di conscio e inconscio (vedi settima coincidenza, Kavafis, Candele).

P.S.
Lungo la via della conoscenza, prima di arrivare all’uscita dal mondo o dal labirinto, ho visto anch’io segnali che indicavano quella tappa. Ne riporto due che mi hanno particolarmente colpito, e un eguale effetto potrebbero produrlo in chi li legge.
Il primo: “C’è un altro che non vedo che comanda,/ come io comando a quelli che stanno sotto./ E mi comanda di assumere il comando/ perché egli è stato innalzato”.
Il secondo: “Se già osservo il vegetale e l’animale che stanno sotto/ allora potrò vedere anche l’umano/ se mi hanno detto di salire ancora”.
Questa è invece la conclusione che s’impone: Io sono uscito da me per dire di me stesso: c’è il giro completo della vita che tu puoi vedere e ripetere se vuoi. Ma ora dipende da te e non perché costretto.

The rock

28 settembre 2009

Thomas Stearns Eliot, The Rock (1934)

Thomas Stearns Eliot

Thomas Stearns Eliot


Dov’è la saggezza che abbiamo
perso in conoscenza?
Dov’è la conoscenza che abbiamo
perso in informazione?

Questa è bella! Ho chiesto a mio fratello di cercare su internet notizie di Eliot per poi procedere alla lettura delle sue poesie e sceglierne una da includere nell’elenco delle Coincidenze, ma assieme alla biografia che comprendeva le caratteristiche della sua opera, c’erano anche i quattro versi sopra riportati. Bene, mi son subito detto dopo uno sguardo, non occorre più cercare oltre perché ho già trovato.
In passato avevo letto di Eliot cose belle che non ricordavo bene e che perciò dovevo rivedere, anche per riportarle esattamente, ma ora non più. Quel colpo di fulmine chiudeva la ricerca.
Ma cosa hanno di speciale? Perché versi più affascinanti sono, per esempio, ­– cito a memoria – una “porta in fondo al corridoio che dà sul giardino delle rose, che non apriremo mai”. Perché allora quella scelta improvvisa e senza appello? Ma ci si chiede forse quando Eros scocca la sua freccia e ci colpisce perché quella donna e non un’altra! Ebbene, è stato qualcosa di simile quel che è accaduto; di cui però devo ora dar conto perché qui non mi trovo nel campo del sentimento ma in quello della conoscenza chiara e distinta.

Il fatto è che, quasi a conferma di un segnale che ho visto parecchi anni fa lungo la via della conoscenza che diceva “Io vedo la Parola dentro il Libro,/ e poi il Libro dentro la Parola./ Questo farsi piccino è l’esistente/ e manifestare il totale in forme e canti”, nei quattro versi e diciotto parole complessive sono espressi problemi fondamentali che hanno occupato la filosofia nel suo inizio e poi per tutto il suo corso e che ancora non sono risolti e incidono su di essa, e sono determinanti per il suo significato e la conclusione del suo ciclo. Anzi di quei problemi abbiamo quasi perso anche il ricordo ora che ci troviamo a circa venticinque secoli di distanza dal loro primo presentarsi, e dileguerebbero sempre più se si continuasse ad allontanarci. Ciò accadrebbe sicuramente se il tempo fosse quel procedere ininterrotto che va da un passato indeterminato ad un futuro interminato; un’opinione diffusa questa qui, anzi la certezza per i più. Invece, oltre che con la filosofia dei nostri giorni a cominciare da Nietzsche, ci siamo avvicinati anche con la poesia. Come è stato possibile?
Perché in un cammino circolare allontanarsi significa tornare. Perché, come ha detto Aristotele tanti secoli fa, il “prima e dopo” rispetto ad un inizio noto accadono sempre in tale successione per chi si muove su una linea, ma s’invertono su un cerchio quando si gira come sui tornanti di una strada di montagna [“In quale modo dobbiamo comprendere queste parole prima e dopo? Dovremo intenderle nella maniera seguente: Coloro che sono vissuti al tempo della guerra di Troia ci sono anteriori: a questi sono anteriori coloro che sono vissuti in tempi più antichi, e così di seguito all’infinito, considerando sempre anteriori agli altri gli uomini che si trovano più indietro nel passato? Oppure se ammettiamo che l’Universo abbia un principio, un mezzo e una fine; che quando, invecchiando, è giunto alla propria fine sia per ciò stesso tornato di nuovo al suo principio; se è vero d’altronde che le cose anteriori sono quelle più vicine al principio, chi c’impedisce allora d’essere più vicini al principio (degli uomini che vissero al tempo della guerra di Troia)? Se così fosse, saremmo anteriori a loro. Dal momento che, con il suo moto locale, ogni cielo e ogni astro percorre un circolo, perché non dovrebbe essere lo stesso per la generazione e la distruzione d’ogni cosa peritura, in modo tale che questa stessa cosa possa a sua volta nascere e perire di nuovo? Così si dice pure che le cose umane percorrono un circolo” Aristotele, Problemata, XVII, 3].

Così siamo più vicini noi oggi alla sapienza, da cui la filosofia ha avuto origine, di quanto, per esempio, lo è stato Hegel, che ai suoi tempi era ancora in fase di allontanamento, anche se presso la svolta. Perciò ben s’intende oggi quel che poi è successo. Il grande filologo tedesco Hermann Diels, in un cammino a ritroso che è giunto fino all’inizio, ha cercato, scoperto e raccolto tutti i frammenti dei presocratici; Nietzsche è ritornato a quei tempi per ricordare da dove era partito ora che l’arrivo s’avvicinava dall’altra parte, poi ha ripreso il cammino in avanti; c’è Il ritorno a Parmenide di Severino; Heidegger e Jünger, dopo la loro escursione all’indietro come Diels e Nietzsche, hanno poi continuato in avanti e sono arrivati sulla linea di mezzanotte. Hanno anche progettato di attraversarla e di proseguire fino alla nuova Aurora e al Risveglio (Vedi L’antica via dei Miti e dei Misteri).
Ulteriori prove che il tempo gira in tondo, e come un vortice attira e trascina tutte le cose di questo mondo e così si ritorna al punto di partenza, lo dicono anche i cammini circolari seguiti dagli eroi e poeti presenti nelle pagine già scritte di questo libro. Ed ora, ormai vicino a quell’evento, questo giro è segnalato anche da Eliot con la sua breve poesia, nella quale si chiede e chiede:
Dov’è la saggezza che abbiamo/ perso in conoscenza?

In questa domanda ci sono tre parti o aspetti:
C’era la saggezza, o sapienza, così più volentieri io la chiamo (Platone non distingue fra i due termini. La netta distinzione è stata fatta da Aristotele. Ma si era già in pieno giorno e perciò essa, io credo, si è imposta. Perché l’Aurora non c’era più, e perciò neppure la sapienza, e la saggezza è diventata la disciplina razionale delle faccende umane).
Che abbiamo perso o si è persa.
Al suo posto la conoscenza.

A questo punto c’è da dire che: l’età della sapienza – sesto e quinto secolo a.C. – è stata chiamata Aurora della civiltà greca; ad essa è seguito il Giorno, vale a dire la sua manifestazione luminosa, con i primi filosofi Socrate e Platone, il primo grande statista Pericle, i primi storici Erodoto e Tucidide, i grandi poeti tragici, ecc.; per cui due versi di Eliot si possono esprimere anche così:
Dov’è l’Aurora che abbiamo perso nel Giorno?

Perciò sapienza e conoscenza hanno anche altri nomi, e si può esprimere la stessa cosa con gli uni o gli altri, rimanendo fedeli a quel che è davvero successo in quel manifestarsi di una civiltà. Sono dei sinonimi: a quell’apparire sono stati dati anche i nomi della luce e delle sue fasi, a sapienza Aurora e a conoscenza Giorno. I quali poi non sono stati dati a piacere o per gioco, ma hanno in comune con i primi l’origine. Infatti in sophía – la sapienza – si riflette, come nell’aggettivo saphés, che significa “chiaro”, “manifesto”, “evidente”, il senso di pháos, la “luce”, e filosofia è aver cura di ciò che si manifestato in tal modo. Sono perciò anche sorelle e fratelli gemelli quelle copie.
In quanto ai versi presi in esame, ancora una volta appare cos’è la parola di poesia, soprattutto quella d’oggi: un emergere dal profondo nella luce di ciò che è stato e lì giaceva da millenni, nell’esatto modo in cui è avvenuto. L’esatto modo è questo: c’era la sapienza che abbiamo perso in conoscenza.
Andiamo avanti.

In quell’inizio di venticinque secoli fa c’era, dunque, la sapienza; poi la conoscenza ha preso il suo posto, non come cosa improvvisa e diversa che l’ha eliminata, ma in un processo di trasformazione che ha mutata il suo aspetto, nascondendola. Ma ora che stiamo riandando verso l’inizio, è la prima che il poeta cerca; e se la cerca, è perché segretamente sa che c’è ancora. Ed è proprio così, e si possono dire ora luoghi e tempi della sua presenza antica. Poi quelli della mutazione avvenuta, e come e perché.
La sapienza c’era prima della conoscenza come oggi l’intendiamo, prima, quindi, della nascita della filosofia. E siccome essa è cominciata con Socrate, vale a dire nel quarto secolo a.C., la sapienza l’ha preceduta, si è manifestata precisamente nei bei due secoli precedenti, soprattutto nel quinto. Esso, infatti, è quello di Parmenide ed Eraclito, i due maggiori sapienti che hanno preceduto i filosofi. Poi l’inizio della filosofia, che significa letteralmente aver cura (philo) della sapienza (sophía), e il filosofo è quindi l’erede di essa e il suo amico. Perciò che abbia avuto quest’origine lo dice il nome stesso.
Ma per Eliot il passaggio dall’una all’altra ha costituito una perdita e anche questo è vero. Se ne è accorto fin dall’inizio Socrate, il primo filosofo. Nel Teeteto così egli manifesta il sentimento che lo ha colto, quando da giovane ha praticato Parmenide e ha ascoltato la sua parola: “Sebbene di fronte a Melisso e a tutti gli altri, i quali sostengono che il tutto è un’unità immobile, io provi un rispetto nel timore di fare una disamina grossolana, tuttavia questo rispetto è minore che di fronte al solo Parmenide. Parmenide, per dirla con Omero, mi sembra venerando e nello stesso tempo terribile. Io, infatti, quand’ero molto giovane lo praticai mentre era assai vecchio e mi parve che possedesse un’acutezza senza dubbio singolare. Pertanto io temo che non riusciamo a comprendere le sue parole e che, ancor più, restiamo lontani dal concetto che egli espresse…” (Platone, Teeteto, 183 E).
Gli era sfuggito fin da allora qualcosa che non ha più ricuperato in modo chiaro e distinto, vale a dire la sapienza.

Ma c’è dell’altro ancor più intrigante in questa storia, che si colora perfino di giallo, come nei più famosi romanzi di Agatha Christie: è stato Socrate stesso a tramare e realizzare il mutamento da sapienza in conoscenza, e ciò è sembrato fin da allora un delitto perfetto, il peggiore: un parricidio. Socrate, il primo erede della sapienza, lo stesso che sapeva in cuor suo che essa era superiore alla stessa filosofia o che lì stava il segreto dell’altra; superiore perciò alla ragione che avrebbe guidato gli uomini del nuovo corso per millenni, ha decretato la morte del padre Parmenide. Parmenide aveva indicato la via maestra della sapienza e Socrate per primo ha deviato da essa e ne ha preso un’altra a una quota inferiore e l’ha tracciata, insegnata, e seguita lui stesso in tanta parte. Una via che, ora lo vediamo chiaramente perché ne abbiamo fatto esperienza, era qualcosa d’intermedio fra la sapienza e l’apparenza, e che ci ha condotto, in un giro durato ventiquattro secoli fin dove ora ci troviamo.
Una scelta sofferta, in ogni modo, la via intermedia indicata da Socrate e seguita da lui stesso in tanta parte, che è poi quella della conoscenza filosofica e scientifica; ma era ciò che occorreva perché la civiltà appena sorta prendesse il via in una direzione determinata: verso Occidente, sulla Terra e nel pensiero. Un parricidio è stata chiamata fin dall’inizio la deviazione dalla via maestra, e il padre era Parmenide e il parricida Platone che aveva disatteso il suo insegnamento principale.
La deviazione dalla “rotonda verità” è raccontata dallo Straniero di Elea nel dialogo platonico Sofista:
Lo straniero
: Abbiamo disubbidito a Parmenide e oltrepassato di molto i limiti del suo divieto.
Teeteto
: Perché?
Lo straniero
: Egli aveva posto un limite alla ricerca e noi lo abbiamo oltrepassato, siamo andati oltre argomentando contro il nostro maestro.
Teeteto
: Come?
Lo straniero
: Vedi, egli dice, me ne ricordo bene: ‘non costringere ciò che non è ad essere, mai; ma, cercando, evita questo sentiero, e lontano ne sia il tuo pensiero’.
Teeteto
: Certo, dice proprio così.
Lo straniero
: E noi invece abbiamo dimostrato che il non-essere è”.

C’è da dire però, a difesa di Socrate, che la via maestra che portava direttamente alla verità era troppo esclusiva. Poteva nascere solo una scuola in tal modo, una confraternita di spiriti eletti, non una civiltà numerosa ed estesa che ha sempre occupato tanta parte della terra e che è dilagata ai nostri giorni su tutto il pianeta.

Giunti a questo punto, è necessario scoprire cosa c’era in più nella sapienza e cosa è andato perduto.
Se, come abbiamo detto e non c’è modo di dubitarne, la nascita della civiltà greca è chiamata anche Aurora, e ha cominciato a splendere all’inizio del quarto secolo a.C., e uno degli aspetti più importanti di quella manifestazione è stata la filosofia, quel che si andava perdendo era la Notte e l’Alba. Vale a dire il momento in cui oscurità e luce stanno assieme e si danno nascita fra loro. Perché sapienza è soprattutto questo: visione simultanea degli opposti e della loro coincidenza, esperienza originale del passaggio dalla tenebra alla luce.
Anche se la via maestra non è stata praticata come ha indicato Parmenide, qualcosa di quell’esperienza originaria è però rimasta nella filosofia e i filosofi hanno ereditato anche quelle voci misteriose e quelle indicazioni enigmatiche: ecco perché ci sono in essa anche le crepe e i segni di passaggi segreti, di porte chiuse, di ponti da varcare, di abissi da rischiarare, avvisi che i più attenti e perspicaci hanno continuato a vedere e seguire.
Anche Eliot, ecco perché in tempi di estrema povertà si è chiesto e si chiede:
Dov’è la saggezza che abbiamo
perso in conoscenza?

Ora gli altri due versi:
Dov’è la conoscenza che abbiamo
perso in informazione?

La conoscenza nei modi della filosofia, come si sa, dopo Socrate e con il metodo da lui instaurato è continuata fino a Hegel, e questa lunga manifestazione è stata chiamata, recentemente mi sembra, filosofia del Giorno.
Poi il Tramonto, che i più sensibili hanno cominciato ad avvertire alla fine del diciannovesimo secolo, e in modo vistoso circa cento anni fa. Tramonto dell’Occidente è il pensiero che lo esprime in modo inequivocabile, ed esso è anche il titolo di un famoso libro di Oswald Spengler, ma anche Il disagio della civiltà di Sigmund Freud, La crisi della civiltà di Jhoan Huizinga, Eclissi della ragione di Theodor W. Adorno, Lo smalto sul nulla di Benn, ecc.
È cominciata così l’altra grande trasformazione: della conoscenza in informazione.
Ciò che era luminoso diventa grigio, sempre di più. Ed ora c’è indistinzione, confusione, oscurità, nichilismo diventato, in pochi decenni, condizione normale.
Un’eccezione a questo vagare alla cieca è il cammino seguito da pochi filosofi, quelli che ho già nominato e che sono giunti fino alla linea di Mezzanotte, ma anch’esso ufficialmente finisce lì, perciò nel Buio, anzi peggio: sulla sponda dell’Abisso; e oggi si sta perdendo anche la memoria di quell’avamposto, o, perché appariva insuperabile, è stato rimosso.
Nomi della filosofia arrivata a questo stadio sono: pensiero debole, relativismo, multiculturalismo, ermeneutica, o anche informazione, quello che gli ha dato il poeta, ed essa oggi è affidata soprattutto alla tecnica. Enorme ai nostri giorni la quantità di notizie diffuse dalla radio, dalla televisione, dai giornali, via Internet, dai satelliti. Un mare continuamente alimentato, e fiumi di parole che defluiscono, confluiscono, s’ammucchiano, s’ingorgano, si sciolgono, appaiono e scompaiono, come nel caos quantico (Parole e particelle subatomiche si assomigliano ai nostri giorni e vale per le prime quanto ho scritto per le particelle anni fa. “Esse fanno i pagliacci e i saltimbanchi/ con nasi finti e vesti variopinte/ e saltano, ballano, si arrotolano,/ si innalzano, precipitano, si trasformano,/ scompaiono all’improvviso e ricompaiono/ da quinte o buchi, da fondi senza fine,/ da invisibili altezze oppure da nulla./ Ma son essi o son altri,/ si sono cambiate le vesti,/ e lo stesso l’ordine dei colori!/ E chi li segue nelle loro piroette/ estasiato e frastornato,/ li guarda, li studia, li descrive./ È mestiere o un gioco,/ o solo un modo di campare!/ Perché non si sa davvero chi sono e cosa sono,/ da dove arrivano e dove se ne vanno”).
Ma dove più grande è il pericolo, là sorge il salvatore
– ha detto Hölderlin, e anche Eliot lo immagina, lo pensa, quando si chiede e chiede: dov’è?

Dov’è la saggezza che abbiamo
perso in conoscenza?
Dov’è la conoscenza che abbiamo
perso in informazione?

P.S.
Perché mio fratello non si senta deluso delle ricerche che sta compiendo su Internet anche per mio conto, devo specificare che non di quest’uso dell’informazione qui si parla, vale a dire di quello rivolto alla ricerca e scoperta di ciò che la cultura conserva ed offre, perché il passato è fondamento dell’avvenire ed è necessario conoscerlo. Attività che peraltro è sempre esistita, e oggi Internet permette di esercitarla in modo più veloce e completo. Informazione, come Eliot l’intende, e che io ho ribadito e sviluppato con la Coincidenza, è la trasformazione e riduzione della sapienza e conoscenza a sé stessa, perciò tutto diventa mera informazione. In altre parole, trasformazione e riduzione dell’Aurora e del Giorno in oscurità, e c’è solo quest’ultima alla ribalta, perché le altre due sono dietro le quinte e il pubblico neppure sa che esistono. Quel che sta succedendo in questi nostri tempi, insomma, in cui tutto è chiacchiera, notizia, e non si distingue più la finzione dalla realtà, il teatro dal mondo, la commedia dalla vita.

Dante, Inferno, Ulisse

13 settembre 2009

Dante, Inferno
Canto Ventesimosesto

Il naufragio di Ulisse, F. Stassen (Berlino 1906)

Il naufragio di Ulisse, F. Stassen (Berlino 1906)

Né dolcezza di figlio, né la pieta
Del vecchio padre, né il debito amore
Lo qual dovea Penelope far lieta
Vincer potero dentro a me l’ardore
Ch’i’ ebbi a divenir del mondo esperto
E degli vizii umani e del valore:
Ma misi me per l’alto mare aperto
Sol con un legno e con quella compagna
Picciola, dalla quale non fui deserto.
L’un lito e l’altro vidi infin la Spagna,
Fin nel Marrocco, e l’isola dei Sardi,
E l’altre che quel mare intorno bagna.
Io e i compagni eravam vecchi e tardi,
Quando venimmo a quella foce stretta,
Ov’Ercole segnò li suoi riguardi,
Acciocché l’uom più oltre non si metta:
Dalla man destra mi lasciai Sibilia,
Dall’altra già m’avea lasciato Setta.
O frati, dissi, che per cento milia
Perigli siete giunti all’occidente,
A questa tanto picciola vigilia
De’ nostri sensi, ch’è del rimanente,
Non vogliate negar l’esperienza,
Diretro al sol, del mondo senza gente.
Considerate la vostra semenza:
Fatti non foste a viver come bruti,
Ma per seguir virtute e conoscenza.
Li miei compagni fec’io si acuti,
Con questa orazion picciola, al cammino,
Che appena poscia gli avrei ritenuti.
E, volta nostra poppa nel mattino,
De’ remi facemmo ale al folle volo,
Sempre acquistando dal lato mancino.
Tutte le stelle già dell’altro polo
Vedea la notte, e il nostro tanto basso,
Che non surgeva fuor del marin suolo.
Cinque volte racceso, e tanto casso
Lo lume era di sotto dalla luna,
Poi ch’entrati eravam nell’alto passo,
Quando n’apparve una montagna bruna
Per la distanza, e parvemi alta tanto
Quanto veduta non n’avevo alcuna.
Noi ci allegrammo, e tosto tornò in pianto;
Ché dalla nuova terra un turbo nacque,
E percosse del legno il primo canto.
Tre volte il fe’ girar con tutte l’acque,
Alla quarta levar la poppa in suso,
E la prora ire in giù, com’altrui piacque.
Infin che il mar fu sopra noi richiuso

Anche per me c’è stato un aspetto fisico dell’avventura, un procedere cioè anche con i piedi, le mani, il corpo, i sensi aperti e rivolti alle cose e alle indicazioni e messaggi che mi giungevano. Poi però anche l’altro, quello nella mente, nel mondo delle idee, contemporaneamente al primo. Il percorso comune l’ho chiamato.
Nel viaggio di Ulisse oltre le Colonne d’Ercole c’è invece solo l’aspetto terreno, ma apparentemente però. Perché nella Terra Dante ha posto l’Inferno, sulla parte sconosciuta della sua superficie la montagna del Purgatorio, e fra i pianeti e le stelle, il Paradiso. Il mondo fisico e quello spirituale cioè stanno assieme e perciò Ulisse, nella sua avventura, procede contemporaneamente su uno e sull’altro. Due in uno: com’è capitato a me d’altronde e come più o meno è sempre accaduto in ogni impresa diretta a nuovi mondi. Poi, nel racconto, si predilige l’uno o l’altro aspetto.
Ciò fa pensare che altro non ci sia oltre a queste due dimensioni e forse le cose stanno proprio così. O almeno così appaiono anche in alcune poesie fin qui prese in esame: i viaggi di Whitman e Robertson sembrano, infatti, solo terreni.
Non è di poco conto questo dire: che immanenza e trascendenza sono aspetti dello stesso; perché in tal caso davvero, come dice l’Ecclesiaste, non c’è nulla di nuovo sotto il sole. Se è tutto qui, allora la divisione in due parti d’ogni cosa e la loro separazione è opera dell’uomo. C’è solo lui scisso in due metà distinte e separate, che si chiamano conoscenza e ignoranza, e perciò è così diverso dagli altri viventi. L’Inquietante l’ha chiamato Sofocle, la Matta l’ho chiamato io.
Conoscenza
ed ignoranza stanno poi all’origine di tutti gli altri opposti, ma da qui inizia anche la lunga strada che porta alla loro coincidenza nella consapevolezza, intravista tante volte e in alcune avventure raggiunta. Anche nel campo della conoscenza chiara e distinta ciò è accaduto, ma finora fino a quel punto è arrivata soltanto l’avanguardia.

Ritorno a Ulisse dopo la digressione.
Quello che lui non sa, è cosa c’è al di là delle Colonne d’Ercole, un limite posto da Zeus perché l’uomo “più oltre non si metta”. Ha girato tutto il mondo di qua, anche le parti più nascoste e segrete superando tutti gli ostacoli e sfuggendo a tutte le insidie: ha attraversato l’isola dei Latofagi dove l’insidia era l’oblio; quella dei Ciclopi, i mostri figli della Notte; quella di Circe che tanti anni lo ha trattenuto con le catene della seduzione; quella dei Feaci dove c’era la fanciulla Nausicaa che avvinceva con la bellezza, la gioventù, la dolcezza. Ha attraversato il paese dei Cimmeri dove il giorno non appare mai, ed è sceso nell’Ade per trovare Tiresia e avere da lui le indicazioni della via del ritorno. Non c’è aspetto del mondo che non abbia visto, affrontato, superato.

Ora è diretto dall’altra parte dove l’uomo non ha mai abitato, o solo quando lui e Dio stavano assieme. Il mondo senza gente l’ha chiamato Dante nel suo racconto: una sfida agli dèi e al destino, perciò, quella di Ulisse. Accade sempre così: nelle più grandi avventure per sapere cosa c’è dopo è necessario lasciare il mondo intero che prima però deve essere colto in un solo abbraccio, come ha fatto Whitman, o “dentro a una sfera di pensiero”, com’è capitato a me, o tutto in una volta, come affermano i sapienti, o staccandosi da tutti i pensieri, da tutti i piaceri, da tutte le tentazioni, vivendo in solitudine e pregando sempre, come fanno i mistici. In modo simile Ulisse è uscito dalle Colonne d’Ercole, ed io dalla rappresentazione del mondo cui sono giunte la filosofia e la scienza in circa venticinque secoli di ricerche, scoperte, conquiste.

Ed ora non mi guardino in cagnesco i pochi affezionati lettori che mi seguono se mi metto a far confronti fra i principali fatti ed aspetti dell’avventura d’Ulisse e quelli della mia, dove mi trovo in veste d’avanguardia non per mia scelta. Non è per mettermi in mostra vicino ad uno dei più grandi eroi dell’antichità, che si colloca anzi vicino al crinale di quel mondo e l’altro già s’intravede o s’indovina: la civiltà che stava per nascere e che si chiamerà Greca e poi Occidente, in altre parole il crinale fra Mito e Logos. Perché è sempre da posizioni estreme che si può vedere tutto quanto. Se ora un confronto m’accingo a stabilirlo, è la necessità che lo vuole: non per protagonismo o per pavoneggiarmi perciò, ma per far vedere come le cose sono mutate rispetto a quei tempi antichi soltanto nella forma, non nella sostanza. I faccia a faccia che seguono chiariranno meglio quel che voglio in tal modo significare.

Dell’uscita dal mondo, che io chiamo anche labirinto, ho già detto. Ulisse dopo averlo navigato ed esplorato tutto in un’odissea lunga vent’anni. Io dopo un viaggio nella filosofia che è durato altrettanto, e giungendo in tal modo fino all’Io. Quello che Cartesio ha chiamato “Io penso”, Kant “Io trascendentale” o “unità sintetica della coscienza”, Fichte, Scelling, Hegel, “Io assoluto, Identità di Io e Dio, o Dio è l’idea più alta e sublime che l’uomo ha di se stesso”. In termini filosofici, questi risultati hanno richiesto circa ventitré secoli di cammino e sviluppo, da Socrate fino a Hegel.

Sul confine del mondo così raggiunto, per Ulisse ci sono le Colonne d’Ercole e per me la fine del Giorno della civiltà occidentale. Un confine fisico e uno metafisico, perciò, o meglio, come ho già detto, una visione terrena di esso ed una appartenente al mondo delle idee. Un ideale che ha avuto però aspetti fisici macroscopici, come le due guerre mondiali del secolo scorso, i campi di sterminio, la bomba nucleare che pende sull’umanità come la spada di Damocle.
Si sa come Ulisse ha varcato il suo confine: con una “orazione” rivolta ai suoi compagni di viaggio. “Per seguir virtute e conoscenza” – ha detto loro –, ma anche perché vecchi e tardi. Vanno anche contro la morte a quell’età, e perché non sfidare anch’essa, allora, dal momento che sarebbe stata lei altrimenti a raggiungerli!
È la scelta che ha fatto anche Gilgamesh. Egli per sei giorni e sette notti pianse il suo amico Enkidu e non permise che lo seppellissero, per vedere se si fosse levato ai suoi gemiti, finché i vermi non gli caddero dal naso. Allora “penetrarono nel suo cuore” l’angoscia e la paura della morte, e decise di cercarla e affrontarla a viso aperto, prima che fosse lei ad aggredirlo alle spalle e all’improvviso, come aveva fatto con l’inseparabile compagno d’avventure.
Così si comportano gli eroi: anche se l’angoscia li opprime e la paura fa loro tremare le gambe e braccia, reagiscono e si rivoltano contro di ciò che atterrisce, affrontano il mostro, lo combattono. E così hanno fatto Ulisse e i suoi compagni. Quindi una duplice sfida la loro: all’ignoto e alla morte. Non sono forse la stessa cosa!

Dopo il passaggio delle Colonne d’Ercole, la direzione seguita è stata verso occidente. Essa è segnalata dai versi “e, volta nostra poppa nel mattino”, perciò la prua a sera.
Anch’io sono andato da quella parte, ed è ormai quasi ozioso ripeterlo. Anche perché ho seguito l’Occidente, vale a dire la civiltà cui appartengo, ed essa ha già nel nome la sua destinazione. Sapevo di trovarmi lungo questa direzione molto prima di arrivare sul confine. L’Occidente, infatti, lungo le vie della terra ha il suo inizio nella Grecia antica, vale a dire nel Medio oriente, e poi si è mosso verso la sera e seguendo tale direzione ha avuto come stazioni principali l’Italia meridionale, Roma, l’Europa fino alle spiagge portoghesi e spagnole dell’Atlantico. Poi, circa cinquecento anni fa, l’attraversamento dell’oceano e la scoperta dell’America ed essa è diventata la punta avanzata della via occidentale verso la nuova Aurora, dove molti giungeranno, io credo. Dove l’avanguardia è già arrivata.

Poi per Ulisse l’ingresso nell’oceano e il viaggio verso la conoscenza e la morte. Oceano d’altronde è un appellativo dell’Abisso. Così egli l’ha descritto: “Già tutte le stelle dell’altro polo vedevo di notte e il nostro era già sotto l’orizzonte ma continuai per cinque pleniluni ancora; finché non “apparve una montagna bruna/ per la distanza, e parvemi alta tanto,/ quanto veduta non n’avevo alcuna”. Era la montagna del Purgatorio.
Dopo il Tramonto dell’Occidente, il mio viaggio si è svolto invece nel nichilismo, diventato oggi condizione normale e nell’irrazionale del pensiero, che ha avuto e ha, soprattutto ai nostri giorni, aspetti innumerevoli: il pensiero debole, il relativismo, il multiculturalismo, tutte maschere del nulla. Tuttavia in tanto vuoto è esistita anche una direzione di pensiero seguita da alcuni filosofi , ed essa ha cominciato a diventare traccia e a trasformare l’oscurità in Notte. Un po’ badando ad essa ma seguendo anche i miei personali segnali che non sono mai venuti meno fin dall’inizio e sempre mi hanno indicato la via da seguire e la meta, anch’io sono arrivato fino alla Mezzanotte, o linea zero.

Seguendo la via della religione, ed è questa che Dante ha fatto percorrere ad Ulisse, l’avventura umana finisce lì, perché è il confine fra il profano e il sacro, fra l’uomo e Dio, e l’al di là è in mano a Lui. Ulisse perciò non poteva andare oltre, anche perché la sua avventura è avvenuta prima della nascita di Cristo e solo Lui, dicono i cristiani, ha valicato per la prima volta l’Abisso ed ha aperto la Porta dei mondi superiori. Perciò ecco la tragica fine dell’eroe e dei suoi compagni: quando videro la nuova terra, fu gioia per loro, ma essa presto mutò in pianto, perché si levò un turbine che percosse la parte anteriore della nave. Tre volte la fece girare e alla quarta si sollevò la poppa e la prua cominciò a scomparire.
“Infin che il mar fu sopra noi richiuso”. “Com’altrui piacque”.
Qui si ferma l’avventura d’Ulisse e anche la mia, quella parte che l’ha accompagnato fino a questo punto seguendo una via parallela.

Poi però, impiegando nuove risorse e nuove tecniche, c’è stato proseguimento anche dopo la linea di Mezzanotte, soprattutto seguendo la via della filosofia, e in tal modo un’avanguardia è giunta fino alla nuova Aurora. Ma su questa continuazione molto c’è ancora da riferire, e lo faremo di volta in volta approfittando delle occasioni che ci daranno i poeti con le loro poesie.

Casa sul mare

12 luglio 2009

Eugenio Montale, Casa sul mare
da Ossi di seppia, Mondadori 2003

Casa sul mare

Casa sul mare

Il viaggio finisce qui:
nelle cure meschine che dividono
l’anima che non sa più dare un grido.
Ora i minuti sono uguali e fissi
Come i giri di ruota della pompa.
Un giro: un salir d’acqua che rimbomba.
Un altro, altr’acqua, a tratti un cigolio.

Il viaggio finisce a questa spiaggia
Che tentano gli assidui e lenti flussi.
Nulla disvela se non pigri fumi
La marina che tramano di conche
I soffi leni: ed è raro che appaia
Nella bonaccia muta
Tra l’isole dell’aria migrabonde
La Corsica
dorsuta o la Capraia.

Tu chiedi se così tutto svanisce
In questa poca nebbia di memorie;
se nell’ora che torpe o nel sospiro
del frangente si compie ogni destino.
Vorrei dirti che no, che ti s’appressa
l’ora che passerai di là dal tempo;
forse solo chi vuole s’infinita,
e questo tu potrai, chissà, non io.
Penso che per i più non sia salvezza,
ma taluno sovverta ogni disegno,
passi il varco, qual volle si ritrovi.
Vorrei prima di cedere segnarti
codesta via di fuga
labile come nei sommossi campi
del mare spuma o ruga.
Ti dono anche l’avara mia speranza.
A’ nuovi giorni, stanco, non so crescerla:
l’offro in pegno al tuo fato, che ti scampi.

Il cammino finisce a queste prode
che rode la marea col moto alterno.
Il tuo cuore vicino che non m’ode
salpa già forse per l’eterno.

Tutte le strade portano a Roma; similmente tutte le poesie conducono l’autore e il lettore attento e innamorato fin sull’orlo dell’Abisso o lo indicano. Alcune sono riuscite anche a superarlo, nei modi che abbiamo già visto nelle pagine precedenti, e andando avanti di questo passo altri ne troveremo. Sono arrivate fino a quel confine Novella Cantarutti, Whitman nella poesia Dai lidi della California, Eugenio Montale in Meriggiare pallido e assorto…, Cavafis.
Novella Cantarutti davanti alle incredibili e assurde “righe/ di muro, di ferro, d’asfalto/ senza appoggio”, impraticabili e senza meta.
Walt Whitman ai “lidi della California”, dopo venticinque secoli di cammino, e l’ha fermato l’oceano sulla rotonda terra, e sulla mente l’ancora indecifrabile solco che separa la fine di una vita dall’inizio di un’altra.
Eugenio Montale davanti all’insuperabile muragliache ha in cima cocci aguzzi di bottiglia”.
Kostantinos Kavafis fino alle ultime candele accese e dopo finisce la luce e la riga della vita.
Le altre poesie della serie vanno oltre la linea, anche dopo l’altra sponda dell’Abisso, ma con voli pindarici o in modi sconosciuti.
Grazia Sacchi, “di là dal tempo/ e dello spazio” dov’è perciò l’eterno, il “per sempre” di un amore.
Novalis ha visto la morte tramutare, diventare notte gremita di stelle, e in quel chiarore ha ritrovato Sophie, la ragazza amata e prematuramente scomparsa da questo mondo.
Aurobindo ha bussato alla “Porta” perché si apra, per passare, com’era già accaduto a Parmenide d’altronde, come accade, secondo natura e perciò inconsapevolmente, a tutti i nati nella luce del sole; perché superandola, al di là avviene la metamorfosi, l’uomo diventa arcangelo. Ma la Porta, come ormai si sa, si trova dall’altra parte dell’Abisso, perché il cammino si snoda in quest’ordine: uscita dal labirinto, attraversamento dell’Abisso, scoperta del segreto della Porta, e solo dopo essa appare e si apre. Tuttavia si arriva lo stesso: c’è pure la metempsicosi, anche se chi ritorna non sa come ha fatto a giungere di nuovo alle sponde della vita. Però ricorda, sa di essere già stato, e questo basta, com’è capitato a me all’inizio della mia avventura quando ho visto una chiesetta montana che era la stessa di un ricordo. Ma non della vita che stavo conducendo, ero giovane allora e non potevo sbagliarmi, ma di una precedente più lontana nel passato. Però non mi sono poi accontentato di sapere che ero ritornato, ma ho cercato il cammino fra le due chiese, quella di questo mondo di cose e l’altra della mente, e l’ho scoperto e percorso. Collegando, dunque, fra loro esistenze diverse e non diversi tempi di una sola.
Perciò si arriva lo stesso, com’è accaduto ad Aurobindo e agli altri che hanno superato il confine, ma non seguendo una via nota e tempi stabiliti.
Anche Whitman della seconda poesia si trova in una posizione molto avanzata, perché una visione simile alla sua a me è giunta quando mi sono trovato sulla soglia della Porta, quindi dopo l’Abisso e quasi alla fine del viaggio. E da quel punto, volgendomi, ho visto tutto l’universo dentro ad una sfera di pensiero. Whitman, invece, in un abbraccio.
Infine Robertson, dove il navigante che va sull’oceano, che è dunque un appellativo terrestre dell’Abisso, è già “tre quarti verbo” e cuce le onde per trasformare quel cammino in una via stabile e sicura.
Tocca ora alla poesia di Montale intitolata Casa sul mare.

Eugenio Montale

Eugenio Montale

Il viaggio finisce qui”, dice il primo verso della poesia. Non di fronte alla muraglia questa volta “che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia”, ma nella casa al mare e sulla spiaggia.
Il confine fra la terra e l’acqua diventa però subito l’aspetto visibile e tangibile di un altro sempre incombente ma nascosto e segreto, quello fra la vita e la morte. Si arriva, insomma su due limiti, quello fisico e l’altro psichico. Ed è inevitabile che da quella posizione si tirino delle somme, perché dopo quella linea c’è, appunto, mare e morte, che sono due appellativi dell’Abisso.
Nelle epoche geologiche vero abisso è stato anche il mare, quando c’erano solo animali acquatici nel mondo. Volti a occupare anche la terra dove chi vi saliva boccheggiava fino alla morte, mossi da segrete indicazioni, anch’essi non si sono tirati indietro, non sempre almeno e non tutti. Finché sono riusciti a trasformarsi e a conquistare. Come stiamo facendo noi ora, io credo, di fronte ad una nuova forma che ci aspetta. In due per sempre ha detto Grazia, l’arcangelo ha detto Aurobindo, il superuomo ha detto Nietzsche, l’uomo nuovo affermano in molti.
E ora vediamo cosa ha termine su quel duplice confine, del mare e della vita.

Finiscono le “cure meschine”, dice il poeta. O la “cura” in generale, e si sa cosa essa è per la filosofia. È vita inautentica, è il prendersi cura e aver cura per le cose vane ed effimere: del corpo, dell’abbigliamento, del cibo, degli ornamenti, degli addobbi, delle vacanze, dell’automobile, ed è la ripetizione continua e infaticabile di tutto ciò. Quella che il poeta paragona ai giri di ruota della pompa./ Un giro: un salir d’acqua che rimbomba./ Un altro, altr’acqua, a tratti un cigolio. In modo simile alla poesia, la filosofia chiama le cieche ripetizioni “eterno ritorno del medesimo” che per Nietzsche era “il peso più grande” (“Il peso più grande. Che accadrebbe se, un giorno o una notte, un demone strisciasse furtivo nella più solitaria delle tue solitudini e ti dicesse: questa vita, come tu ora la vivi, e l’hai vissuta, dovrai viverla ancora una volta e innumerevoli volte, e non ci sarà in essa mai niente di nuovo, ma ogni dolore e ogni piacere e ogni pensiero e sospiro, e ogni indicibilmente piccola e grande cosa della tua vita dovrà fare ritorno a te, e tutte nella stessa sequenza e successione – e così pure questo ragno e questo lume di luna tra i rami e così pure questo attimo e io stesso. L’eterna clessidra dell’esistenza viene sempre di nuovo capovolta e tu con essa, granello di polvere! Non ti rovesceresti a terra, digrignando i denti e maledicendo il demone che così ha parlato? Oppure hai forse vissuto una volta un attimo immenso, in cui questa sarebbe stata la tua risposta: tu sei un dio e mai intesi cosa più divina? Se quel pensiero ti prendesse in suo potere, a te, quale sei ora, farebbe subire una metamorfosi, e forse ti stritolerebbe; la domanda per qualsiasi cosa: vuoi tu questo ancora una volta e ancora innumerevoli volte? graverebbe sul tuo agire come il peso più grande! Oppure, quanto dovresti amare te stesso e la vita per non desiderare più alcun’altra cosa di questa ultima eterna sanzione, questo suggello”, Nietzsche, La gaia scienza); per il mito, la fatica di Sisifo, e per Montale “l’anima che non sa più dare un grido”, ma rimbomba, cigola.
Il contrario filosofico della “vita inautentica” è il “vivere per la morte”, vale a dire di fronte all’abisso, dove si trova anche Montale, e si ritorna così alla poesia partendo dalla filosofia questa volta: la “coincidenza” che si compie nei due sensi.

Giunti a questo punto, nella poesia meriggiare pallido e assorto… il poeta tace, vinto dalla muraglia che impediva anche lo sguardo al di là, né egli suppliva con il pensiero e l’immaginazione a quell’impedimento completo della vista, come invece ha fatto Leopardi sul colle dell’infinito. Qui invece è diverso.
Anche qui è fermo sulla linea, ma c’è la casa al mare, che è anche quella dell’infanzia, e perciò il ritorno a casa, come già Ulisse, come Whitman diretto in patria, come la Cantarutti che rotola indietro/ nelle braccia della madre. Ed esso è sempre stato e sarà un ciclo che si chiude, dove la fine coincide con l’inizio. Inoltre, sia pure in modo confuso ed evanescente a causa della foschia, qualcosa s’intravede oltre la riva. Ci sono venti miti, lievi avvallamenti della superficie marina, pigre foschie che a volte qualcosa lasciano intravedere lontano, fino a “la Corsica dorsuta o la Capraia”. Ma soprattutto non è solo: c’è una donna con lui. Paola Nicoli, dicono le fonti, ed è lei che rompe il silenzio a questo punto.
Forse il sentimento che ha ispirato i versi precedenti egli lo ha in qualche modo manifestato, o Paola, che ben lo conosce, immagina i suoi pensieri, perché gli chiede se “tutto vanisce” anche nella memoria, come lì nella marina; se nel torpore e nel lieve rumore della vita, simile a quello delle onde sulla battigia, si “compie ogni destino”.
Ed egli a lei: “vorrei dirti che no”. Anche se per i più non c’è salvezza, forse c’è qualcuno che sovverte ogni disegno e passa il varco, perché così vuole. Lui no, non è di quelli. Però sembra saperne qualcosa di quella via di fuga perché dice alla sua compagna: “ Vorrei prima di cedere segnarti/ codesta via di fuga/ labile come nei sommossi campi/ del mare spuma o ruga”.
Ma perché, se qualcosa sa, si ferma e manda avanti da sola la donna cui è sentimentalmente legato e per di più per una via tanto insicura e vaga? A me è capitato diversamente, per esempio: di andare io davanti, come in avanscoperta, per sapere se l’esile traccia continuava e dove portava, e poi ritornavo a raccontare e a prendere per mano, e così è sempre accaduto. È nella tradizione: nel mito, nelle avventure dei cavalieri medievali, nei poemi, nel patto di divisione dei compiti. Tocca all’uomo di andare avanti e di condurre per le vie nuove, mai percorse prima.
Ma Montale no, perché? C’è la sua risposta: perché non vuole. Ma come: lascia andare la sua donna da sola e lui si ritira! Un pauroso, perciò, un vile. E anche la donna sembra colta da questo sospetto, perché anche se il suo cuore gli è vicino più non l’ode. In quel momento è sola e va da sola.
Ma può un poeta volgere le spalle all’amore, alla conoscenza, alla virtù, al mistero? No, non sarebbe un poeta, non della grandezza di Montale, almeno. Perciò, a questo punto c’è da indagare, c’è da scoprire perché si ferma, e il motivo già si fa avanti. Lo dico subito: ciò che lei sa e persegue e solo una speranza cui il poeta non può più cedere, è una fede cui non può più credere, ma non vuole neppure togliere alla sua donna queste due estreme consolazioni. Questo è il dramma che si sta consumando su quel confine della terra e della vita, vicino alla casa sul mare.
Ciò che la donna sa e su cui si appoggia è cosa antica, depositata nell’inconscio e nella cultura: le mitiche avventure degli eroi nei regni d’oltretomba, quelle dei cavalieri medievali nella foresta impenetrabile e misteriosa, gli attraversamenti degli Inferi degli iniziati nei Misteri, le immersioni dei mistici nella notte oscura e nella caligine, le memorie ancestrali di ciò che siamo stati, come quella del “primo antropoide/ che volle essere uomo”, i regni ultraterreni delle religioni. E c’è, alla fine, il superamento dell’Abisso in questi modi.

Anche Montale queste cose le sa ma non può più indugiare su di esse e continuare ad illudersi. Perché? Perché è poeta e nel mondo della poesia sta già soffiando il vento dello Spirito. Che all’inizio non può essere che estrema povertà e privazione: quella della poesia Meriggiare pallido e assorto…, per esempio, perché per prima cosa quel vento spazza via, libera la marina dalla foschia, e l’onda che solleva spiana la spiaggia, la rende tabula rasa per poterla riscrivere.
Parole nuove già ci sono. In filosofia l’arrivo davanti alla porta del Paradiso del Cusano, la scoperta dell’eterno ritorno di Nietzsche e del ponte fra l’uomo e il superuomo, l’arrivo sulla linea di Heidegger e Jünger. Nella poesia quel che abbiamo già visto anche in queste coincidenze: l’arcangelo in potenza nell’uomo di Aurobindo; l’uomo nuovo di Robertson, tre quarti verbo; perfino, l’ho appena detto, l’estrema indigenza espressa da Montale in tanti suoi versi, perché è sempre necessario arrivare alla fine di una manifestazione perché un’altra cominci.

L’epilogo è triste e sconsolato, perché il poeta e Paola sono arrivati assieme a quella spiaggia e ora si dividono: uno si ferma e l’altra “salpa”. Ma perché non gli ha indicato apertamente la nuova rotta e proposto di andare avanti in compagnia, tenendosi per mano? Un po’ ho già risposto a questa domanda: perché la via di fuga è appena una “ruga” nella sommossa superficie del mare: Ma non è il solo motivo: ecco gli altri. Perché c’è il “varco” da passare, ma cos’è e dov’è il poeta davvero non lo sa. È il mare, certamente, ma vale nel visibile e tangibile. Ma l’altro, quello nella vita? Domanda che non ha ancora, mi sembra, o per quanto ne so, una risposta della poesia. Certamente, invece, ci sono ora esperienze ed idee nel giro della conoscenza chiara e distinta, quelle che ho manifestate nel libro L’antica via dei Miti e dei Misteri. In esso il varco è l’Abisso, che non ha soltanto nome mare ma anche sonno, inconscio, morte. Inoltre varco è anche la Porta, e se per attraversare il primo era necessario costruire un ponte, per aprire la seconda e passare c’era prima un segreto da scoprire. Solo dopo si passa “di là dal tempo”, cioè nell’eternità; ma cos’è il tempo, cos’è l’eternità? Solo chi supera il duplice “varco” poi capisce, ma non il poeta se su quest’avventura non si era ancora messo. Infine l’altra grande esperienza esistenziale, un enigma, che la poesia da sola, forse non avrebbe mai risolto, quello che emerge dalle parole del poeta: “forse solo chi vuole s’infinita”, soltanto qualcuno passa il varco, sovverte ogni disegno e “qual volle si ritrova”. Ciò significa che non c’è più a questo punto l’accettazione rassegnata agli eterni ed immutabili giri della natura, alle ripetizioni cieche e infaticabili: come quelle dei pianeti e delle stelle, delle piante e animali, dell’uomo stesso, ma ora è anche l’uomo che lo vuole. Vuole anche lui, e ad uso proprio, l’eterno ritorno dell’eguale, che finora era in mano al Destino e che ha dovuto sempre subire.
Ma come possono necessità e libertà stare assieme? È questo il problema che ha fatto letteralmente ammattire Nietzsche, che all’eterno ritorno, cieco, insensato, crudele, quello che ti mena dove vuole e quando vuole e tu non sai da dove vieni, chi sei, dove vai, non intendeva più sottostare. Un pensiero abissale questo qui, che ha prodotto nel più grande pensatore dei tempi moderni una sorta di vertigine del pensiero, un cortocircuito che, forse, è stato la causa principale della sua pazzia.
Eppure, in seguito, una spiegazione è giunta: non si trattava di volere qualcosa di diverso da quel che mena il Destino, ma lo stesso che era solo in mano a Lui, e ciò è stato ottenuto con un patto.

Arrivo alla conclusione della poesia di Montale: perché le sue sono ancora intuizioni da svolgere, indicazioni di cui non esiste esperienza, misteri non ancora svelati, il poeta non parte, non può. Si dirà: anche se la nuova via era appena accennata, c’erano però già sufficienti indizi per parlarne e per convincere Paola a non andare da sola per le antiche vie, ma di tentare quella nuova assieme. Ma è capitato anche a me: spesso non si può. Se Paola aveva delle certezze, non si poteva sostituirle con dei dubbi, anche se d’ultima generazione, specialmente se non c’erano sufficienti elementi per convincerla, e Montale non li aveva. Così spesso ho lasciato andare anch’io le persone cui ero sentimentalmente legato, anche se avevo per il mio arco qualche freccia in più di Montale.
Allora si abbandona la persona amata ad antichi smarrimenti o, peggio, illusioni? Neppure questo è vero: le antiche vie non sono false o ingannevoli, ma continui avvicinamenti alla via della conoscenza chiara e distinta, quella che ora esiste in nuce. L’ho detto anche nella Prefazione a coincidenze: la via è una sola e il varco viene comunque superato: da chi ha gli occhi chiusi e dorme profondamente, da chi sogna, da chi vede nel sonno che è presso al risveglio, da chi alla sera va a letto e mette l’ora, o la fissa in sé e al mattino a quello scoccare interiore apre gli occhi, infine da chi prevede prima o riesce ad anticipare il gran viaggio.
Importante è che a fine cammino ci si trovi, e chi più sa quando si arriva e dove, cominci lui per primo la ricerca e la scoperta.