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Pascoli, il mare, il ponte

18 ottobre 2009

Giovanni Pascoli, Mare

M’affaccio alla finestra e vedo il mare:
vanno le stelle, tremolano l’onde.
Vedo stelle passare, onde passare:
un guizzo chiama, un palpito risponde.
Ecco sospira l’acqua, alita il vento:
sul mare è apparso un bel ponte d’argento.
Ponte gettato sui laghi sereni,
per chi dunque sei fatto e dove meni?

Emil Nolde, Crucifixion (1912)

Emil Nolde, Crucifixion (1912)


Una bella poesuola, mi son detto, quando l’ho letta la prima volta. Così carina e semplice che merita di essere ricordata e ripetuta, e in breve l’ho imparata a memoria. Da allora non è più uscita dalla mente, ma giaceva nel profondo, perché per molti anni non l’ho più vista e sentita. Infatti, ero tanto giovane allora, forse studente della scuola media o delle elementari. O forse non l’ho neppure letta a scuola ma in una delle mie peregrinazioni sui libri di poesia. Leggevo e quel che mi colpiva l’imparavo. Allora sembrava per gioco, oggi c’è qualcosa di più. Ora Mare entra nel novero delle Coincidenze.
Per via del ponte misterioso?
È quello che attira di più certamente e mi da modo di aprire sull’argomento ponte, che è una delle strutture più importanti della via della conoscenza. Senza il ponte, il cammino non poteva continuare, l’Abisso non sarebbe stato attraversato. Il viaggio si sarebbe fermato sulla linea di Mezzanotte, come, di fatto, è accaduto a tutti quelli che lungo la filosofia, seguendo i filosofi del Tramonto e della Notte da Schopenhauer in poi, sono arrivati fin lì, ma ancora non sanno che una struttura di tal genere ora esiste anche in tal campo. Si tratta solo di una corda che collega le due sponde, quella che portavo con me e che mi è riuscito a lasciar pendere alle mie spalle nel lavoro d’attraversamento dell’Abisso che ho compiuto.
È la prima volta, dunque, che un tal ponte viene qui gettato, ma esso esisteva già in altri campi. Ne ricordo alcuni.
Nelle religioni che fanno capo alla Bibbia, il ponte fra l’uomo e Dio lo ha posto Dio stesso. Il suo aspetto sensibile è l’arcobaleno: “Io porrò il mio arco nelle nubi, e sarà come segno dell’alleanza fra me e la terra”.
In molti rituali e nelle mitologie iniziatiche e funerarie sono numerose le immagini del ponte, che implicano l’idea di un passaggio pericoloso, a volte di una liana che oscilla sotto il passo.
Le leggende medievali parlano di ponti nascosti nell’acqua, o sottili e taglienti come il filo di una spada, che il cavaliere doveva attraversare per riuscire a compiere l’impresa cui era stato destinato.
Un ponte esiste anche in natura, e non poteva essere altrimenti se essa è l’origine di ciò che è venuto dopo, e dopo c’è tutta la cultura. Si chiama ponte di Varòlio dal nome del suo scopritore, è formato da circa trecento milioni di fibre nervose, ed è la via di collegamento dei due emisferi del cervello che hanno funzioni diverse, e in tal modo raggiungono la coincidenza (L’emisfero sinistro è molto più competente del destro nel linguaggio e nella logica; il destro ha una parte molto maggiore in abilità spaziali e nel pensiero “gestaltico”. Noi abbiamo linguaggio, arte, ispirazione, mantenuti separati dagli abissi enormi esistenti fra i due emisferi e collegati fra loro da un ponte dalla campata immensa. Se a questo punto si riflette sul fatto che gli uomini hanno maggiore attitudini per il linguaggio e la logica, e le donne per ciò che compete all’altra metà del cervello, allora si arriva a conseguenze imprevedibili. Una di esse è stata esposta da un filosofo donna, così riassunta: “L’alleanza fra l’uomo e la donna diviene allora un ponte fra la natura e la cultura, un ponte ancora da costruire.”, Luce Irigaray, Essere in due, Bollati Boringhieri).
Poi la prima comparsa del ponte anche nella filosofia; ma era giocoforza a quel punto, vale a dire dopo che la linea di Mezzanotte era stata raggiunta. Perché non c’era più cammino davanti, solo il vuoto e l’alternativa era la caduta in esso. Come, di fatto, sta avvenendo. Com’è sempre accaduto, per la verità, ma oggi l’Abisso è sotto gli occhi e si guarda rassegnati e vinti, e c’è chi si getta prima per non prolungare l’attesa disperata e l’agonia. Quella prima idea di ponte è opera di Nietzsche ed esso, per il filosofo dell’eterno ritorno, è l’umanità stessa che porta dell’uomo al superuomo.
Giunto davanti all’Abisso, a un ponte ha pensato anche Heidegger. Lui però di primo acchito l’ha escluso, perché ha pensato di riuscire a superarlo con un salto, ma per quella larghezza non sarebbero bastati gli stivali delle sette leghe”. Perciò era il Ponte che si doveva costruire. Egli ha detto: “Non c’è un ponte che conduca dalla scienza (il pensiero calcolante della ‘ragione’ occidentale) al pensiero (il pensiero che rinunciando ad ogni finalità ‘costruttiva’ si pone come risposta ad una chiamata, quella dell’essere). L’unico passaggio possibile è il salto. Il luogo dove questo salto ci conduce non è solo l’altro lato dell’abisso, ma una regione totalmente diversa” (Heidegger, Was heisst Denchen?, 61, II, 6). Poi ancora: “Il salto, a differenza del cammino (d’ogni cammino dell’Occidente, scientifico, filosofico, poetico…) porta il pensiero, senza ponti, cioè senza che vi sia un procedere continuo, in un altro ambito e in un’altra maniera di dire” (Heidegger, Weise des Sagens?, 63,95.). La diagnosi era esatta, le due sponde sono indicate in modo chiaro e distinto, ma un salto di tal genere poteva riuscire solo a qualcuno, com’eccezione.
Per ultimo il mio ponte, quello che collega la fine del millenario cammino filosofico nel mondo di qua con l’aldilà. Di come sono riuscito a idearlo, costruirlo e poi attraversare l’Abisso, ho detto nel libro L’antica via dei Miti e dei Misteri.

Perciò una struttura di collegamento assai recente il ponte in filosofia. Tuttavia la filosofia non ha mai rinunciato all’aldilà, anche se non c’era il ponte.
Com’è stato possibile, allora?
In altre parole, anche lungo la filosofia del giorno, quella che va da Socrate a Hegel, tale forma di conoscenza non si è mai fatta mancare l’altra parte. Ha parlato di essa, è sempre stata la sua meta, molti hanno abitato in ispirito quei luoghi, passando quindi dall’immanente al trascendente, o dalla fisica alla metafisica, o dal divenire all’essere. In definitiva da questa dimensione dove tutto è cambiamento e dalla vita si va inesorabilmente verso la morte finché non si arriva, a quella dell’essere, dove invece ogni cosa è per sempre.
Ma come ha potuto se, di fatto, con i piedi, è sempre stata di qua, vale a dire prima dell’Abisso?
Perché ha fatto uso degli altri ponti degli altri domini, quelli or ora descritti, arrivando aldilà non con una sua esperienza diretta ed esclusiva. Cioè i filosofi si sono fatti portare dall’altra parte sulle ali del mito, dei misteri, delle religioni, perché fino a Nietzsche , come ho già detto, con l’aldilà non c’è mai stata prima un’esperienza diretta. Alcuni esempi.
Socrate, dopo aver dimostrato l’immortalità dell’anima, per dirci dove essa va dopo la morte, ha messo da parte la ragione che non lo sapeva e si è rivolto al mito. Quello favoleggiato dai poeti, sacerdoti, mistici.
Secondo Platone, le sostanze immutabili (idee) risiedono “di là dal cielo”, vale a dire nell’Iperuranio, ma si tratta di un mito descritto nel Fedro ed è un mito anche la famosa caverna, dove gli uomini sono legati all’interno di essa e costretti a fissare il muro di fondo senza poter girare la testa; e vedono solo le ombre delle cose che passano davanti a foro d’ingresso; e credono vere, reali, le prime perché delle altre non sanno. Mito della caverna, infatti, è il titolo di quel racconto. Dichiaratamente, perciò, non c’è un cammino filosofico che collega, semmai, appunto, una visione da sogno.
L’aldilà di Aristotele è la “filosofia prima”, poi chiamata metafisica (Metafisica deriva dal posto che gli scritti aristotelici relativi avevano nella raccolta di Andronico da Rodi, precisamente dopo la fisica, che era la prima delle scienze particolari), ma c’è un vuoto incolmabile fra fisica e metafisica, lo stesso che Tommaso d’Aquino ha cercato di superare con le sue prove dell’esistenza di Dio.
Cartesio, per fondare il suo Cogito ergo sum, che non è mai riuscito a distinguerlo in modo chiaro e distinto dal sogno, ha chiamato in aiuto Dio. In altre parole la certezza di sé e del mondo l’ha fondata in Dio; e vale per Dio, seguendo la via della conoscenza e non quella della fede e del misticismo, l’impossibilità di collegarlo all’uomo.
Lo sapeva bene Kant, che ha posto limiti insuperabili alla conoscenza filosofica e ha chiamato “cosa in sé” ciò che, non per ragione ma per fede, poteva anche esserci (come frutto “di una intuizione non sensibile”, per esempio, cioè divina, mentre per noi il concetto rimane vuoto), ma non era dimostrabile; e cosa in sé era anche Dio. Ma alla fine ha dovuto gettare la spugna: c’era solo il vuoto di là della conoscenza umana della cosa; e a questa conclusione è giunto nell’ultima edizione della critica, dopo anni di riflessioni (Infine, “Non è afferrabile la possibilità di tali noumeni, e l’ambito che si estende al di fuori della sfera delle apparenze, è [per noi] vuoto; noi abbiamo cioè un intelletto che si estende di là delle apparenze, ma non abbiamo alcun’intuizione, anzi neppure il concetto di un’intuizione possibile, attraverso cui possono esserci dati al di fuori del campo della sensibilità degli oggetti, e l’intelletto possa venire usato in modo assertorio di là di tale sfera. Il concetto di un noumeno (cosa in sé) è quindi semplicemente un concetto-limite, destinato a circoscrivere la presunzione della sensibilità, e d’uso quindi soltanto negativo. Esso non è peraltro inventato ad arbitrio, ma è connesso alla limitazione della sensibilità, senza poter tuttavia porre nulla di positivo al di fuori di tale sfera”, Kant, Critica della ragion pura).
Continuando sulla via della conoscenza, infatti, i filosofi che sono venuti dopo Kant, precisamente Fichte, Schelling, Hegel, hanno negata la cosa in sé e l’Io è diventato anche Dio.
A conclusione di questa breve rassegna, lungo tutta la filosofia che va da Socrate a Hegel non c’era, dunque, nemmeno il progetto di un collegamento. Ed ora la domanda: com’è possibile che per ventiquattro secoli i filosofi si siano adagiati su questo qui pro quo, quello di passare aldilà su strutture altrui o di accontentarsi di intravedere da lontano e congetturare? E la risposta suona così: il legame c’era anche nel dna della filosofia, ma nascosto e segreto, abitava l’inconscio. Era quello espresso dalla sapienza prima che la filosofia fosse, quello che Socrate aveva sentito da Parmenide quando era assai giovane, ma non era riuscito a sollevarlo alla parola della filosofia.
L’unica vera esperienza a questo punto è stata quella di Parmenide, ma essa appartiene alla sapienza. Qual è la differenza? Che lui la strada l’ha percorsa davvero: quella che dalla “casa della notte” portava fino alla Porta. E la Porta s’è aperta davvero sotto i suoi occhi ed è passato. E il Giorno l’ha visto tutto in una volta, come quando dall’alba sulla terra appare anche il cielo del tramonto e l’orizzonte dove tutto di nuovo sparirà nel buio. Insomma c’è tutta la conoscenza e l’esperienza di un giro completo nell’avventura di Parmenide, e per lui si parla, infatti, di viaggio iniziatico, non solo d’opera di pensiero razionale. Ciò che ho già detto in altre occasioni e che qui ribadisco (vedi le Coincidenze 3, 5, 10, 12), per segnare ancora una volta il confine fra sapienza e filosofia, per dire a chiare e tonde lettere cosa le distingue. Sapienza è l’esperienza di tutto il giro della vita, di giorno-notte , veglia-sonno, conscio-inconscio, vita-morte; filosofia solo della metà.

Ritorno alla poesia Mare dopo l’excursus nella filosofia. Ma è venuta da sé la lunga camminata nel pensiero con passi da gigante, per cercare riferimenti e coincidenze, o meglio per portarli alla parola, perché gli uni e le altre hanno fatto capolino appena ho rivisto la poesia, e non l’ho letta anche se ho tenuto gli occhi chini sul foglio ma recitata a memoria. Ed ho subito pensato: Pascoli ha sollevato dall’inconscio quello che io ho tratto dall’intrico della cultura; lui l’ha manifestato con parole più belle, adatte al paesaggio che aveva sotto gli occhi e in modo più raccolto; io con pensieri più chiari e distinti. Vediamo ora come si combinano questi due modi di conoscere.
Il poeta s’affaccia alla finestra.
È sempre da un punto o luogo privilegiato che si guarda e nel momento propizio. Dalla finestra in questo caso ma anche dai “lidi della California” o dall’alto di “un colle” come Whitman (vedi Coincidenze 3 e 8). O dal presente, rivolti prima al passato e poi al futuro, come la Cantarutti e Kavafis (vedi le Coincidenze 2 e 7). O dalla spiaggia, guardando la “marina”, come Montale nella poesia Casa sul mare (vedi la Coincidenza 10).
Anche Pascoli dalla finestra vede il mare.
E sul mare “vanno le stelle, tremolano l’onde”.
Vede “stelle passare, onde passare:/ un guizzo chiama, un palpito risponde”.
Vede, in altre parole questo mondo che scorre. Quello che la filosofia chiama anche immanente, o fisico, o del divenire. Se poi si sa che il mare è uno degli aspetti sensibili dell’Abisso, si può capire subito dove vanno le cose: dove scompaiono e la vita muta in morte, come nel Canto notturno di un pastore errante dell’Asia. Ma questa volta c’è un ponte su quella sponda estrema.
Di esso, come ho detto più sopra, mi sono accorto anche la prima volta, da ragazzo. Ma allora mi sembrava una licenza poetica – così si diceva delle apparizioni strane e misteriose nella poesia. Sembrava un tocco extra che la rendeva più affascinante. D’altronde gli stessi poeti, a volte, indulgono su questa credenza popolare e in qualche caso l’alimentano. “È del poeta il fin la meraviglia”, ha detto uno di loro; ed ora eccola lì, nella veste di “un bel ponte d’argento” posto nel punto dove prima venivano meno l’uomo e il suo mondo, e si può non precipitare. Ed io per un mucchio d’anni mi sono invece cullato su quella ingenua interpretazione del ponte, finché il suo ripresentarsi non mi ha svegliato e scosso.
C’è l’eco di Eraclito nella poesia di Pascoli: “Tutto scorre”. Ma per il sapiente tutto va a confluire in una superiore unità, perché Il dio è giorno notte, inverno estate, guerra pace, sazietà fame, e muta come (il fuoco) quando si mescola ai profumi e prende il nome di ognuno di essi” (Eraclito, frammento 67). Ed ora c’è un Ponte che porta a quell’unione.
C’è l’eco d’Anassimandro, perché egli ha affermato che “principio degli esseri è Ápeiron (non-limitato, non-finito, non-particolare) […] da dove infatti gli esseri hanno la loro origine, ivi hanno anche la distruzione secondo necessità: poiché essi pagano l’uno all’altro la pena e l’espiazione dell’ingiustizia (la loro separazione) secondo l’ordine del tempo” (Anassimandro, frammento 1 D.K.).
Ma ora la giustizia è stata ripristinata: si va verso il non-particolare nella consapevolezza, ma passa solo chi sa e vuole.
Ecco perciò dove porta il Ponte: di là dell’Abisso dove c’è la coincidenza degli opposti.
Rimane l’ultimo verso che è una domanda: per chi dunque sei fatto e dove meni?
Dove porta il ponte già si sa, c’è la risposta: sull’altra riva e dall’altra parte, quella che ora ha per appellativo anche Ápeiron. Di essa, semmai, si vorrà saperne di più, e qualcosa ci dicono già le altre coincidenze.
Porta sulla riva dove l’amore è “per sempre”.
Dove “allontanarsi significa tornare”.
È il “ritorno in patria”.
È la dimensione di una nuova civiltà che nascerà dalle ceneri dell’Occidente, e l’abiteranno l’arcangelo di Aurobindo, il nuovo essere un quarto uomo tre quarti verbo di Robertson, chi passerà “di là dal tempo” di Montale. Poi tutti coloro che oseranno attraversare il Ponte e abbandonare la morta gora, dove l’Occidente è nato ma ora sta morendo.
A questo punto, anche la risposta alla domanda “per chi dunque sei fatto?” arriva da sola: è fatto per l’uomo nuovo.
Attenzione però: non si tratta di visioni vaghe e future come quelle dei maghi, perché il passaggio è già in atto.

P.S.
In genere c’è il ponte o la porta fra un dominio e l’altro, e si va dall’uno all’altro attraversando il ponte o aprendo e superando la porta. Perché a me, invece, sono toccati entrambi i passaggi? Mi sembra già di poter rispondere così: perché seguendo la via della conoscenza e attraversando il ponte, giunti al di là si può continuare, inanellando un altro giro, ma ad occhi aperti e mente sveglia questa volta, e sapendo da dove si arriva e dove si va. Oppure c’è la porta d’uscita e si lascia questa dimensione. Una possibilità quest’ultima su cui non mi sono ancora soffermato, non sufficientemente almeno, perché sono orientato verso la prima soluzione.
Forse per pigrizia, o perché, come dice il proverbio, è meglio “non lasciare la strada vecchia per la nuova”; ed io il vecchio giro lo conosco ormai a memoria.
Certamente un motivo è questo, ma c’è poi il luogo d’appuntamento perenne e l’attesa di chi deve arrivare. E tutto è già incanto, tutto è già presente e mai non muta.
In quanto al giro che mi piacerà ripetere, nel modo in cui si torna anche qui a rivedere luoghi di vacanze o altri aspetti se sono belli e cari, se a compierlo tutto questa volta ho impiegato cinquant’anni – perché c’era da trovare l’uscita dal labirinto, ideare e costruire il Ponte, attraversare l’Abisso, scoprire il segreto della Porta per aprirla –, la prossima ne basteranno cinque. Ma che dico! Forse nessun tempo, perché esso è tutto presente in un momento come il cerchio d’orizzonte della terra visto dall’alto di un colle. Ma mettiamo pure di compierlo a piedi, portandomi sulla circonferenza perciò, e allora confermo: cinque anni. Perché il tracciato nel labirinto lo conosco, non devo più districarmi fra i tratti di sentiero e i vicoli ciechi, né tirare la moneta per aria agli incroci, o aspettare che l’indicazione la mandi il Cielo, perché a volte c’è molto d’aspettare.

Giacomo Leopardi, Canto notturno di un pastore errante dell’Asia

11 ottobre 2009

Giacomo Leopardi,
Canto notturno di un pastore errante dell’Asia
Versi 1-38

Che fai tu, luna, in ciel? Dimmi, che fai,
Silenziosa luna?
Sorgi la sera, e vai,
contemplando i deserti; indi ti posi.
Ancor non sei tu paga
Di riandare i sempiterni calli?
Ancor non prendi a schivo, ancor sei vaga
Di mirar queste valli?
Somiglia alla tua vita
La vita del pastore.
Sorge in sul primo albore
Move la greggia oltre pel campo, e vede
Greggi, fontane ed erbe;
Poi stanco si riposa in su la sera:
Altro mai non ispera.
Dimmi, o luna: a che vale
Al pastor la sua vita,
La vostra vita a voi? Dimmi: ove tende
Questo vagar mio breve,
Il tuo corso immortale?

Vecchierel bianco, infermo,
Mezzo vestito e scalzo,
Con gravissimo fascio in su le spalle,
Per montagna e per valle,
Per sassi acuti, ed alta rena, e fratte,
Al vento, alla tempesta, e quando avvampa
L’ora, e quando poi gela,
Corre via, corre, anela,
Varca torrenti e stagni,
Cade, risorge, e più e più s’affretta,
Senza posa o ristoro,
Lacero, sanguinoso; infin che arriva
Colà dove la via
E dove il tanto affaticar fu volto:
Abisso orrido, immenso,
Ov’ei precipitando, il tutto oblia.
Vergine luna, tale
È la vita mortale.

Caspar Friedrich, Luna nascente sul mare (1821)

Caspar Friedrich, Luna nascente sul mare (1821)

Nei primi otto versi c’è il cammino della luna nel cielo, continuo e immutabile, di cui si sa ormai tutto: dove comincia ogni fase, dove finisce, come si ripete. Ed è un continuo riandare, sempre uguale: l’eterno ritorno dello stesso che Nietzsche, come ho già avuto modo di dire in una precedente coincidenza, considerava il peso più grande (vedi la decima coincidenza, Montale, Casa sul mare) e noia e tedio insopportabili. Leopardi invece dice: “ancor non sei tu paga” di questo riandare, di questo contemplare i deserti, “ancor non prendi a schivo, ancor sei vaga/ di mirar queste valli”? Ed è la stessa cosa detta con altre parole: Nietzsche in modo più drammatico. Il supplizio di Sisifo, la condanna di Tantalo.
Questo ritornare ogni volta all’inizio però la rende “immortale”. Comincia, gira, ritorna al punto di partenza, ripete, e così per sempre. Una condizione privilegiata, perciò, quella della luna, rispetto alla vita dell’uomo: perché quest’ultima è peritura, l’altra no.
A questo punto sappiamo cosa vuol dire immortalità: lo insegna il poeta, o c’è una definizione di essa chiara e distinta. Vuol dire compiere il giro completo e poi “riandare”, per i sempiterni calli.
Di fronte ad esso la “vita del pastore” che si sveglia all’alba e prima era nel sonno: ma cos’è il sonno? Egli non lo sa, perciò il suo giro s’è interrotto per lui nella notte. Arriva, in ogni modo, da regioni sconosciute e misteriose e perciò non sa da dove. “Poi stanco si riposa in su la sera”, ritorna nel sonno e non sa dove va. Ecco la differenza con il moto della luna, che invece “sorge alla sera”, si muove nella notte, ma è presente anche nel giorno. Non ha mai staccato dal suo moto, non ha mai interrotto la sua vigile presenza. Essa perciò conosce da dove viene e dove va.
Inoltre le interruzioni notturne del pastore sono segnali d’avvertimento dell’ultima che ci aspetta perché, come dicevano gli antichi, sonno e morte sono fratelli e alla fine si passa dall’uno all’altra. Essa, infatti, appare nella seconda strofa, dove anziché gioventù e sonno c’è vecchiaia e morte.
C’è tutta l’indigenza della vita, la sua precarietà, la sua tragica conclusione nei versi che seguono. In particolare:
C’è la vecchiaia e l’infermità.
La povertà, perché il vecchierel è “mezzo vestito e scalzo”.
La necessità di provvedere al fabbisogno per vivere: la legna per scaldarsi in questo caso.
Ci sono le avversità del tempo: venti, tempesta, caldo torrido, gelo.
Poi la faticosa e perigliosa corsa, varcando torrenti e stagni, cadendo, rialzandosi lacero e sanguinoso.
Per andare dove? Verso l’Abisso e alla fine precipitare in quel buco orrido immenso.Qui la morte ha nome abisso, come anch’io spesso l’ho chiamata.
Povero uomo! Mi pare che dai tempi di Buddha nessuno ha messo a nudo la sua vera condizione come ha fatto Leopardi con questi versi. O forse anche altri, ma lasciando un po’ di spazio all’illusione, alla speranza.

Si dirà: ma la vita umana è anche bella, c’è anche il paese di Bengodi sulle sue terre, tante cose sono attraenti e desiderabili. Ed io rispondo: è come il Luna Park, dove si portano i bambini, ed essi si divertono e non vorrebbero più uscire. Ma poi finisce il giorno, calano le ombre, arriva l’oscurità, chiudono le giostre. E comincia la solitudine, la tristezza, il pianto, il grido.
Per Leopardi la chiusura è definitiva: quello era l’ultimo spettacolo. Riuscito male, fra l’altro, specialmente per il vecchierello.
Buddha, invece, ha meditato sulla dolorosa condizione umana, che termina sempre con la morte, e ha trovato e percorso una via d’uscita che parte dal samsâra o ruota del divenire e porta al Nirvana – da nirva che significa spegnere. Poi l’ha insegnata.
Nirvana
perciò vuol dire spegnimento, ma anche contemporanea Illuminazione: spegnimento del mondo che si lascia, perciò, come si annebbiano e oscurano immediatamente le cose se si alzano gli occhi verso il sole e poi si ritorna ad osservarle, e Luce illuminante per chi ormai è entrato e la guarda apertamente e la sostiene. Perciò anche Nirvana e Illuminazione sono la stessa cosa: la Patria luminosa dove i sapienti sono entrati. Il tragitto per arrivare al Nirvana Buddha l’ha chiamato “Sentiero”.
Esso è soprattutto una via filosofica, anche se è improntata più sulla sapienza che sulla filosofia. Non c’è stata in Oriente la deviazione operata da Socrate e Platone fin dall’inizio. O Buddha, contemporaneo di Parmenide, non ha avuto discepoli o seguaci che hanno deviato dalla via maestra, contravvenendo ai suoi insegnamenti (vedi dodicesima coincidenza, Eliot, The rock). Oppure qualcosa di simile è avvenuto, ma solo alcuni secoli dopo la morte del maestro, all’inizio dell’era cristiana. Alla scuola da lui fondata, chiamata Piccolo veicolo (hinayana), che insegnava la conquista della verità per se stessi, simile perciò alla Via della Verità di Parmenide, si è affiancato il Grande veicolo (mahayana), un sentiero aperto a molti, ed esso assomiglia allora alla via della filosofia iniziata da Socrate e Platone. Perché questo potesse avvenire, l’illuminato (Bodhisattva) evitava di spegnersi nel nirvana e rimaneva per aiutare tutte le esistenze nella ricerca della verità e della liberazione.
Ma questa è un’altra storia che sarà da raccontare, perché è essenziale per la comprensione di ciò che ha separato l’Oriente dall’Occidente per tanti secoli e quel che ora li sta avvicinando.

Ora le note filosofiche.
La prima
: il corso immortale della luna in cielo e quello mortale dell’uomo sulla terra. Certamente non è la luna che sa, che confronta la sua esistenza con quella umana. Essa è un corpo inanimato, non ha coscienza: la sua coscienza è l’uomo, solo lui sa che è immortale. O, in ogni caso, è l’uomo che vede e parla.
E cosa vede? Il vagare breve di sé, perché sa quando comincia e come finisce, e il moto circolare continuo dell’altra. L’abbiamo già visto questo moto, nella poesia Casa sul mare di Montale, dove al posto della rotante luna ci sono “i giri di ruota della pompa” (vedi decima coincidenza Montale, Casa sul mare), o in quella di Novella Cantarutti che inizia così: “Rotolo indietro…”, e tutto ciò che sta dietro, dice la filosofia, è natura naturata e si muove in tondo ­– astri, vita vegetale, animale, umana.
Il confronto perciò è sempre fra il movimento lineare e quello circolare: di chi arriva sulla scena per compiere un tratto di cammino e poi com’è apparso così sparisce, e chi invece svolta, ritorna dove ha cominciato e riprende lo stesso corso.
Ora una domanda: se è solo l’uomo, sempre l’uomo, che vede e parla, non è solo lui, sempre lui, che dà la patente d’immortale alla luna e di mortale a sé? Certamente, ma sulla base dell’esperienza diranno tutti quanti, un’esperienza comune continuamente ripetuta e convalidata. Ciò che, insomma, è evidenza e scienza assieme, se si tiene presente che i risultati di quest’ultima non avvengono per caso, o, anche se ciò accade qualche volta, si possono però ripetere quando si vuole, e solo per questo possono appartenere alla scienza e fregiarsi dei suoi titoli.

Se, dunque, la durata della vita è diversa per la luna e l’uomo, ecco allora la seconda nota, che ha qui la forma di domanda: non può essere la luna immortale perché di essa vediamo tutto il cammino, e noi mortali perché il nostro c’è noto solo in piccola parte? Infatti, per ogni uomo ci sono continue interruzioni misteriose e prefissate anche durante il tratto diurno – quelle del sonno; e c’è poi la fermata e la caduta nel profondo da cui non si risale, o – come dice il poeta – dove tutto si dimentica. Ed è quest’ultima soprattutto che ci fa dire di noi stessi: siamo mortali.
Il primo che l’ha affermato è stato Alcmeone, citato da Aristotele, e quel suo dire suona così: “Gli uomini sono perituri perché non possono congiungere la loro fine al loro principio”.
Conoscenza perciò difettosa e limitata la nostra?
È quello che sto cercando di dimostrare in un impegno che si è già preso, qualunque sia il risultato, tanta parte del mio tempo e mi sta occupando ancora con queste Coincidenze. Esse vogliono essere anche una comunicazione presentata in modo nuovo e con un fondamento indiscutibile: la poesia. In modo che se qualcuno vuole intervenire per dichiararle inattendibili, si trovi a fare i conti anche con lei. Non con i singoli poeti, perché qualcuno potrebbe sentirsi messo a nudo e preferire la veste magica di prima, ma con la poesia, che dovrà adeguarsi perciò anch’essa alla nuova condizione. Dovrà penetrare di più nella parte oscura, quella d’altronde da cui sono giunti gli input fino ad oggi, per cui la provenienza non cambia, e svilupparsi di più nel regno della luce mettendo nuovi fiori e frutti.

La terza nota. Leopardi parla della luna da fuori della luna e come altro da essa, mentre parla dell’uomo dall’uomo. Dal suo interno, voglio dire.
Si obietterà che, come la luna, stanno fuori anche il pastore e il vecchierello. Ma non è la stessa cosa. Essi sono uomini, non sono altra cosa dal poeta, e ciò che vale per loro vale anche per lui. Tutti e tre sono mortali, tutti e tre seguono la stessa strada altalenante fra la luce e l’oscurità e nella zona buia sono trasportati e non hanno occhi per vedere. Poi c’è l’Abisso dove tutti vanno a finire.
A questo punto, ecco che appare la possibilità per l’uomo di saperne di più di sé. Se delle cose del cielo come la luna conosciamo tutte le sue fasi e il suo eterno riandare perché le vediamo da fuori e come altro da noi stessi, allora anche per vedere l’intero nostro cammino dobbiamo uscire. Da noi stessi a questo punto. È ciò che ho chiamato anche uscita dal mondo o dal labirinto.
Dopo c’è l’Abisso, ma arrivando sulla sua sponda ad occhi aperti e anticipando il tempo del suo ineluttabile accadere, già si comincia ad accorgersi di tutto il cammino e a far progetti. Com’è accaduto a Heidegger e Jünger dopo che sono giunti sulla linea di Mezzanotte (vedi quinta coincidenza, Aurobindo).
Uscir dal mondo o dal labirinto, perciò, è il primo importante risultato. Di esso ho già parlato in alcune precedenti coincidenze (vedi coincidenze prima, seconda, terza, nona e undicesima).

Quarta nota. Chi è che si innalza e guarda da fuori?
A questo punto, per vedere tutto il cammino, anche il semicerchio notturno, non è più sufficiente l’Io, ci vuole il Sé, l’ultima conquista dell’Occidente nel campo del soggetto.
Quello che nella poesia d’Aurobindo ha nome arcangelo (vedi quinta coincidenza, Aurobindo). Oppure quell’essere “un quarto uomo,/ tre quarti verbo” di Robertson (vedi nona coincidenza, Robertson, Andrà a ovest). O quello che vuole passare “di là dal tempo” di Montale (vedi decima coincidenza, Montale, Casa al mare).
Visto dai padri fondatori della psicanalisi, il Sé non è solo la parte in luce ma anche tratto d’Oceano vicino alla terra emersa. Quest’ultima è l’autocoscienza, l’altra è simile al bassofondo che gli olandesi hanno strappato al Mare del nord, imbrigliandolo con le loro dighe: a quell’opera Freud ha paragonato il lavoro della psicanalisi nella parte a notte dell’uomo e dell’umanità (vedi settima coincidenza, Kavafis, Candele). Della stessa cosa, vale a dire del Sé, Jung ha detto che è coincidenza di conscio e inconscio (vedi settima coincidenza, Kavafis, Candele).

P.S.
Lungo la via della conoscenza, prima di arrivare all’uscita dal mondo o dal labirinto, ho visto anch’io segnali che indicavano quella tappa. Ne riporto due che mi hanno particolarmente colpito, e un eguale effetto potrebbero produrlo in chi li legge.
Il primo: “C’è un altro che non vedo che comanda,/ come io comando a quelli che stanno sotto./ E mi comanda di assumere il comando/ perché egli è stato innalzato”.
Il secondo: “Se già osservo il vegetale e l’animale che stanno sotto/ allora potrò vedere anche l’umano/ se mi hanno detto di salire ancora”.
Questa è invece la conclusione che s’impone: Io sono uscito da me per dire di me stesso: c’è il giro completo della vita che tu puoi vedere e ripetere se vuoi. Ma ora dipende da te e non perché costretto.

Severino e Parmenide

26 febbraio 2009

Il colosso con i piedi d’argilla. Il tallone d’Achille.
La casa costruita sulla sabbia. Il castello di carte

Per Parmenide l’Essere è qualcosa che si raggiunge cercando e volendo, e in tal modo viene visto e conosciuto. È arrivato ad esso uscendo dalla “casa della Notte”, superando “la Porta che divide i sentieri della Notte e del Giorno” e imboccando poi “la via maestra” che conduce alla “rotonda Verità”, vale a dire all’Essere che egli, appunto, vede, conosce, descrive, diventando sapiente, arricchendosi di quel tesoro, acquistando quelle qualità.

Per arrivare all’Essere, naturalmente, è necessario lasciare questo mondo d’apparenze, vale dire le  cose distinte e separate e le loro “determinazioni”, che Severino stesso così elenca: “significati, forme, figure, aspetti, situazioni, stati, funzioni, rapporti”.

Le cose distinte e separate e le loro determinazioni diventano poi, per Parmenide, dopo che ha visto e conosciuto la “rotonda Verità”, oggetti di un altro tipo di conoscenza, parimenti raccomandato dalla “dea” che aiuta Parmenide a compiere il suo viaggio iniziatico aprendoli la Porta. Si tratta della conoscenza filosofica e scientifica delle cose e delle loro determinazioni – quelle di prima viste ora nella luce della ragione: via indicata da Parmenide stesso nella seconda parte del suo poemetto e poi iniziata praticamente da Socrate e che ancora oggi continua nei modi della scienza. Fin qui Parmenide: una ricerca, perciò, la “via maestra” che conduce alla “rotonda Verità”, un viaggio fuori dai “sentieri battuti”, un impegno, una precisa volontà.

Ed ora Severino.

Di tutto ciò in Severino, che pur dice di essere tornato a Parmenide per abbeverarsi a quella fonte, non c’è traccia. Non c’è viaggio, non c’è volontà che glielo fa compiere, non c’è benevolenza del Cielo e aiuto, non c’è Porta e perciò passaggio dalla Tenebra alla Luce. C’è solo la cieca e perversa eternità di tutte le cose e delle loro determinazioni. Un esempio: ognuno dei circa sei miliardi d’uomini che oggi abitano la terra – quelli che si vedono, gli altri sono fuori del cerchio dell’apparire –, è un “superdio”; e non solo lui, ma anche ogni starnuto di quando ha il raffreddore. Ogni starnuto è eterno, e non nel modo della scienza che dice che nulla si crea e nulla si distrugge ma soltanto si trasforma, ma in quello di Severino. Per lui nulla si trasforma ma “è” – per sempre. La base di partenza del più grande viaggio della vita e della conoscenza è diventato così il giro di un cimitero. Le morte spoglie sono diventate eterne e immutabili e l’opera che le ha così eternate un pantheon di cose e idee defunte.

Un primato tuttavia l’immensa opera di Severino ce l’ha: è la maggiore fra quelle che il nichilismo diventato condizione normale ha prodotto nel campo della filosofia.

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Parmenide

Parmenide

Il Frammento 1 del poemetto di Parmenide intitolato Sulla natura,
tratto da I Presocratici, testimonianze e frammenti,
Biblioteca Universale Laterza

Le cavalle che mi trascinano, tanto lungi, quanto il mio animo lo poteva desiderare
mi fecero arrivare, poscia che le dee mi portarono sulla via molto celebrata
che per ogni regione guida l’uomo che sa.
Là fui condotto: là infatti mi portarono i molti saggi corsieri
che trascinano il carro, e le fanciulle mostrarono il cammino.
L’asse nei mozzi mandava un suono sibilante,
tutto in fuoco (poiché premuto da due rotanti cerchi
da una parte e dall’altra) allorché si slanciarono
le fanciulle figlie del Sole. Lasciate le case della Notte,
a spingere il carro verso la luce, levatesi dal capo i veli.
Là è la porta che divide i sentieri della Notte e del Giorno,
e un architrave e una soglia di pietra la puntellano:
essa stessa nella sua altezza è riempita di grandi battenti,
di cui la Giustizia, che molto punisce, ha le chiavi che aprono e chiudono.
Le fanciulle allora, rivolgendole discorsi insinuanti,
la convinsero accortamente a togliere per loro la sbarra
velocemente dalla porta. La porta spalancandosi
aprì ampiamente il vano dell’intelaiatura, i robusti bronzei
assi facendo girare nei loro incavi uno dopo l’altro:
gli assi fissati con cavicchi e punte. Per di là attraverso la porta
subitamente diressero lungo la carreggiata carro e cavalli.
La dea mi accolse benevolmente, con la mano
La mano destra mi prese e mi rivolse le seguenti parole:
“O giovane, che insieme ad immortali guidatrici
giungi alla nostra casa con le cavalle che ti portano,
salute a te! Non è un potere maligno quello che ti ha condotto
per questa via (perché in verità è fuori del cammino degli uomini),
ma un divino comando e la giustizia.
Bisogna che tu impari a conoscere ogni cosa,
sia l’animo inconcusso della ben rotonda Verità
sia le opinioni dei mortali, nelle quali non risiede legittima credibilità.
Ma tuttavia anche questo apprenderai, come le apparenze
Bisognava giudicasse che fossero chi in tutti i sensi tutto indaghi.