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Giacomo Leopardi, Canto notturno di un pastore errante dell’Asia

11 ottobre 2009

Giacomo Leopardi,
Canto notturno di un pastore errante dell’Asia
Versi 1-38

Che fai tu, luna, in ciel? Dimmi, che fai,
Silenziosa luna?
Sorgi la sera, e vai,
contemplando i deserti; indi ti posi.
Ancor non sei tu paga
Di riandare i sempiterni calli?
Ancor non prendi a schivo, ancor sei vaga
Di mirar queste valli?
Somiglia alla tua vita
La vita del pastore.
Sorge in sul primo albore
Move la greggia oltre pel campo, e vede
Greggi, fontane ed erbe;
Poi stanco si riposa in su la sera:
Altro mai non ispera.
Dimmi, o luna: a che vale
Al pastor la sua vita,
La vostra vita a voi? Dimmi: ove tende
Questo vagar mio breve,
Il tuo corso immortale?

Vecchierel bianco, infermo,
Mezzo vestito e scalzo,
Con gravissimo fascio in su le spalle,
Per montagna e per valle,
Per sassi acuti, ed alta rena, e fratte,
Al vento, alla tempesta, e quando avvampa
L’ora, e quando poi gela,
Corre via, corre, anela,
Varca torrenti e stagni,
Cade, risorge, e più e più s’affretta,
Senza posa o ristoro,
Lacero, sanguinoso; infin che arriva
Colà dove la via
E dove il tanto affaticar fu volto:
Abisso orrido, immenso,
Ov’ei precipitando, il tutto oblia.
Vergine luna, tale
È la vita mortale.

Caspar Friedrich, Luna nascente sul mare (1821)

Caspar Friedrich, Luna nascente sul mare (1821)

Nei primi otto versi c’è il cammino della luna nel cielo, continuo e immutabile, di cui si sa ormai tutto: dove comincia ogni fase, dove finisce, come si ripete. Ed è un continuo riandare, sempre uguale: l’eterno ritorno dello stesso che Nietzsche, come ho già avuto modo di dire in una precedente coincidenza, considerava il peso più grande (vedi la decima coincidenza, Montale, Casa sul mare) e noia e tedio insopportabili. Leopardi invece dice: “ancor non sei tu paga” di questo riandare, di questo contemplare i deserti, “ancor non prendi a schivo, ancor sei vaga/ di mirar queste valli”? Ed è la stessa cosa detta con altre parole: Nietzsche in modo più drammatico. Il supplizio di Sisifo, la condanna di Tantalo.
Questo ritornare ogni volta all’inizio però la rende “immortale”. Comincia, gira, ritorna al punto di partenza, ripete, e così per sempre. Una condizione privilegiata, perciò, quella della luna, rispetto alla vita dell’uomo: perché quest’ultima è peritura, l’altra no.
A questo punto sappiamo cosa vuol dire immortalità: lo insegna il poeta, o c’è una definizione di essa chiara e distinta. Vuol dire compiere il giro completo e poi “riandare”, per i sempiterni calli.
Di fronte ad esso la “vita del pastore” che si sveglia all’alba e prima era nel sonno: ma cos’è il sonno? Egli non lo sa, perciò il suo giro s’è interrotto per lui nella notte. Arriva, in ogni modo, da regioni sconosciute e misteriose e perciò non sa da dove. “Poi stanco si riposa in su la sera”, ritorna nel sonno e non sa dove va. Ecco la differenza con il moto della luna, che invece “sorge alla sera”, si muove nella notte, ma è presente anche nel giorno. Non ha mai staccato dal suo moto, non ha mai interrotto la sua vigile presenza. Essa perciò conosce da dove viene e dove va.
Inoltre le interruzioni notturne del pastore sono segnali d’avvertimento dell’ultima che ci aspetta perché, come dicevano gli antichi, sonno e morte sono fratelli e alla fine si passa dall’uno all’altra. Essa, infatti, appare nella seconda strofa, dove anziché gioventù e sonno c’è vecchiaia e morte.
C’è tutta l’indigenza della vita, la sua precarietà, la sua tragica conclusione nei versi che seguono. In particolare:
C’è la vecchiaia e l’infermità.
La povertà, perché il vecchierel è “mezzo vestito e scalzo”.
La necessità di provvedere al fabbisogno per vivere: la legna per scaldarsi in questo caso.
Ci sono le avversità del tempo: venti, tempesta, caldo torrido, gelo.
Poi la faticosa e perigliosa corsa, varcando torrenti e stagni, cadendo, rialzandosi lacero e sanguinoso.
Per andare dove? Verso l’Abisso e alla fine precipitare in quel buco orrido immenso.Qui la morte ha nome abisso, come anch’io spesso l’ho chiamata.
Povero uomo! Mi pare che dai tempi di Buddha nessuno ha messo a nudo la sua vera condizione come ha fatto Leopardi con questi versi. O forse anche altri, ma lasciando un po’ di spazio all’illusione, alla speranza.

Si dirà: ma la vita umana è anche bella, c’è anche il paese di Bengodi sulle sue terre, tante cose sono attraenti e desiderabili. Ed io rispondo: è come il Luna Park, dove si portano i bambini, ed essi si divertono e non vorrebbero più uscire. Ma poi finisce il giorno, calano le ombre, arriva l’oscurità, chiudono le giostre. E comincia la solitudine, la tristezza, il pianto, il grido.
Per Leopardi la chiusura è definitiva: quello era l’ultimo spettacolo. Riuscito male, fra l’altro, specialmente per il vecchierello.
Buddha, invece, ha meditato sulla dolorosa condizione umana, che termina sempre con la morte, e ha trovato e percorso una via d’uscita che parte dal samsâra o ruota del divenire e porta al Nirvana – da nirva che significa spegnere. Poi l’ha insegnata.
Nirvana
perciò vuol dire spegnimento, ma anche contemporanea Illuminazione: spegnimento del mondo che si lascia, perciò, come si annebbiano e oscurano immediatamente le cose se si alzano gli occhi verso il sole e poi si ritorna ad osservarle, e Luce illuminante per chi ormai è entrato e la guarda apertamente e la sostiene. Perciò anche Nirvana e Illuminazione sono la stessa cosa: la Patria luminosa dove i sapienti sono entrati. Il tragitto per arrivare al Nirvana Buddha l’ha chiamato “Sentiero”.
Esso è soprattutto una via filosofica, anche se è improntata più sulla sapienza che sulla filosofia. Non c’è stata in Oriente la deviazione operata da Socrate e Platone fin dall’inizio. O Buddha, contemporaneo di Parmenide, non ha avuto discepoli o seguaci che hanno deviato dalla via maestra, contravvenendo ai suoi insegnamenti (vedi dodicesima coincidenza, Eliot, The rock). Oppure qualcosa di simile è avvenuto, ma solo alcuni secoli dopo la morte del maestro, all’inizio dell’era cristiana. Alla scuola da lui fondata, chiamata Piccolo veicolo (hinayana), che insegnava la conquista della verità per se stessi, simile perciò alla Via della Verità di Parmenide, si è affiancato il Grande veicolo (mahayana), un sentiero aperto a molti, ed esso assomiglia allora alla via della filosofia iniziata da Socrate e Platone. Perché questo potesse avvenire, l’illuminato (Bodhisattva) evitava di spegnersi nel nirvana e rimaneva per aiutare tutte le esistenze nella ricerca della verità e della liberazione.
Ma questa è un’altra storia che sarà da raccontare, perché è essenziale per la comprensione di ciò che ha separato l’Oriente dall’Occidente per tanti secoli e quel che ora li sta avvicinando.

Ora le note filosofiche.
La prima
: il corso immortale della luna in cielo e quello mortale dell’uomo sulla terra. Certamente non è la luna che sa, che confronta la sua esistenza con quella umana. Essa è un corpo inanimato, non ha coscienza: la sua coscienza è l’uomo, solo lui sa che è immortale. O, in ogni caso, è l’uomo che vede e parla.
E cosa vede? Il vagare breve di sé, perché sa quando comincia e come finisce, e il moto circolare continuo dell’altra. L’abbiamo già visto questo moto, nella poesia Casa sul mare di Montale, dove al posto della rotante luna ci sono “i giri di ruota della pompa” (vedi decima coincidenza Montale, Casa sul mare), o in quella di Novella Cantarutti che inizia così: “Rotolo indietro…”, e tutto ciò che sta dietro, dice la filosofia, è natura naturata e si muove in tondo ­– astri, vita vegetale, animale, umana.
Il confronto perciò è sempre fra il movimento lineare e quello circolare: di chi arriva sulla scena per compiere un tratto di cammino e poi com’è apparso così sparisce, e chi invece svolta, ritorna dove ha cominciato e riprende lo stesso corso.
Ora una domanda: se è solo l’uomo, sempre l’uomo, che vede e parla, non è solo lui, sempre lui, che dà la patente d’immortale alla luna e di mortale a sé? Certamente, ma sulla base dell’esperienza diranno tutti quanti, un’esperienza comune continuamente ripetuta e convalidata. Ciò che, insomma, è evidenza e scienza assieme, se si tiene presente che i risultati di quest’ultima non avvengono per caso, o, anche se ciò accade qualche volta, si possono però ripetere quando si vuole, e solo per questo possono appartenere alla scienza e fregiarsi dei suoi titoli.

Se, dunque, la durata della vita è diversa per la luna e l’uomo, ecco allora la seconda nota, che ha qui la forma di domanda: non può essere la luna immortale perché di essa vediamo tutto il cammino, e noi mortali perché il nostro c’è noto solo in piccola parte? Infatti, per ogni uomo ci sono continue interruzioni misteriose e prefissate anche durante il tratto diurno – quelle del sonno; e c’è poi la fermata e la caduta nel profondo da cui non si risale, o – come dice il poeta – dove tutto si dimentica. Ed è quest’ultima soprattutto che ci fa dire di noi stessi: siamo mortali.
Il primo che l’ha affermato è stato Alcmeone, citato da Aristotele, e quel suo dire suona così: “Gli uomini sono perituri perché non possono congiungere la loro fine al loro principio”.
Conoscenza perciò difettosa e limitata la nostra?
È quello che sto cercando di dimostrare in un impegno che si è già preso, qualunque sia il risultato, tanta parte del mio tempo e mi sta occupando ancora con queste Coincidenze. Esse vogliono essere anche una comunicazione presentata in modo nuovo e con un fondamento indiscutibile: la poesia. In modo che se qualcuno vuole intervenire per dichiararle inattendibili, si trovi a fare i conti anche con lei. Non con i singoli poeti, perché qualcuno potrebbe sentirsi messo a nudo e preferire la veste magica di prima, ma con la poesia, che dovrà adeguarsi perciò anch’essa alla nuova condizione. Dovrà penetrare di più nella parte oscura, quella d’altronde da cui sono giunti gli input fino ad oggi, per cui la provenienza non cambia, e svilupparsi di più nel regno della luce mettendo nuovi fiori e frutti.

La terza nota. Leopardi parla della luna da fuori della luna e come altro da essa, mentre parla dell’uomo dall’uomo. Dal suo interno, voglio dire.
Si obietterà che, come la luna, stanno fuori anche il pastore e il vecchierello. Ma non è la stessa cosa. Essi sono uomini, non sono altra cosa dal poeta, e ciò che vale per loro vale anche per lui. Tutti e tre sono mortali, tutti e tre seguono la stessa strada altalenante fra la luce e l’oscurità e nella zona buia sono trasportati e non hanno occhi per vedere. Poi c’è l’Abisso dove tutti vanno a finire.
A questo punto, ecco che appare la possibilità per l’uomo di saperne di più di sé. Se delle cose del cielo come la luna conosciamo tutte le sue fasi e il suo eterno riandare perché le vediamo da fuori e come altro da noi stessi, allora anche per vedere l’intero nostro cammino dobbiamo uscire. Da noi stessi a questo punto. È ciò che ho chiamato anche uscita dal mondo o dal labirinto.
Dopo c’è l’Abisso, ma arrivando sulla sua sponda ad occhi aperti e anticipando il tempo del suo ineluttabile accadere, già si comincia ad accorgersi di tutto il cammino e a far progetti. Com’è accaduto a Heidegger e Jünger dopo che sono giunti sulla linea di Mezzanotte (vedi quinta coincidenza, Aurobindo).
Uscir dal mondo o dal labirinto, perciò, è il primo importante risultato. Di esso ho già parlato in alcune precedenti coincidenze (vedi coincidenze prima, seconda, terza, nona e undicesima).

Quarta nota. Chi è che si innalza e guarda da fuori?
A questo punto, per vedere tutto il cammino, anche il semicerchio notturno, non è più sufficiente l’Io, ci vuole il Sé, l’ultima conquista dell’Occidente nel campo del soggetto.
Quello che nella poesia d’Aurobindo ha nome arcangelo (vedi quinta coincidenza, Aurobindo). Oppure quell’essere “un quarto uomo,/ tre quarti verbo” di Robertson (vedi nona coincidenza, Robertson, Andrà a ovest). O quello che vuole passare “di là dal tempo” di Montale (vedi decima coincidenza, Montale, Casa al mare).
Visto dai padri fondatori della psicanalisi, il Sé non è solo la parte in luce ma anche tratto d’Oceano vicino alla terra emersa. Quest’ultima è l’autocoscienza, l’altra è simile al bassofondo che gli olandesi hanno strappato al Mare del nord, imbrigliandolo con le loro dighe: a quell’opera Freud ha paragonato il lavoro della psicanalisi nella parte a notte dell’uomo e dell’umanità (vedi settima coincidenza, Kavafis, Candele). Della stessa cosa, vale a dire del Sé, Jung ha detto che è coincidenza di conscio e inconscio (vedi settima coincidenza, Kavafis, Candele).

P.S.
Lungo la via della conoscenza, prima di arrivare all’uscita dal mondo o dal labirinto, ho visto anch’io segnali che indicavano quella tappa. Ne riporto due che mi hanno particolarmente colpito, e un eguale effetto potrebbero produrlo in chi li legge.
Il primo: “C’è un altro che non vedo che comanda,/ come io comando a quelli che stanno sotto./ E mi comanda di assumere il comando/ perché egli è stato innalzato”.
Il secondo: “Se già osservo il vegetale e l’animale che stanno sotto/ allora potrò vedere anche l’umano/ se mi hanno detto di salire ancora”.
Questa è invece la conclusione che s’impone: Io sono uscito da me per dire di me stesso: c’è il giro completo della vita che tu puoi vedere e ripetere se vuoi. Ma ora dipende da te e non perché costretto.

Oggi, prima dell’alba…

18 giugno 2009

Walt Whitman, Oggi, prima dell’alba…

Walt Whitman

Walt Whitman

Oggi, prima dell’alba, sono salito su un colle
e ho guardato il cielo affollato,
e ho detto al mio spirito:
‘Quando avremo abbracciato tutti questi mondi
e goduto e saputo ogni cosa di essi,
saremo sazi e soddisfatti, dopo?’
E il mio spirito disse:
‘Arriveremo a quel limite per superarlo
e proseguire oltre.’
[…]

Questa poesia l’ho letta sulla quarta di copertina del libro di Grazia Sacchi intitolato Per te per sempre e mi ha subito colto il desiderio di tradurla.
Eppure un altro Whitman, dopo Dai lidi della California, non era in previsione, a così breve data almeno.
Perché allora? Perché è una naturale continuazione della prima o, almeno, così essa m’è apparsa al primo sguardo.
Perché anche a me, dopo l’arrivo alla Porta e aver messo i piedi sulla soglia, prima di proseguire oltre, è capitato proprio così: volgendomi a vedere, ciò che lasciavo era uguale alla visione del poeta, era l’universo tutto in una volta. Whitman vede il cielo affollato e lo coglie tutto in un abbraccio; io tutte le stelle alle mie spalle, “immerse in una sfera di pensiero”. Probabilmente – ora mi sembra – nella luce che usciva dal battente ormai aperto sulle due dimensioni.

Così si è presentata tutta la scena: “Se ti accade di accostarti a quella porta/ e di affacciarti, vedi gran luce/ e le stelle e le galassie stanno alle tue spalle/ immerse in una sfera di pensiero”. Oppure così, ed è la stessa: “T’affacci sul divino della luce quando incontri la Porta/ e da lì ti accorgi che le stelle e le galassie/ sono scintille di essa sparpagliate/ dentro l’interno che si lascia”.
Qui, allora, la parola della poesia e quella della filosofia sono la “stessa cosa”, ecco la sorpresa!
Le due si sostengono a vicenda, e si danno origine fra loro, ecco la novità!
E ciò che risulta dalla coincidenza è un linguaggio nuovo, necessario all’impresa che stava incominciando.

A guardar bene, anzi, non è neppure una novità. L’ha previsto Heidegger, per esempio, quando egli è giunto sulla linea di mezzanotte che corrisponde al confine di questo mondo di cose e di pensiero, e perciò anche di fronte all’abisso che comincia subito dopo. Egli ha affermato che in quel punto il linguaggio, in uso di qua, non era più adatto. A cosa? Ad andare avanti, vale a dire ad attraversare quel baratro e mettere piede sull’altra sponda dove c’è la porta. Ecco a cosa non bastava più la “parola” usata in questo mondo, anche quella della filosofia (Heidegger, per primo, giunto sulla linea, ha pensato che il nostro dire venga meno al momento del suo superamento e che sia perciò necessario un altro linguaggio. Così egli si è espresso. “È sufficiente che questo linguaggio sia universalmente comprensibile, o vigono qui altre leggi e altre misure, così uniche nel loro genere quanto l’istante della storia del mondo che segna il compimento planetario del nichilismo e l’esplicazione della sua essenza?” [Ernst Jünger-Martim Heidegger, Oltre la linea, Adelphi, pag. 144]. Poi, nella stessa occasione: “In che linguaggio parla lo schema fondamentale del pensiero che prefigura un attraversamento della linea? Il linguaggio della metafisica della volontà di potenza, della forma e del valore deve essere salvato di là della linea critica? E in che modo, se proprio il linguaggio della metafisica e la metafisica stessa, sia essa del Dio vivente o del dio morto, hanno costituito in quanto metafisica il limite che impedisce il passaggio oltre la linea, cioè l’oltrepassamento del nichilismo?” (Ernst Jünger-Martin Heidegger, Oltre la linea, Adelphi, pag. 138). Domande che sono rimaste senza risposta in quel tempo, ma che aleggiavano da qualche parte dal momento che qualche decennio dopo la linea è stata superata. Ed ora, ecco che si è presentata l’occasione di sapere in cosa consiste il nuovo linguaggio: è la coincidenza di poesia e filosofia).
La stessa cosa d’altronde che capita ai mistici quando arrivano al punto α  e ω, – e le cose che sentono e gustano non si possono esprimere con parole né pensieri; o ai grandi poeti, com’è capitato a Dante in Paradiso al cospetto di Dio.

In seguito però la linea è stata superata, e chi è andato oltre non si è posto il problema del linguaggio. Piuttosto un altro linguaggio è venuto da sé quando l’impresa è incominciata. È cominciata perché un nuovo linguaggio era a disposizione, o era a disposizione perché è iniziata? Le due cose stanno assieme mi sembra, c’era coincidenza. Ciò corrisponde a quel che è sempre accaduto in questi momenti: che sono la stessa cosa il pensare e l’esistere (“Infatti identico è il pensare e l’esistere”, Parmenide, testimonianze e frammenti, Frammento 3, a cura di Mario Untersteiner, La Nuova Italia Editrice, Firenze.).

Ora però a cose fatte si potrebbe essere colti dalla curiosità di andare un po’ a fondo, quel che sta accadendo con queste coincidenze su queste pagine; e l’occasione l’ha offerta la poesia in esame di Whitman e la coincidenza fra essa e il pensiero filosofico che mi ha accompagnato nel passaggio della linea e durante la traversata dell’abisso, che è balzata subito agli occhi quando l’ho vista.
Perciò la domanda suona così: qual è, cos’è il nuovo linguaggio? La risposta: è poesia consapevole. Ciò potrebbe significare che la sua origine non è più oscura com’è stata fino ad oggi, con nomi noti e usati ma ognuno isolato e chiuso nella sua impenetrabilità: sentimento, intuizione, amore. Ora ha anche un aspetto, vale a dire qualcosa s’intravede in quel che era senza porte e finestre.
Il linguaggio di oltre la linea dovrebbe essere allora quello che ho segnato su queste pagine e sta scorrendo ancora. Queste “coincidenze”, perciò, specialmente questa qui che sto scrivendo. Cerco di entrare un po’ di più nel cuore del problema.

Nella poesia in esame ci sono due attori: il poeta in carne ed ossa e il suo invisibile spirito. Il primo sale su un colle all’alba e da lì guarda il cielo, lo vede “affollato” di stelle e chiede al secondo: ‘Quando avremo abbracciato tutti questi mondi/ e goduto e saputo ogni cosa di essi,/ saremo sazi e soddisfatti, dopo?’ E il suo spirito risponde:
‘Arriveremo a quel limite per superarlo/ e proseguire oltre.’ […]
Ora non c’è nessuno, sano di mente come qui si dice, che crede davvero che il poeta possa abbracciare l’universo fisico che, secondo la stima degli scienziati, ha un diametro di tredici miliardi d’anni luce. Motivo per cui si proclama: si tratta di una licenza poetica. Da cui il giudizio tanto caro ai più: il poeta è un visionario che galoppa con la fantasia, uno che scambia le lucciole per lanterne.
E se invece fosse “vero” quel che dice? Vero che tutti questi mondi si possono abbracciare? Del resto, non stanno già tutti quanti nello sguardo!

A questo punto giunge a sostegno la filosofia che conferma: si può. Si può coglierli tutti in volta con il pensiero e la figura che così risulta diventa superabile e si può lasciarla alle spalle. Quel che è capitato a me d’altronde prima dell’attraversamento della linea di mezzanotte e ho chiamato quest’avvenimento uscita dal labirinto, e il labirinto era il mondo (si veda anche L’antica via dei miti e dei misteri, percorsa ora con in mano la lampada della conoscenza filosofica).
Perciò il pensiero poetico filosofico di quel momento propizio: le stelle e le galassie stanno indietro, immerse in una sfera di pensiero.
Ecco un’altra indicazione di quell’evento che m’è toccato quando ho raggiunto il confine del mondo e prima di affrontare l’abisso. “Superando la linea/ quest’intero raccolto, cioè il mondo,/ ti appare tutto incluso/ nella sfera che si lascia”.
Parole che corrispondono esattamente a quelle del poeta: “Arriveremo a quel limite per superarlo/ e proseguire oltre”. E questi versi, ora che hanno il sostegno della filosofia, non suonano più da incredibili o assurdi. Perché ora quel confine è stato davvero raggiunto e superato.

e goduto e saputo ogni cosa di essi,

saremo sazi e soddisfatti, dopo?’

E il mio spirito disse:

‘Arriveremo a quel limite per superarlo

e proseguire oltre.’ […]

Una poesia di Satprem*

21 marzo 2009
* ERRATA CORRIGE
Su gentile segnalazione della nostra lettrice Namaskar, provvediamo a correggere l’errore commesso attribuendo a Sri Aurobindo la poesia Siamo gli arcangeli dolorosi di un mondo che cambia che invece è di Bernard Enginger, meglio noto come Satprem, suo continuatore nel pensiero e nell’opera.

Sri Aurobindo

Sri Aurobindo

Siamo gli arcangeli dolorosi di un mondo che crolla,
siamo i figli di una nuova razza non ancora nata,
ma che vive attraverso di noi
come un vento carico di minacce e di polline nuovo.
Non sappiamo cosa vogliamo dire,
il nostro oracolo è sigillato,
i nostri sogni oscuri, i nostri segni contraddittori.
Non abbiamo la chiave,
ma siamo fermi davanti ad una nuova soglia,
a battere alla porta,
a batterla come dovette farlo nella foresta
il primo antropoide, che volle essere uomo.
E invece ci perdiamo nella rivolta,
ci perdiamo nell’orgoglio dei ricchi
o nel fascino del rifiuto.
Ci perdiamo nella seduzione del governo o dei sogni.
Ma il nostro senso non è essere vittime, né fuggire,
il nostro senso è al di là della rivolta,
Il nostro senso è bussare a questa porta,
gridare come i bambini nella notte finché la porta si apra.

È la poesia solo un modo diverso di scrivere, in versi e rime, per esempio, anziché in prosa, e solo questi aspetti sensibili costituiscono la sua diversità? Indubbiamente è anche questo, vale a dire apparenza, ma se non ci fosse anche altro che la distingue, per quella sola, per quanto bella e preziosa, non varrebbe la pena di tenerla in tanta considerazione e di occuparsi intensamente di lei, come sto facendo io su queste pagine. Invece è anche altro; è suono che sale dal profondo dov’è tenebra e mistero e ogni volta illumina e svela.

È voce del tramutare la poesia, o – come ha detto Dante – del trasumanare; come ben mi hanno avvertito alcuni segnali che si trovano lungo la via filosofica che collega la vita alla morte. Due di essi suonano così: “Soltanto la poesia segue la vita/ o gli abbraccia il collo/ come un fanciullino.” “Se non è vita la poesia/ lasciala andare./ O è voce, se vuoi, del tramutare”.

Bernard Enginger Satprem (1923-2007)

Su tale piano, di parola d’inizio e fine assieme, di vita e morte assieme, si colloca anche la poesia di Bernard Enginger, meglio noto come Satprem, che ho scelto per presentare qui un’altra figura, quella di Sri Aurobindo, suo maestro e guida.

Sri Aurobindo è nato a Calcutta il 15 agosto 1872. Nel 1879 il padre lo invia in Inghilterra, dove compie studi classici e nel 1890 viene ammesso nel prestigioso King’s College di Cambridge. Durante i quattordici anni di soggiorno in Inghilterra egli acquisisce una vasta conoscenza della cultura europea antica, medievale e moderna. Poi nel 1893 ritorna in India dove si dedicherà alla letteratura e alla politica.
Nella letteratura, che è ciò che qui interessa, egli ha illustrato la propria visione del mondo e dell’evoluzione realizzando quella che Romain Rolland ha definito “la più vasta sintesi mai realizzata tra il genio dell’Asia e quello dell’Europa”, mentre Aldous Huxley parlerà di lui come del “Platone delle generazioni future”. In quest’opera il posto preminente è occupato dalla poesia che è stata, come lo stesso Aurobindo ha affermato, il suo principale veicolo espressivo. In quanto al suo pensiero filosofico, il suo biografo lo ha condensato così: “Mentre la maggior parte dei percorsi mistici del passato portavano ad un aldilà che sboccava ineluttabilmente al di fuori della vita terrestre, l’ascesa spirituale compiuta da Sri Aurobindo costituisce il preludio di una discesa della luce e del potere dello Spirito nella Materia, allo scopo di trasformarla. Sri Aurobindo vede (proprio come gli antichi Rishi che composero i Veda) che il mondo manifestato non è un errore o un’illusione che l’anima dovrebbe rigettare per far ritorno al cielo o rientrare nel Nirvana: il mondo è la grande scena di un’evoluzione spirituale, un’evoluzione o avventura della coscienza per mezzo della quale dall’Incoscienza originaria si va sviluppando una manifestazione progressiva, in divenire, della Coscienza Divina, celata fin dall’origine o involuta nella Materia. La mente rappresenta la più alta vetta finora raggiunta dall’evoluzione, ma non è la più elevata in assoluto. L’uomo stesso, afferma Aurobindo, e soltanto un essere di transizione“.
Con queste notizie che avvicinano Oriente ed Occidente nel modo della filosofia, e che sono utili alla comprensione della sua poesia e alla traduzione di essa, mi accingo a svolgere questo compito.

Se la poesia di Satprem si colloca dove qualcosa finisce e altro incomincia, dov’è, cos’è quel punto?
È in noi, siamo noi: ma chi siamo noi?
“Arcangeli dolorosi”, recita la poesia. Quindi, in quella posizione, non uomini come siamo stati finora, ma ciò che saremo, o l’una e l’altra cosa assieme. Perché è normalmente e comunemente accolta l’idea, in chi crede nell’evoluzione, che l’angelo viene dopo l’uomo nella lunga strada di ciò che egli è stato, è e sarà. Siamo in movimento, perciò, e qui siamo colti in un tempo di trasformazione. C’è intuizione di quel nuovo stato e il poeta è già in essa e parla da quella posizione, e chi coglie le sue parole alza gli occhi, si muove a quel suono e va verso quella fonte.
Si abbandona, allora, il mondo della comune e universale concezione
. Si lasciano queste apparenze che sembrano rassicuranti a molti: c’è oggi la scienza, la tecnica, il dominio della natura, l’abbondanza di cibo. Ci sono le città, gli ospedali, case confortevoli, mezzi di comunicazione veloci. La dittatura è stata sconfitta, il colonialismo pure, c’è la democrazia e nei tempi in cui è stata scritta la poesia, molti credevano ancora alle “magnifiche sorti e progressive dell’umanità”. Invece le cose non sono così, o non lo sono più in maniera stabile e rassicurante. Nel punto dove siamo arcangeli, c’è il “mondo che crolla”, perciò “dolorosi”. Inoltre non ancora nati, o presenti come prototipi o come possibilità, perché la razza che può assicurarci la vita sicura e la continuità ancora non c’è. È solo in potenza – direbbe Aristotele – che distingue quel che c’è ma in modo nascosto e segreto, da ciò che invece appare. Potenza oggi, atto domani, dopo l’uscita nella luce e lo sviluppo. Ma così in potenza – o in seme se vogliamo collegare l’idea a qualcosa già esistente in natura –, non sappiamo come sarà la pianta. La razza non è ancora nata, dice il poeta. Non c’è, come in natura, per le cose che già sono e che continuano, i due aspetti assieme, vale a dire seme e pianta, uova e gallina, che si danno nascita fra loro, ma ciò che sarà “vive attraverso di noi/ come un vento carico di minacce e di polline nuovo”. Le minacce sono il mondo che crolla. Il polline nuovo, gli elementi fecondatori dell’angelo.
Giunto a questo punto, faccio un passo indietro: al mondo che crolla; perché?

Perché si è giunti ad una fase d’occultamento dell’Essere – dice la filosofia per bocca di Heidegger, uno dei suoi figli maggiori –, oggi sempre più evidente dagli effetti che produce, anzi non c’è più quella fonte illuminante perché è scesa sotto l’orizzonte umano, come il sole supera quello della terra quando muore il giorno.
Perché dopo un lungo sviluppo nella luce della ragione è sceso il Tramonto sulla filosofia del Giorno, quella che va da Socrate a Hegel. Sono cominciate le prime ombre più di cent’anni fa ed oggi è notte, anzi tenebra profonda per la maggior parte dei suoi abitanti. Questo stato del mondo l’Occidente lo chiama nichilismo, ed oggi esso è diventato condizione normale.
Oppure per l’Oriente il mondo crolla perché è giunta l’ora del Kali-Yuga o “epoca oscura”, di totale decadenza metafisica, in cui è possibile ogni specie di confusione spirituale e di crimine, ultima tappa di un ciclo che si conclude. Buddha e Parmenide sono contemporanei, perciò nello stesso tempo l’Essere si è manifestato in Oriente e in Occidente e dopo venticinque secoli è scomparso.
Arcangelo in potenza nell’uomo, dunque, l’umano d’oggi, come lo è stato l’uomo nel “primo antropoide” che volle compiere il salto per mutare. Ma così la voce umana è flebile e balbettante, egli sente, intuisce, sogna, ma non sa. E quella del nascituro ancora dentro la matrice. Perciò, afferma il poeta, “non sappiamo cosa vogliamo dire/ il nostro oracolo è sigillato,/ i nostri sogni oscuri, i nostri segni contraddittori”. Finché non si giunge davanti a una porta chiusa.

In queste grandi avventure della mente, volte a superare i confini dell’umana natura, e il più buio e misterioso è quello della morte, una porta che si è aperta c’è in ogni linguaggio. Ne presento alcune.
Nei cicli della natura che si vedono e si toccano, porta è il foro nella terra da cui entra il seme e spunta il germoglio a primavera. Oppure è l’alba, il momento e il luogo dove la notte finisce e nasce il giorno. O è la vulva, dove è introdotto il seme della vita animale e umana e poi esce il neonato nella luce del sole e della mente.
Nel mito è la porta degli Inferi, da cui sono entrati per compiere le loro più grandi avventure tanti eroi antichi: Ercole, Teseo, Orfeo, Ulisse. ed alcuni sono riusciti ad uscire. Per Giasone, il capo degli Argonauti diretti alla conquista del Vello d’oro, quel passaggio si chiamava Symplegades, ed era formato da due scogli rocciosi del Mar Nero che si muovevano l’un contro l’altro sotto l’azione di forze oscure. Giasone riuscì a passare in mezzo ad essi con la sua nave e da quel momento sono rimasti aperti ed immobili in quel mare .
Nelle religioni è la porta del Paradiso, che Adamo ed Eva hanno superato in uscita, quando sono stati cacciati da quel luogo di delizie. Oppure, per il profeta Giona, quel foro è stato bocca della balena. O è la Pasqua di resurrezione, che ha avuto per protagonista Gesù, ma è poi rimasta aperta per tutti i battezzati nel suo nome.
Nella poesia è la porta d’avorio. È nominata nell’Eneide e l’ha superata Enea il fondatore di Roma. Egli discese nell’Averno, attraverso lo spaventoso fiume dei morti. La Sibilla che l’accompagnava gettò una focaccia al cane guardiano, il tricefalo Cerbero, ed Enea poté alfine parlare con l’ombra del proprio padre Anchise. Molte cose gli furono rivelate laggiù: il destino delle anime, il destino di Roma, ch’egli stava per fondare, “ed in qual modo egli avrebbe potuto evitare o sopportare qualsiasi fardello .” Poi, attraverso la porta d’avorio, fece ritorno ai compiti che lo attendevano nel mondo. Oppure è la bocca di caverna, come nel caso di Parsifal, che è uscito da essa rinnovato e capace di conquistare il Graal.
Nella fiaba, per Pinocchio è ancora bocca di balena, da cui il burattino è uscito per mutare in un bambino.
Nella sapienza è la porta che divide i sentieri della notte e del giorno, e si è aperta a Parmenide dopo che è uscito dalla casa della notte. O è il Risveglio, così è stato visto e vissuto il passaggio da Buddha ed Eraclito. Oppure nel Tao Tê Ching è la “Porta di tutti gli arcani” , o “Porta della misteriosa femmina/ [che] è la scaturigine del Cielo e della Terra” .

Aurobindo certamente non ignorava l’esistenza di queste porte e cosa significavano, ma nella sua poesia la porta è chiusa. È quella di sempre che s’è rinchiusa oppure un’altra? È la stessa, ne sono sicuro, perché molte indicazioni della via circolare ne hanno sempre additato una sola; una sola porta su vari piani, lontana e vicina. Lontana come quella del mito, dove il passaggio è avvenuto come in un sogno, o più vicina come quella di Parmenide, che è stata superata davvero, come qui si dice per distinguere e separare nettamente. Superata da una razza però, da un popolo, da una civiltà, ed è nato l’Occidente da quel passaggio, questo dove ancora ci troviamo.
Se la porta di Aurobindo è chiusa, allora dovrebbe trattarsi di qualcosa ancor più vicino, quella dove può passare il singolo, questa volta, adatta a lui, che s’apre solo per lui.
E ai tempi in cui è stata scritta la poesia, era ancora chiusa la porta della filosofia, l’unica rimasta inviolata dopo secoli di ricerca. Sembra proprio, perciò, che si tratti di quella anche perché si era per strada e la parte finale del cammino, il più misterioso e tenebroso, era ancora da percorrere. Anzi non esisteva, si è fatto camminando. La porta è stata vista però, ma da lontano e, appunto, chiusa.
L’ha vista così Nicolò Cusano che l’ha chiamata “porta del Paradiso”, e divideva questo mondo di cose a metà e contraddittorie da quello dove gli opposti coincidono, dove c’è anche Dio.
L’ha vista Nietzsche e l’ha chiamata “portone carraio”, ma era chiusa e non è riuscito ad aprirla; o solo in sogno in una notte di luna piena, nel “più profondo silenzio di mezzanotte, quando anche i cani credono agli spettri”.
Heidegger e Jünger hanno calcato la sua soglia, hanno chiamato quel valico “linea di mezzanotte” e hanno discusso di esso, se si poteva superarlo e come.
Infine c’è la porta che ho raggiunto io percorrendo la via circolare della filosofia lunga venticinque secoli, e dopo cinquant’anni della mia vita dedicata ad essa per progettarla e seguirla. Sono giunto a quella porta circa quindici anni fa, seguendo molti cartelli che la segnalavano e indicavano.
E l’ha vista, dunque, Aurobindo, anch’egli nei modi della filosofia, io credo, o solo a quello qui mi riferisco, ed ha bussato, “sapendo che il nostro senso è bussare a questa porta/ gridare come i bambini nella notte, finché la porta si apra”. Ma non era ancora giunto il tempo propizio.
Anche per quel bussare ininterrotto in Occidente e in Oriente, la porta, io credo, si è ripresentata qualche decennio dopo, e quando tutto il percorso circolare che conduce ad essa è diventato chiaro e distinto. Quando, dopo il superamento dell’abisso con un ponte stabile, anche se per ora rudimentale, sono riuscito a raggiungerla in modo sicuro e continuo, e svelando il suo segreto ed aprirla.
Dovrebbe ora rimanere così.

Inni alla notte

13 marzo 2009

Novalis, Inni alla notte, Mondadori 1982

Novalis

Novalis

Inno primo

Quale vivente, dotato di senso, fra tutte le magiche parvenze dello spazio che si dilata intorno a lui, non ama la più gioiosa, la luce con i suoi colori, i suoi raggi e onde; la sua mite onnipresenza di giorno che risveglia. Come l’anima più intima della vita la respira il mondo immane delle costellazioni senza quiete, e nuota danzando nel suo flutto azzurro la respira la pietra scintillante, in eterno riposo, la pianta sensitiva che sugge, e il multiforme animale istintivo ma soprattutto lo splendido intruso con gli occhi colmi di sensi, il passo leggero, le labbra dolcemente socchiuse, ricche di suoni. Come un sovrano della natura terrena, essa chiama ogni forza a metamorfosi innumeri, annoda e scioglie alleanze infinite, avvolge la sua immagine celeste intorno ad ogni creatura terrestre. La sua sola presenza rivela l’incanto dei reami del mondo.
In plaghe remote mi volgo alla sacra, ineffabile, arcana notte. Lontano giace il mondo
sepolto nel baratro di una tomba squallida e solitaria la sua dimora. Nelle corde del petto spira profonda malinconia: In gocce di rugiada voglio inabissarmi e mescolarmi alla cenere. Lontananze della memoria, desideri della giovinezza, sogni dell’infanzia, brevi gioie e vane speranze dell’intera e lunga esistenza vengono in grigie vesti, come nebbie vespertine dopo il tramonto del sole. In altri spazi la luce ha piantato le sue tende gioiose. Non tornerà mai dai suoi figli, che l’attendono in ansia con la fede degli innocenti?
Che cosa d’improvviso sgorga così carico di presagi sotto il cuore, e inghiotte l’aura tenue della malinconia? Anche tu trovi piacere in noi, oscura notte? Che cosa tieni sotto il tuo manto, che con forza invisibile mi tocca l’anima? Delizioso balsamo stilla dalla tua mano, dal fascio di papaveri. Le ali grevi dell’animo tu innalzi. Ci sentiamo pervasi da una forza oscura, ineffabile
un volto severo vedo con lieto spavento, che si piega su di me devoto e soave, e sotto i riccioli che senza fine s’intrecciano, mostra la cara giovinezza della madre. Come misera e puerile mi sembra ora la luce – come grato e benedetto il commiato dal giorno – Solo per questo quindi, perché la notte discosta da te i fedeli, tu seminasti per l’immensità dello spazio le sfere splendenti per annunciare la tua onnipotenza il tuo ritorno nei tempi della tua assenza. Più celesti di quelle sfere scintillanti ci sembrano gli occhi infiniti che la notte dischiude in noi. Così lontano non vedono le più pallide di quelle schiere innumerevoli senza bisogno di luce penetrano con lo sguardo gli abissi di un’anima amante il che colma uno spazio più alto di voluttà indicibile. Premio della regina del mondo, della eccelsa abitatrice di mondi sacri, custode di amore beato a me ti manda amata soave caro sole della notte, ora veglio. Perché sono Tuo e Mio tu mi hai rivelato che la notte è vita mi hai fatto uomo consuma con ardore spettrale il mio corpo, così che io mi congiunga etereo più intimamente con te e la notte nuziale duri in eterno.

Inno secondo

Deve sempre ritornare il mattino? Ma non finirà la violenza di ciò che è terrestre? Un nefasto affaccendarsi divora il volo celeste della notte. Non brucerà mai in eterno il segreto olocausto dell’amore? Misurato fu alla luce il suo tempo; ma senza tempo e senza spazio è il dominio della notte. Eterna è la durata del sonno. Sacro sonno non donare troppo di rado la gioia agli iniziati della notte in questa terrestre diurna fatica. Solo i folli ti disconoscono e ignorano un sonno diverso dall’ombra che tu getti, per pietà, su di noi, in quel crepuscolo della notte vera. Non ti sentono nell’aureo fiotto del grappolo, nell’olio prodigioso del mandorlo e nel bruno succo del papavero. Non sanno che aleggi intorno al seno tenero della ragazza e fai un cielo di questo grembo – non presagiscono che tu provieni da antiche leggende schiudendo il cielo e porti la chiave per le dimore dei beati, tacito nunzio di misteri infiniti.

Inno terzo

Un giorno che versavo amare lacrime, che la mia speranza si dileguava dissolta in dolore, e io stavo solitario vicino all’arido tumulo, che nascondeva in angusto oscuro spazio la forma della mia vita solitario, come non era mai stato nessuno, incalzato da un’angoscia indicibile senza forse, non più che l’essenza stessa della miseria. Come mi guardavo attorno in cerca d’aiuto, non potevo proseguire né arretrare, e mi aggrappavo alla vita sfuggente, spenta, con nostalgia infinita allora venne dalle azzurre lontananze: dalle alture della mia beatitudine un brivido crepuscolare e d’un tratto si spezzò il cordone della nascita, il vincolo della luce. Si dileguò la magnificenza terrestre e il mio cordoglio con essa confluì la malinconia in un nuovo imperscrutabile mondo tu estasi della notte, sopore del cielo ti posasti su di me – la contrada si sollevò poco poco; sopra la contrada aleggiava il mio spirito sgravato e rigenerato. Il tumulo divenne una nube di polvere attraverso la nube vidi i tratti trasfigurati dell’amata. Nei suoi occhi era adagiata l’eternità io afferrai le sue mani e le lacrime divennero un legame scintillante non lacerabile. Millenni dileguarono in lontananza, come uragani. Al suo collo piansi lacrime d’estasi per la nuova vita. Fu il primo, unico sogno e solo d’allora sentii eterna, inalterabile fede nel cielo della notte e nella sua luce, l’amata.

*

La vasta e numerosa letteratura – quella grande, s’intende! – è il racconto di un’avventura iniziata alcuni millenni fa, continuamente ripetuto in tante lingue e in innumerevoli modi, ascoltato dalle generazioni che si susseguono sulla Terra e nell’aperto luminoso del sole e delle stelle, che solo ai nostri giorni ha trovato una maggiore chiarezza e distinzione nel campo della conoscenza razionale?
Questo è ciò che ho cercato di dimostrare, indagando e trasformando in idee filosofiche le intuizioni poetiche di Per sempre di Grazia Sacchi, Il cerchio e la linea di Novella Cantarutti e una poesia della raccolta Foglie d’erba di Whitman; e ora la dimostrazione continua con altre.
Naturalmente non esiste soltanto la letteratura impegnata fino a tal punto, vale a dire fino al periplo della terra e del pensiero: avventura immane non ancora conclusa in modo chiaro e distinto, che, come ho già detto, ci sta impegnando fin da quando la civiltà è cominciata e sembra che non sia retaggio soltanto dell’Occidente. C’è anche quella minore o secondaria, che serve come evasione, da passatempo, o scacciapensieri, quella che molti mettono nella valigia delle vacanze, o tengono sul comodino, per dilettarsi con qualche riga o qualche pagina alla sera prima di addormentarsi. Ma essa è un’altra cosa.
Ritorno alla prima per rimanerci per un po’, finché almeno non riuscirò a mettere assieme una mappa completa dell’avventura più grande, ricorrendo ad aspetti di essa che si sono manifestati lungo il millenario soggiorno dell’uomo sulla Terra.
Un lavoro che ho già cominciato, dunque, indagando e interpretando le precedenti poesie: esse sono già tracce di quella mappa ed ora continuo con Inni alla notte di Novalis, poi si vedrà.

Dei tanti modi in cui l’avventura è stata raccontata, qui mi sono attenuto soltanto a quello espresso dalla poesia. Ma anche in questa lingua, numerosi sono i nomi dati ai protagonisti, tante le varianti alla via, innumerevoli gli incroci, le difficoltà incontrate, gli enigmi sciolti, le prove superate, le battaglie combattute e vinte, i mostri affrontati e uccisi. Ma se è parola di poesia quella che li esprime, anche i particolari sono tessere di quel mosaico da cui si può intravedere il tutto. C’è da dire, inoltre, che non sempre tutta l’avventura è adombrata per intero nelle poesie prese in esame e nelle altre che seguiranno, anzi quasi mai: spesso c’è solo l’arrivo, per esempio, e l’amore che muove fino a quel punto.
Poi però ci sono i grandi poemi che presentano l’intero sogno, o quasi: la Saga di Gilgamesh, L’Odissea, L’Eneide, La Divina Commedia, il Faust; ma essi sono già nei loro campi delle mappe complete. Mappe che contengono molte indicazioni e chi sa leggerle, riesce ad arrivare fin presso al nascondiglio del tesoro e qualcuno, in qualche modo, a raggiungerlo e vederlo.

Perché questo viaggio immenso condotto sulla via della cultura?
C’è un perché e salta subito alla mente di chi ascolta o legge appena viene detto o scritto: perché riprende e continua quello della natura, che ci fa così come siamo, con un corpo per partecipare a ciò che si chiama vita in uno scenario che ha nome mondo; da cui però si scompare e c’è tenebra e mistero dopo il confine. Il movente, dunque, è il fondo oscuro che sta alla base d’ogni sapere, è il primo e fondamentale giro ignoto nella parte a morte e che nell’altra fa apparire e sparire tutte le cose in un continuo andirivieni. Per esempio, ritorna il sole ogni mattina e scompare alla sera, si ripetono le costellazioni nella volta visibile del cielo, spuntano i fiori in primavera, vengono alla luce gli animali e gli uomini e poi rientrano nelle tenebre e mistero da cui sono venuti; ma questo incessante andirivieni, non è in mano ai singoli, cose o viventi, anche i più evoluti, che non sanno perciò da dove vengono, chi sono, dove vanno. Ed è per sapere di esso, per illuminare quella tenebra, per svelare il suo segreto, che fin dall’inizio delle civiltà esistono negli uomini i semi di coscienza espressi dai miti, dai misteri, dalle religioni, dalla poesia, dalla sapienza, dalla filosofia, e si dovrebbe sempre più avvicinarsi in modo chiaro e distinto alle spiagge dorate della luce che illumina, collega e svela. “Essere” la chiamano, prevalentemente, filosofi e sapienti; “Dio” normalmente e comunemente tutta la gente.
Qualcuno in quella luce è già entrato: coloro che hanno superato l’Abisso e sono passati aldilà.
Tentativi, insomma, quelli del poeta, di dare un volto e un nome all’invisibile e al mistero che accompagnano questa nostra presenza ed esistenza sulla terra.

Il poemetto Inni alla notte di Novalis ha in comune con la Saga di Gilgamesh, cui ho fatto cenno nella precedente traduzione e interpretazione della poesia di Whitman, soprattutto la partenza e i motivi che l’hanno determinata.
Ambedue i protagonisti hanno perduto le persone più care, Gilgamesh l’inseparabile amico Enkidu e Novalis la ragazza amata e il fratello. E per trovarle, entrambi i protagonisti affrontano il regno della morte, perché là sono andati a finire i loro cari. Gilgamesh le acque di morte, Novalis la tenebra che separa lui vivente dalla fidanzata prematuramente scomparsa.
C’è da dire però che l’avventura di Gilgamesh appartiene alla dimensione del Mito e quella di Novalis prevalentemente alla Poesia, e fra le due sono passati circa tremila anni, che hanno aggiunto molto alla ricerca e alla scoperta. Gilgamesh, per esempio, non è riuscito a superare le acque di morte e perciò non ha rivisto l’amico perduto che si trovava aldilà, Novalis invece la Notte l’ha superata con le ali della poesia e Sophie gli è apparsa e con lei si è congiunto.
A questo punto, pongo mano alla traduzione degli Inni alla notte, che dopo il presente preambolo dovrebbe avere il cammino un po’ più facile e risultare più chiaro e semplice. Di essi, prenderò in considerazione per ora solo i primi tre, anche perché dopo il terzo, la poesia sfuma in altri linguaggi: in quello della religione e nel misticismo ed essi perciò, se lo vorrà il Cielo, saranno oggetto di altre traduzioni.

Nel suo primo inno, dopo aver tessuto le lodi della luce, è nella direzione opposta che il poeta però si rivolge, quella delle tenebre, per andare dove Sophie e il fratello sono spariti. Prende congedo dalla luce diurna anche se gioiosa, nonostante “i suoi colori, i suoi raggi e onde; la sua mite onnipresenza di giorno che risveglia”, e si volge all’immensa avventura nel regno tenebroso che è sepolto nel baratro di una tomba, squallida e solitaria la sua dimora. Perché, dunque, è il regno della morte dove sono spariti i suoi cari che lui vuole ritrovare.
E quel miracolo comincia quasi subito: la Notte dove è entrato prende forma ed aspetto. Quello di un volto severo che devoto e soave si piega sul poeta e “sotto i riccioli che senza fine s’intrecciano, mostra la cara giovinezza della madre”. Notte che ha l’aspetto della madre: ecco finalmente un primo segno noto e caro dell’impenetrabile segreto di sempre. Dopo quell’apparizione, misera e puerile gli sembra la luce, grato e benedetto il commiato dal giorno. Ma è solo l’inizio, perché dopo la madre gli appare Sophie, la giovanissima fidanzata, che se n’era andata da poco lasciandolo solo nel giorno.
Ma perché la morte s’illumina e poi acquista anche il volto della madre e diventa incontro e fusione con l’amata? Perché così è la natura: è il profondo e misterioso da cui la vita proviene, e la poesia, sull’onda del sentimento e dell’intuizione, porta a chiarità quel nascosto e quel che appare è donna. Perché è la donna che nasconde nel suo grembo, come l’ostrica la perla, la parte misteriosa e segreta della vita ed è lei perciò, materialmente, la depositaria. Si tratta d’informazioni che la sapienza e le religioni hanno da molto: il Tao afferma che la donna è l’altra metà del cielo, che è il percorso oscuro, e nel suo simbolo, tanto diffuso e noto, essa occupa quel posto e le due parti che compongono il totale: notte – giorno, donna – uomo, stanno assieme e coincidono.
Continuo con il primo inno. Dopo la madre, dunque, Sophie. Dopo la madre, l’amante e la sposa. Tutto il circolo, insomma, quello che è segreto nella parte a notte e che solo al sentimento poetico era dato di sollevarlo. Ed egli così conclude il primo canto: “Tu mi hai rivelato che la notte è vita – mi hai fatto uomo – consuma con ardore spettrale il mio corpo, così che io mi congiunga etereo più intimamente con te e la notte nuziale duri in eterno”. Dicono gli esperti e studiosi di Novalis che questa chiusa del primo inno, nel testo manoscritto aveva un’accentuazione erotica che il poeta ha molto sfumato nella versione per l’Athenäum (la rivista fondata da Friedrich Schlegel, che pubblicò quasi tutte le opere di Novalis), perché il discorso si mantenesse su un piano mistico-religioso. Invece quella correzione era da evitare, perché ciò che ci sta davvero a questo punto è il più semplice e normale degli amplessi: quello erotico-sentimentale. Perché l’altro immutabile ed eterno avverrà nel terzo inno.

Nel secondo inno, dopo che la tenebra è mutata in notte “sacra, ineffabile, arcana”, e dall’oscuro manto che s’è aperto è apparso il volto della madre e Sophie, è il giorno che mostra ora la sua povertà, provvisorietà e limitatezza. Diventa sgradita la sua invadenza e il poeta si domanda: “Deve sempre ritornare il mattino? Ma non finirà la violenza di ciò che è terrestre?” Perché non solo la notte ha tutte le stelle mentre il giorno ha solo il sole, “ma (anche) senza tempo e senza spazio è il (suo) dominio”, mentre “misurato fu alla luce il suo tempo”. Perciò eterna è la durata del sonno, vale a dire la permanenza nella notte, di fronte alle brevi incursioni giornaliere.
Inoltre la notte ha anche la chiave della porta che apre la porta del regno dove sono giunti i suoi cari, perché è la sua ombra, la sua anticamera, perché si passa da lì, e questo accresce la sua importanza sul giorno, dove c’è solo vita effimera e vana.

Poi nel terzo inno il superamento della tenebra, dopo che è diventata notte e donna.
E dopo la prima unione con Sophie dettata dall’amore carnale, dopo che la tenebra è stata superata e si aperta la porta “per la dimora dei beati”, avviene quella ideale e per sempre.
Ma prima di quell’abbraccio con la persona amata che sembrava irrimediabilmente perduta, c’è una grande povertà, tristezza, desolazione. Lacrime amare, speranze che si dileguano, solitudine davanti alla tomba, angoscia indicibile, nostalgia infinita, vita spenta. Capita sempre così: tutto ciò corrisponde allo stato d’animo di chi perde la persona amata e rimane solo e sperduto, ma era necessario arrivare alla fine di questo mondo per entrare nell’altro. E prima del passaggio c’è tutto questo: tutto si dilegua fino alla scomparsa, tutte le radici della vita si staccano e si sfilano dalle terre antiche – la madre terra, il corpo – dove erano abbarbicate. Soltanto dopo si può entrare.
Così una sera, mentre si trovava davanti alla tomba di Sophie, “solitario come non era mai stato nessuno”, “si spezzò il cordone della nascita, il vincolo della luce”. Il tetro confine, la tomba, la morta spoglia, tutto si dissolse; e il poeta entrò nell’altra dimensione: vide i tratti trasfigurati dell’amata, afferrò le sue mani e “al suo collo pianse lacrime d’estasi per la nuova vita”.
Una vera e propria trasformazione dopo il superamento dell’abisso e l’ingresso nell’immutabile ed eterno.Cosa si può aggiungere, arrivati a questo punto! Che qui tutto si compie nella parola di poesia. Tutto ciò che poi è diventata la via circolare della filosofia, percorsa con i passi della ragione e della sapienza, qui è un volo, è l’unità poetica del tutto: è giorno-notte, veglia-sonno, uomo-donna, vita-morte, nell’unità che in generale si chiama coincidenza degli opposti, e quando sono uomo e donna le due metà, matrimonio. Come sarà il matrimonio nella dimensione dopo l’abisso? Qui un po’ l’ha detto la poesia, oppure qualcosa sappiamo dalle religioni: ci sarò la coincidenza uomo-donna.
Nel Vangelo secondo l’apostolo Tommaso, che Gesù stesso chiamò “didimo”, cioè “gemello”, è detto: “E quando farete del maschio e della femmina una cosa sola in modo che il maschio non sia più maschio e la femmina non sia più femmina…, allora entrerete nel regno”.
Si legge nello Zohar ebraico che “Ogni anima e ogni spirito,” “prima di penetrare in questo mondo, è composto da un maschio e una femmina uniti in un solo essere. Quando discende su questa terra, le due parti si separano e si animano in due corpi diversi. Al momento del matrimonio, il Santo, li unisce di nuovo come prima, e di nuovo essi costituiscono un solo corpo e una sola anima, formando così la destra e la sinistra di un individuo… Questa unione, tuttavia, è influenzata dalle azioni dell’uomo e dal modo in cui si comporta. Se l’uomo è puro e la sua azione è gradita a Dio, egli viene unito alla parte femminile della sua anima, che faceva parte di lui prima della nascita.”
In un frammento da un testo apocrifo, chiamato Il vangelo degli Egizi conservato da Clemente Alessandrino, è affermato che il Redentore, interrogato su quando sarebbe venuto il Suo regno, ha risposto: “Quando quei due (maschio e femmina) saranno uno solo, nell’esterno come nell’interno, e il maschio con la femmina non sarà né maschio né femmina”.
Alla fine dei tempi – questi che stiamo vivendo –, per Paolo di Tarso ci sarà la riconciliazione dei contrari: “Non vi è né schiavo né uomo libero, né uomo né donna”.
Nel Vangelo apocrifo di Filippo sta scritto: “Grande è il mistero del matrimonio! Perché senza di esso il mondo non sarebbe esistito. Ora, l’esistenza del mondo dipende dall’uomo, e l’esistenza dell’uomo dal matrimonio”. Dove matrimonio è, appunto, uno dei nomi della coincidenza degli opposti.

Dopo il terzo inno la poesia acquista tratti che appartengono alla religione e al misticismo e sfuma in essi; perciò chiudo qui. Semmai i rimanenti inni li riprenderemo in una non improbabile altra traduzione: dal linguaggio religioso o mistico questa volta, perché collegamenti segreti e misteriosi ci sono sempre state tra le varie forme di linguaggio, e si tratta soltanto di riuscire a decifrarli.

Visto nella prospettiva dell’immensa avventura, quella attorno alla terra e alla mente, cosa ha in comune Inni alla notte con le altre che l’hanno preceduta e seguita. Con Gilgamesh, per esempio, già ricordato, o con l’avventura d’Ulisse e quella di Whitman? Sono la stessa, è la risposta. Ma questa è detta attingendo direttamente e quasi esclusivamente dall’amore uomo-donna. Quello è stato il movente principale. Ci sono, come nelle altre, tanti contraddittori: luce e tenebra, giorno e notte, veglia e sonno, conscio e inconscio, vita e morte, ma è su uomo e donna che si è appuntata la ricerca, dopo che questa unione è stata interrotta dalla morte di uno dei due. Ma fra l’uno e l’altro ora c’è l’abisso, che bisogna superare per ricostituire l’unità, ed è su questo ostacolo immane che la maggior parte delle avventure si arena.

Novalis, invece, con la poesia è riuscito a superarlo e passare, dopo che, come si è visto, quella tenebra è diventata notte stellata e ha preso le sembianze della madre e di Sophie e dopo che si è congiunto con lei. Non è così, d’altronde che si arriva sempre nella vita! Spuntando dall’abisso e rientrando in esso. Gettati, però, e poi tolti, come dice la filosofia, dopo un breve tratto di cammino nella luce del sole e della mente. Mentre nelle grandi avventure del pensiero si superano i limiti della natura umana che sembravano invalicabili, e ancora così si presentano ai più. In Inni alla notte, dunque, la vita del poeta continua nella morte della fanciulla amata e che l’aldilà fosse la sua meta, lo ha detto anche con le parole della filosofia: “Il vero atto filosofico è un suicidio. Questo è l’inizio reale d’ogni filosofia, a tanto mira il bisogno del discepolo in filosofia, poiché solo questo atto risponde a tutte le caratteristiche dell’azione trascendente” (Novalis, frammento 54) . La grande poesia persegue il sogno di sempre, da quando nell’uomo è entrata la morte come compagna inseparabile e le due sono staccate e opposte. Separazione estrema che è causa d’angoscia, timore, tremore, terrore. Perciò la reazione di alcuni, forse di chi non ha accettato ed accetta la sconfitta continua e inesorabile, e i tentativi compiuti e i risultati ottenuti nei vari campi della conoscenza stanno a dimostrare che molto è stato ottenuto, varie coincidenze di opposti sono state raggiunte, e anche vita-morte non sono più così diverse ed opposte e senza speranza di formare l’unità.

Per sempre

24 febbraio 2009

Grazia Sacchi, Per sempre

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Grazia Sacchi

X & SEMPRE
Ti amerò per sempre
Più che per sempre,
al di là del tempo
e dello spazio
e quando ti rivedrò,
tra cento, mille anni
riconoscerò,
nella folla anonima,
il tuo volto
tra infiniti altri.

Tu trasformerai
il sogno in pensiero
e come vento
strapperai le mie radici
per portarmi via.

Le anime,
sole e perdute,
in un istante di luce,
s’incontreranno
ancora
trovando l’unità,
tra cento, mille anni,
in qualunque età,
di nuovo
come ora.

Grazia nella sua poesia intitolata X & SEMPRE dice che l’amore è “per sempre”. In quest’affermazione non è sola ma in numerosa compagnia: quella di chi ama e di chi s’accende d’amore, la qual cosa capita a tutti almeno una volta nella vita; ed ogni amore dice di sé che è perenne, perché così lo vuole il sentimento.
L’ho detto anch’io all’inizio della mia avventura, quella riassunta nei libretti intitolati La chiesetta sperduta e L’antica via dei Miti e dei Misteri – percorsa ora con in mano la lampada della conoscenza filosofica, ed anzi è stato per trovare quel “per sempre” e per dimostrarlo che l’ho intrapresa.

Grazia poi ci dice cosa significa “per sempre”. Significa che durerà tutta una vita e poi riprenderà in un’altra: “tra cento, mille anni”, perché questi sono tempi che non appartengono ad una sola esistenza. Tra cento o mille anni continua Grazia “riconoscerò nella folla anonima, il tuo volto tra infiniti altri”.
E qui lo scenario si apre sulla metempsicosi, dottrina diffusa in tutte le civiltà e religioni, nella sapienza, filosofia, poesia.
Faceva parte delle dottrine segrete degli antichi Egizi, l’Induismo e le altre religioni d’Oriente si basano su di essa, così pure i Misteri dell’antica Grecia, quelli d’Eleusi, di Dioniso, poi i Misteri romani del tempio, le dottrine cabalistiche segrete degli Ebrei, ed era presente anche nel Cristianesimo delle origini.
Inoltre la metempsicosi è in primo piano nella sapienza orientale e occidentale Buddha la notte precedente l’Illuminazione, come ha scritto di lui il suo maggiore biografo Asvagosa, ha richiamato alla memoria “migliaia di vite, come rivivendole” e le ha collegate fra loro. Ermete Trismegisto, nato tre volte in Egitto, ogni volta si è dedicato alla conoscenza, finché nell’ultima vita terrena si è illuminato, si è ricordato delle precedenti esistenze, ha ricuperato il suo vero nome, e poi è salito al mondo superiore dov’è l’origine. Pitagora ricordava anche il suo precedente nome: Euforbo; era un milite nella guerra di Troia e ha perso la vita in battaglia sotto quelle mura, ucciso da Menelao.
Dopo la nascita della filosofia, Platone, amanuense di Socrate il primo filosofo, l’ha così espressa: “conoscere e ricordare”, la qual cosa implica che si sia già stati. Ha fatto seguito una numerosa schiera per i quali la metempsicosi è diventata la più razionale teoria dell’immortalità personale. Ne cito alcuni: Plotino, Böhme, Swedenborg, Giordano Bruno, Campanella, tanta parte della filosofia tedesca del secolo diciannovesimo, quella di Kant, Schelling, Hegel, Schopenhauer, Lessing, Cudsworth, Hume, Mazzini.
Poi i poeti e scrittori antichi e nuovi: Virgilio, Ovidio, Walter Scott, Goethe, Poe, Charles Dickens, Walt Whitman, Borges.
Queste però sono solo alcune punte degli iceberg. Sotto di esse le innumerevoli esperienze e i ricordi di tanti meno celebri e vicini di casa, perché quasi tutti hanno incontrato persone o cose che hanno risvegliato ricordi di un passato che non credevano esistesse e che esprimono con le parole: “Ho già vissuto questo momento, ho già visto questo luogo, ho già incontrato questa persona”; soltanto che i ricordi che s’accendono nel sentimento durano poco o dopo tanto non sai più se son tuoi o strani segni che affiorano da profondità abissali.
Ma dove c’incontreremo? Grazia non specifica: c’è tutta la vastità del sentimento nella poesia, ma anche l’indeterminatezza. Nel vasto e numeroso mondo perciò se non c’è indicazione precisa, ma in tal modo la ricerca diventa difficile, faticosa, problematica. Come sempre avviene d’altronde qui sulla terra dove uomo e donna sono metà distinte e separate che si cercano instancabilmente e spesso senza mai trovarsi davvero; e quando accade si afferma che è per caso o perché l’ha voluto il Destino, ma ancora non si sa che il “caso” è soltanto l’incerto e difettoso appellativo del Destino e che con il Destino si può venire a patti.

Perciò a me, che ho volutocome dice Grazia trasformare “il sogno in pensiero”, è apparso il luogo preciso, inconfondibile, come un faro in riva all’oceano tenebroso. Quel luogo è stato la chiesetta ideale, eterna, uguale a quella di sasso e di legno esistente in un paesino del Cadore, che era dispersa quando è apparsa ma che sono riuscito a trovare dopo cinquant’anni di ricerche. Naturalmente, questo è stato e sarà il luogo per me, un ricordo d’altre vite ormai fisso nell’immutabile e perenne: il centro della ruota che gira.
La trasformazione del sogno in pensiero, vale a dire del sentimento poetico in conoscenza chiara e distinta, è avvenuto nel modo che sempre si segue quando arriva il momento di passare dal progetto all’opera, dall’idea alla sua realizzazione. In questo caso costruendo un cammino fra la chiesetta terrena e quella celeste e superando gli ostacoli esistenti fra le due.
E siccome quella apparsa non era di questo mondo, ma assomigliava ad un’idea platonica la cui patria è l’Empireo, sono dovuto uscire dalla Terra e dal Cosmo per trovarla. Raggiunto quel confine dopo molti anni, non c’era la chiesetta al di là di esso, ma cominciava un Abisso. La sua esistenza in ogni modo non è stata una sorpresa, perché se quel luogo era il ricordo di una vita precedente, fra una vita e l’altra c’è sempre la morte essa è l’Abisso. Similmente tra veglia da veglia c’è il sonno, e Hypnos e Thanathos per gli antichi erano fratelli.
Perciò ho dovuto attraversare la morte per trovare in modo stabile e sicuro il collegamento con l’altra vita e con il ricordo della chiesetta in essa contenuto e conservato, come similmente si attraversa ogni notte il sonno qui sulla Terra per unire veglia a veglia, e ci sono riuscito costruendo un ponte. Il ponte sull’Abisso l’ho chiamato.
Dopo l’Abisso, al di là di una Porta di cui ho dovuto indovinare il segreto perché s’aprisse, c’era l’arrivo, e mi sono accorto che ero giunto nello stesso punto da cui sono partito cinquant’anni prima, vale a dire alla chiesetta. A quella che era sperduta, indubbiamente, ma anche a quella di sasso e legno del paesino del Cadore, perché le due non apparivano più separate come alla partenza, ora coincidevano. Le due erano una sola. Quella celeste e l’altra, la terrestre, erano la stessa cosa. L’oggetto e il ricordo di esso o idea erano lo stesso. Fine e principio stavano assieme.

Anche per Grazia c’è coincidenza. Fra lei e l’oggetto amato in questo caso, perché l’amore che prospetta di ritrovare dopo cento, mille anni, è lo stesso che ha ispirato la poesia, e il tempo che separa uno dall’altro diventa solo una lunga attesa in questo mondo di cose divise a metà e separate, che già per molti è solo apparenza. C’è qualcosa d’eterno, insomma, in noi che il corpo porta a spasso nel mondo delle cose sensibili. La vita finora sembra sia soltanto questo: una vacanza su un pianeta che si chiama Terra, con arrivi da profondità sconosciute e partenze per destinazioni ignote. Non c’è ancora una dimora dopo la vacanza che ci accolga in modo stabile e sicuro, o non ci sono coordinate esatte per trovarla.
Arrivata alla coincidenza sull’onda del sentimento anche Grazia, come normalmente accade, non è riuscita poi a mantenere quella posizione. Le crisi, i dubbi, le retrocessioni nel mondo delle cose sensibili, i distacchi, sono anche i segni sensibili dei limiti del sentimento e delle parole di poesia che l’esprimono.

Ecco, allora, che si capisce la necessità dell’ulteriore passo in avanti, il perché della trasformazione del sentimento in conoscenza, o come dice Proust in un equivalente intellettuale. Ecco perché io ho voluto trovare il luogo che la poesia m’aveva messo di fronte: la chiesetta sperduta. Perché non mi sono accontentato di sentire che ” le anime/ sole e perdute/ in un istante di luce/ s’incontreranno/ ancora/ trovando unità”, ma ho voluto sapere dove, come, quando. E ho tracciato il cammino, costruito il ponte, aperto la porta, varcata la soglia.

Infine i versi “…e come vento/ strapperai le mie radici/ per portarmi via”, i più sorprendenti; perché le radici sono proprio i sentimenti, quelli che hanno segno che consideriamo positivo, come amore, gioia, compassione, ecc., ma anche gli altri di segno opposto: odio, tristezza, crudeltà. Insomma anche lo sradicamento, con la trasformazione del sentimento in conoscenza è previsto nella poesia di Grazia, e da essi, infatti, io mi son staccato seguendo il cammino che portava fuori del labirinto. Ma non per rimanere senza amore, per esempio, ma per raggiungere il luogo dove esso è “per sempre”, o per arrivare alla coincidenza degli opposti, che è la stessa cosa, perché ero diretto al regno dell’unità e mi lasciavo alle spalle questo qui, frammentato e disperso, dove le parti solo eccezionalmente si uniscono per sempre.

A questo punto il lettore dovrà decidere se la poesia è fantasia, per cui diventerebbe sogno di un visionario anche lo sviluppo di quei versi fino al raggiungimento della conoscenza apodittica, oppure espressione di quel che c’è di più grande in noi e previsione di un mutamento.

Nel primo caso, povera poesia! Sarebbe ciò che il volgo dice spesso di essa e dell’autore: che è un’illusione, una vana consolazione, e il poeta un “pitocco”, un “perdigiorno”. Se invece è ciò che hanno sempre pensato le anime grandi e gentili: il modo primo e privilegiato di guardare in alto dov’è la nostra vera patria, allora anche l’ulteriore sviluppo verso la conoscenza chiara e distinta diventa la via maestra da seguire fino a ciò che è “per sempre”.