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Giacomo Leopardi, Canto notturno di un pastore errante dell’Asia

11 ottobre 2009

Giacomo Leopardi,
Canto notturno di un pastore errante dell’Asia
Versi 1-38

Che fai tu, luna, in ciel? Dimmi, che fai,
Silenziosa luna?
Sorgi la sera, e vai,
contemplando i deserti; indi ti posi.
Ancor non sei tu paga
Di riandare i sempiterni calli?
Ancor non prendi a schivo, ancor sei vaga
Di mirar queste valli?
Somiglia alla tua vita
La vita del pastore.
Sorge in sul primo albore
Move la greggia oltre pel campo, e vede
Greggi, fontane ed erbe;
Poi stanco si riposa in su la sera:
Altro mai non ispera.
Dimmi, o luna: a che vale
Al pastor la sua vita,
La vostra vita a voi? Dimmi: ove tende
Questo vagar mio breve,
Il tuo corso immortale?

Vecchierel bianco, infermo,
Mezzo vestito e scalzo,
Con gravissimo fascio in su le spalle,
Per montagna e per valle,
Per sassi acuti, ed alta rena, e fratte,
Al vento, alla tempesta, e quando avvampa
L’ora, e quando poi gela,
Corre via, corre, anela,
Varca torrenti e stagni,
Cade, risorge, e più e più s’affretta,
Senza posa o ristoro,
Lacero, sanguinoso; infin che arriva
Colà dove la via
E dove il tanto affaticar fu volto:
Abisso orrido, immenso,
Ov’ei precipitando, il tutto oblia.
Vergine luna, tale
È la vita mortale.

Caspar Friedrich, Luna nascente sul mare (1821)

Caspar Friedrich, Luna nascente sul mare (1821)

Nei primi otto versi c’è il cammino della luna nel cielo, continuo e immutabile, di cui si sa ormai tutto: dove comincia ogni fase, dove finisce, come si ripete. Ed è un continuo riandare, sempre uguale: l’eterno ritorno dello stesso che Nietzsche, come ho già avuto modo di dire in una precedente coincidenza, considerava il peso più grande (vedi la decima coincidenza, Montale, Casa sul mare) e noia e tedio insopportabili. Leopardi invece dice: “ancor non sei tu paga” di questo riandare, di questo contemplare i deserti, “ancor non prendi a schivo, ancor sei vaga/ di mirar queste valli”? Ed è la stessa cosa detta con altre parole: Nietzsche in modo più drammatico. Il supplizio di Sisifo, la condanna di Tantalo.
Questo ritornare ogni volta all’inizio però la rende “immortale”. Comincia, gira, ritorna al punto di partenza, ripete, e così per sempre. Una condizione privilegiata, perciò, quella della luna, rispetto alla vita dell’uomo: perché quest’ultima è peritura, l’altra no.
A questo punto sappiamo cosa vuol dire immortalità: lo insegna il poeta, o c’è una definizione di essa chiara e distinta. Vuol dire compiere il giro completo e poi “riandare”, per i sempiterni calli.
Di fronte ad esso la “vita del pastore” che si sveglia all’alba e prima era nel sonno: ma cos’è il sonno? Egli non lo sa, perciò il suo giro s’è interrotto per lui nella notte. Arriva, in ogni modo, da regioni sconosciute e misteriose e perciò non sa da dove. “Poi stanco si riposa in su la sera”, ritorna nel sonno e non sa dove va. Ecco la differenza con il moto della luna, che invece “sorge alla sera”, si muove nella notte, ma è presente anche nel giorno. Non ha mai staccato dal suo moto, non ha mai interrotto la sua vigile presenza. Essa perciò conosce da dove viene e dove va.
Inoltre le interruzioni notturne del pastore sono segnali d’avvertimento dell’ultima che ci aspetta perché, come dicevano gli antichi, sonno e morte sono fratelli e alla fine si passa dall’uno all’altra. Essa, infatti, appare nella seconda strofa, dove anziché gioventù e sonno c’è vecchiaia e morte.
C’è tutta l’indigenza della vita, la sua precarietà, la sua tragica conclusione nei versi che seguono. In particolare:
C’è la vecchiaia e l’infermità.
La povertà, perché il vecchierel è “mezzo vestito e scalzo”.
La necessità di provvedere al fabbisogno per vivere: la legna per scaldarsi in questo caso.
Ci sono le avversità del tempo: venti, tempesta, caldo torrido, gelo.
Poi la faticosa e perigliosa corsa, varcando torrenti e stagni, cadendo, rialzandosi lacero e sanguinoso.
Per andare dove? Verso l’Abisso e alla fine precipitare in quel buco orrido immenso.Qui la morte ha nome abisso, come anch’io spesso l’ho chiamata.
Povero uomo! Mi pare che dai tempi di Buddha nessuno ha messo a nudo la sua vera condizione come ha fatto Leopardi con questi versi. O forse anche altri, ma lasciando un po’ di spazio all’illusione, alla speranza.

Si dirà: ma la vita umana è anche bella, c’è anche il paese di Bengodi sulle sue terre, tante cose sono attraenti e desiderabili. Ed io rispondo: è come il Luna Park, dove si portano i bambini, ed essi si divertono e non vorrebbero più uscire. Ma poi finisce il giorno, calano le ombre, arriva l’oscurità, chiudono le giostre. E comincia la solitudine, la tristezza, il pianto, il grido.
Per Leopardi la chiusura è definitiva: quello era l’ultimo spettacolo. Riuscito male, fra l’altro, specialmente per il vecchierello.
Buddha, invece, ha meditato sulla dolorosa condizione umana, che termina sempre con la morte, e ha trovato e percorso una via d’uscita che parte dal samsâra o ruota del divenire e porta al Nirvana – da nirva che significa spegnere. Poi l’ha insegnata.
Nirvana
perciò vuol dire spegnimento, ma anche contemporanea Illuminazione: spegnimento del mondo che si lascia, perciò, come si annebbiano e oscurano immediatamente le cose se si alzano gli occhi verso il sole e poi si ritorna ad osservarle, e Luce illuminante per chi ormai è entrato e la guarda apertamente e la sostiene. Perciò anche Nirvana e Illuminazione sono la stessa cosa: la Patria luminosa dove i sapienti sono entrati. Il tragitto per arrivare al Nirvana Buddha l’ha chiamato “Sentiero”.
Esso è soprattutto una via filosofica, anche se è improntata più sulla sapienza che sulla filosofia. Non c’è stata in Oriente la deviazione operata da Socrate e Platone fin dall’inizio. O Buddha, contemporaneo di Parmenide, non ha avuto discepoli o seguaci che hanno deviato dalla via maestra, contravvenendo ai suoi insegnamenti (vedi dodicesima coincidenza, Eliot, The rock). Oppure qualcosa di simile è avvenuto, ma solo alcuni secoli dopo la morte del maestro, all’inizio dell’era cristiana. Alla scuola da lui fondata, chiamata Piccolo veicolo (hinayana), che insegnava la conquista della verità per se stessi, simile perciò alla Via della Verità di Parmenide, si è affiancato il Grande veicolo (mahayana), un sentiero aperto a molti, ed esso assomiglia allora alla via della filosofia iniziata da Socrate e Platone. Perché questo potesse avvenire, l’illuminato (Bodhisattva) evitava di spegnersi nel nirvana e rimaneva per aiutare tutte le esistenze nella ricerca della verità e della liberazione.
Ma questa è un’altra storia che sarà da raccontare, perché è essenziale per la comprensione di ciò che ha separato l’Oriente dall’Occidente per tanti secoli e quel che ora li sta avvicinando.

Ora le note filosofiche.
La prima
: il corso immortale della luna in cielo e quello mortale dell’uomo sulla terra. Certamente non è la luna che sa, che confronta la sua esistenza con quella umana. Essa è un corpo inanimato, non ha coscienza: la sua coscienza è l’uomo, solo lui sa che è immortale. O, in ogni caso, è l’uomo che vede e parla.
E cosa vede? Il vagare breve di sé, perché sa quando comincia e come finisce, e il moto circolare continuo dell’altra. L’abbiamo già visto questo moto, nella poesia Casa sul mare di Montale, dove al posto della rotante luna ci sono “i giri di ruota della pompa” (vedi decima coincidenza Montale, Casa sul mare), o in quella di Novella Cantarutti che inizia così: “Rotolo indietro…”, e tutto ciò che sta dietro, dice la filosofia, è natura naturata e si muove in tondo ­– astri, vita vegetale, animale, umana.
Il confronto perciò è sempre fra il movimento lineare e quello circolare: di chi arriva sulla scena per compiere un tratto di cammino e poi com’è apparso così sparisce, e chi invece svolta, ritorna dove ha cominciato e riprende lo stesso corso.
Ora una domanda: se è solo l’uomo, sempre l’uomo, che vede e parla, non è solo lui, sempre lui, che dà la patente d’immortale alla luna e di mortale a sé? Certamente, ma sulla base dell’esperienza diranno tutti quanti, un’esperienza comune continuamente ripetuta e convalidata. Ciò che, insomma, è evidenza e scienza assieme, se si tiene presente che i risultati di quest’ultima non avvengono per caso, o, anche se ciò accade qualche volta, si possono però ripetere quando si vuole, e solo per questo possono appartenere alla scienza e fregiarsi dei suoi titoli.

Se, dunque, la durata della vita è diversa per la luna e l’uomo, ecco allora la seconda nota, che ha qui la forma di domanda: non può essere la luna immortale perché di essa vediamo tutto il cammino, e noi mortali perché il nostro c’è noto solo in piccola parte? Infatti, per ogni uomo ci sono continue interruzioni misteriose e prefissate anche durante il tratto diurno – quelle del sonno; e c’è poi la fermata e la caduta nel profondo da cui non si risale, o – come dice il poeta – dove tutto si dimentica. Ed è quest’ultima soprattutto che ci fa dire di noi stessi: siamo mortali.
Il primo che l’ha affermato è stato Alcmeone, citato da Aristotele, e quel suo dire suona così: “Gli uomini sono perituri perché non possono congiungere la loro fine al loro principio”.
Conoscenza perciò difettosa e limitata la nostra?
È quello che sto cercando di dimostrare in un impegno che si è già preso, qualunque sia il risultato, tanta parte del mio tempo e mi sta occupando ancora con queste Coincidenze. Esse vogliono essere anche una comunicazione presentata in modo nuovo e con un fondamento indiscutibile: la poesia. In modo che se qualcuno vuole intervenire per dichiararle inattendibili, si trovi a fare i conti anche con lei. Non con i singoli poeti, perché qualcuno potrebbe sentirsi messo a nudo e preferire la veste magica di prima, ma con la poesia, che dovrà adeguarsi perciò anch’essa alla nuova condizione. Dovrà penetrare di più nella parte oscura, quella d’altronde da cui sono giunti gli input fino ad oggi, per cui la provenienza non cambia, e svilupparsi di più nel regno della luce mettendo nuovi fiori e frutti.

La terza nota. Leopardi parla della luna da fuori della luna e come altro da essa, mentre parla dell’uomo dall’uomo. Dal suo interno, voglio dire.
Si obietterà che, come la luna, stanno fuori anche il pastore e il vecchierello. Ma non è la stessa cosa. Essi sono uomini, non sono altra cosa dal poeta, e ciò che vale per loro vale anche per lui. Tutti e tre sono mortali, tutti e tre seguono la stessa strada altalenante fra la luce e l’oscurità e nella zona buia sono trasportati e non hanno occhi per vedere. Poi c’è l’Abisso dove tutti vanno a finire.
A questo punto, ecco che appare la possibilità per l’uomo di saperne di più di sé. Se delle cose del cielo come la luna conosciamo tutte le sue fasi e il suo eterno riandare perché le vediamo da fuori e come altro da noi stessi, allora anche per vedere l’intero nostro cammino dobbiamo uscire. Da noi stessi a questo punto. È ciò che ho chiamato anche uscita dal mondo o dal labirinto.
Dopo c’è l’Abisso, ma arrivando sulla sua sponda ad occhi aperti e anticipando il tempo del suo ineluttabile accadere, già si comincia ad accorgersi di tutto il cammino e a far progetti. Com’è accaduto a Heidegger e Jünger dopo che sono giunti sulla linea di Mezzanotte (vedi quinta coincidenza, Aurobindo).
Uscir dal mondo o dal labirinto, perciò, è il primo importante risultato. Di esso ho già parlato in alcune precedenti coincidenze (vedi coincidenze prima, seconda, terza, nona e undicesima).

Quarta nota. Chi è che si innalza e guarda da fuori?
A questo punto, per vedere tutto il cammino, anche il semicerchio notturno, non è più sufficiente l’Io, ci vuole il Sé, l’ultima conquista dell’Occidente nel campo del soggetto.
Quello che nella poesia d’Aurobindo ha nome arcangelo (vedi quinta coincidenza, Aurobindo). Oppure quell’essere “un quarto uomo,/ tre quarti verbo” di Robertson (vedi nona coincidenza, Robertson, Andrà a ovest). O quello che vuole passare “di là dal tempo” di Montale (vedi decima coincidenza, Montale, Casa al mare).
Visto dai padri fondatori della psicanalisi, il Sé non è solo la parte in luce ma anche tratto d’Oceano vicino alla terra emersa. Quest’ultima è l’autocoscienza, l’altra è simile al bassofondo che gli olandesi hanno strappato al Mare del nord, imbrigliandolo con le loro dighe: a quell’opera Freud ha paragonato il lavoro della psicanalisi nella parte a notte dell’uomo e dell’umanità (vedi settima coincidenza, Kavafis, Candele). Della stessa cosa, vale a dire del Sé, Jung ha detto che è coincidenza di conscio e inconscio (vedi settima coincidenza, Kavafis, Candele).

P.S.
Lungo la via della conoscenza, prima di arrivare all’uscita dal mondo o dal labirinto, ho visto anch’io segnali che indicavano quella tappa. Ne riporto due che mi hanno particolarmente colpito, e un eguale effetto potrebbero produrlo in chi li legge.
Il primo: “C’è un altro che non vedo che comanda,/ come io comando a quelli che stanno sotto./ E mi comanda di assumere il comando/ perché egli è stato innalzato”.
Il secondo: “Se già osservo il vegetale e l’animale che stanno sotto/ allora potrò vedere anche l’umano/ se mi hanno detto di salire ancora”.
Questa è invece la conclusione che s’impone: Io sono uscito da me per dire di me stesso: c’è il giro completo della vita che tu puoi vedere e ripetere se vuoi. Ma ora dipende da te e non perché costretto.

Inni alla notte

13 marzo 2009

Novalis, Inni alla notte, Mondadori 1982

Novalis

Novalis

Inno primo

Quale vivente, dotato di senso, fra tutte le magiche parvenze dello spazio che si dilata intorno a lui, non ama la più gioiosa, la luce con i suoi colori, i suoi raggi e onde; la sua mite onnipresenza di giorno che risveglia. Come l’anima più intima della vita la respira il mondo immane delle costellazioni senza quiete, e nuota danzando nel suo flutto azzurro la respira la pietra scintillante, in eterno riposo, la pianta sensitiva che sugge, e il multiforme animale istintivo ma soprattutto lo splendido intruso con gli occhi colmi di sensi, il passo leggero, le labbra dolcemente socchiuse, ricche di suoni. Come un sovrano della natura terrena, essa chiama ogni forza a metamorfosi innumeri, annoda e scioglie alleanze infinite, avvolge la sua immagine celeste intorno ad ogni creatura terrestre. La sua sola presenza rivela l’incanto dei reami del mondo.
In plaghe remote mi volgo alla sacra, ineffabile, arcana notte. Lontano giace il mondo
sepolto nel baratro di una tomba squallida e solitaria la sua dimora. Nelle corde del petto spira profonda malinconia: In gocce di rugiada voglio inabissarmi e mescolarmi alla cenere. Lontananze della memoria, desideri della giovinezza, sogni dell’infanzia, brevi gioie e vane speranze dell’intera e lunga esistenza vengono in grigie vesti, come nebbie vespertine dopo il tramonto del sole. In altri spazi la luce ha piantato le sue tende gioiose. Non tornerà mai dai suoi figli, che l’attendono in ansia con la fede degli innocenti?
Che cosa d’improvviso sgorga così carico di presagi sotto il cuore, e inghiotte l’aura tenue della malinconia? Anche tu trovi piacere in noi, oscura notte? Che cosa tieni sotto il tuo manto, che con forza invisibile mi tocca l’anima? Delizioso balsamo stilla dalla tua mano, dal fascio di papaveri. Le ali grevi dell’animo tu innalzi. Ci sentiamo pervasi da una forza oscura, ineffabile
un volto severo vedo con lieto spavento, che si piega su di me devoto e soave, e sotto i riccioli che senza fine s’intrecciano, mostra la cara giovinezza della madre. Come misera e puerile mi sembra ora la luce – come grato e benedetto il commiato dal giorno – Solo per questo quindi, perché la notte discosta da te i fedeli, tu seminasti per l’immensità dello spazio le sfere splendenti per annunciare la tua onnipotenza il tuo ritorno nei tempi della tua assenza. Più celesti di quelle sfere scintillanti ci sembrano gli occhi infiniti che la notte dischiude in noi. Così lontano non vedono le più pallide di quelle schiere innumerevoli senza bisogno di luce penetrano con lo sguardo gli abissi di un’anima amante il che colma uno spazio più alto di voluttà indicibile. Premio della regina del mondo, della eccelsa abitatrice di mondi sacri, custode di amore beato a me ti manda amata soave caro sole della notte, ora veglio. Perché sono Tuo e Mio tu mi hai rivelato che la notte è vita mi hai fatto uomo consuma con ardore spettrale il mio corpo, così che io mi congiunga etereo più intimamente con te e la notte nuziale duri in eterno.

Inno secondo

Deve sempre ritornare il mattino? Ma non finirà la violenza di ciò che è terrestre? Un nefasto affaccendarsi divora il volo celeste della notte. Non brucerà mai in eterno il segreto olocausto dell’amore? Misurato fu alla luce il suo tempo; ma senza tempo e senza spazio è il dominio della notte. Eterna è la durata del sonno. Sacro sonno non donare troppo di rado la gioia agli iniziati della notte in questa terrestre diurna fatica. Solo i folli ti disconoscono e ignorano un sonno diverso dall’ombra che tu getti, per pietà, su di noi, in quel crepuscolo della notte vera. Non ti sentono nell’aureo fiotto del grappolo, nell’olio prodigioso del mandorlo e nel bruno succo del papavero. Non sanno che aleggi intorno al seno tenero della ragazza e fai un cielo di questo grembo – non presagiscono che tu provieni da antiche leggende schiudendo il cielo e porti la chiave per le dimore dei beati, tacito nunzio di misteri infiniti.

Inno terzo

Un giorno che versavo amare lacrime, che la mia speranza si dileguava dissolta in dolore, e io stavo solitario vicino all’arido tumulo, che nascondeva in angusto oscuro spazio la forma della mia vita solitario, come non era mai stato nessuno, incalzato da un’angoscia indicibile senza forse, non più che l’essenza stessa della miseria. Come mi guardavo attorno in cerca d’aiuto, non potevo proseguire né arretrare, e mi aggrappavo alla vita sfuggente, spenta, con nostalgia infinita allora venne dalle azzurre lontananze: dalle alture della mia beatitudine un brivido crepuscolare e d’un tratto si spezzò il cordone della nascita, il vincolo della luce. Si dileguò la magnificenza terrestre e il mio cordoglio con essa confluì la malinconia in un nuovo imperscrutabile mondo tu estasi della notte, sopore del cielo ti posasti su di me – la contrada si sollevò poco poco; sopra la contrada aleggiava il mio spirito sgravato e rigenerato. Il tumulo divenne una nube di polvere attraverso la nube vidi i tratti trasfigurati dell’amata. Nei suoi occhi era adagiata l’eternità io afferrai le sue mani e le lacrime divennero un legame scintillante non lacerabile. Millenni dileguarono in lontananza, come uragani. Al suo collo piansi lacrime d’estasi per la nuova vita. Fu il primo, unico sogno e solo d’allora sentii eterna, inalterabile fede nel cielo della notte e nella sua luce, l’amata.

*

La vasta e numerosa letteratura – quella grande, s’intende! – è il racconto di un’avventura iniziata alcuni millenni fa, continuamente ripetuto in tante lingue e in innumerevoli modi, ascoltato dalle generazioni che si susseguono sulla Terra e nell’aperto luminoso del sole e delle stelle, che solo ai nostri giorni ha trovato una maggiore chiarezza e distinzione nel campo della conoscenza razionale?
Questo è ciò che ho cercato di dimostrare, indagando e trasformando in idee filosofiche le intuizioni poetiche di Per sempre di Grazia Sacchi, Il cerchio e la linea di Novella Cantarutti e una poesia della raccolta Foglie d’erba di Whitman; e ora la dimostrazione continua con altre.
Naturalmente non esiste soltanto la letteratura impegnata fino a tal punto, vale a dire fino al periplo della terra e del pensiero: avventura immane non ancora conclusa in modo chiaro e distinto, che, come ho già detto, ci sta impegnando fin da quando la civiltà è cominciata e sembra che non sia retaggio soltanto dell’Occidente. C’è anche quella minore o secondaria, che serve come evasione, da passatempo, o scacciapensieri, quella che molti mettono nella valigia delle vacanze, o tengono sul comodino, per dilettarsi con qualche riga o qualche pagina alla sera prima di addormentarsi. Ma essa è un’altra cosa.
Ritorno alla prima per rimanerci per un po’, finché almeno non riuscirò a mettere assieme una mappa completa dell’avventura più grande, ricorrendo ad aspetti di essa che si sono manifestati lungo il millenario soggiorno dell’uomo sulla Terra.
Un lavoro che ho già cominciato, dunque, indagando e interpretando le precedenti poesie: esse sono già tracce di quella mappa ed ora continuo con Inni alla notte di Novalis, poi si vedrà.

Dei tanti modi in cui l’avventura è stata raccontata, qui mi sono attenuto soltanto a quello espresso dalla poesia. Ma anche in questa lingua, numerosi sono i nomi dati ai protagonisti, tante le varianti alla via, innumerevoli gli incroci, le difficoltà incontrate, gli enigmi sciolti, le prove superate, le battaglie combattute e vinte, i mostri affrontati e uccisi. Ma se è parola di poesia quella che li esprime, anche i particolari sono tessere di quel mosaico da cui si può intravedere il tutto. C’è da dire, inoltre, che non sempre tutta l’avventura è adombrata per intero nelle poesie prese in esame e nelle altre che seguiranno, anzi quasi mai: spesso c’è solo l’arrivo, per esempio, e l’amore che muove fino a quel punto.
Poi però ci sono i grandi poemi che presentano l’intero sogno, o quasi: la Saga di Gilgamesh, L’Odissea, L’Eneide, La Divina Commedia, il Faust; ma essi sono già nei loro campi delle mappe complete. Mappe che contengono molte indicazioni e chi sa leggerle, riesce ad arrivare fin presso al nascondiglio del tesoro e qualcuno, in qualche modo, a raggiungerlo e vederlo.

Perché questo viaggio immenso condotto sulla via della cultura?
C’è un perché e salta subito alla mente di chi ascolta o legge appena viene detto o scritto: perché riprende e continua quello della natura, che ci fa così come siamo, con un corpo per partecipare a ciò che si chiama vita in uno scenario che ha nome mondo; da cui però si scompare e c’è tenebra e mistero dopo il confine. Il movente, dunque, è il fondo oscuro che sta alla base d’ogni sapere, è il primo e fondamentale giro ignoto nella parte a morte e che nell’altra fa apparire e sparire tutte le cose in un continuo andirivieni. Per esempio, ritorna il sole ogni mattina e scompare alla sera, si ripetono le costellazioni nella volta visibile del cielo, spuntano i fiori in primavera, vengono alla luce gli animali e gli uomini e poi rientrano nelle tenebre e mistero da cui sono venuti; ma questo incessante andirivieni, non è in mano ai singoli, cose o viventi, anche i più evoluti, che non sanno perciò da dove vengono, chi sono, dove vanno. Ed è per sapere di esso, per illuminare quella tenebra, per svelare il suo segreto, che fin dall’inizio delle civiltà esistono negli uomini i semi di coscienza espressi dai miti, dai misteri, dalle religioni, dalla poesia, dalla sapienza, dalla filosofia, e si dovrebbe sempre più avvicinarsi in modo chiaro e distinto alle spiagge dorate della luce che illumina, collega e svela. “Essere” la chiamano, prevalentemente, filosofi e sapienti; “Dio” normalmente e comunemente tutta la gente.
Qualcuno in quella luce è già entrato: coloro che hanno superato l’Abisso e sono passati aldilà.
Tentativi, insomma, quelli del poeta, di dare un volto e un nome all’invisibile e al mistero che accompagnano questa nostra presenza ed esistenza sulla terra.

Il poemetto Inni alla notte di Novalis ha in comune con la Saga di Gilgamesh, cui ho fatto cenno nella precedente traduzione e interpretazione della poesia di Whitman, soprattutto la partenza e i motivi che l’hanno determinata.
Ambedue i protagonisti hanno perduto le persone più care, Gilgamesh l’inseparabile amico Enkidu e Novalis la ragazza amata e il fratello. E per trovarle, entrambi i protagonisti affrontano il regno della morte, perché là sono andati a finire i loro cari. Gilgamesh le acque di morte, Novalis la tenebra che separa lui vivente dalla fidanzata prematuramente scomparsa.
C’è da dire però che l’avventura di Gilgamesh appartiene alla dimensione del Mito e quella di Novalis prevalentemente alla Poesia, e fra le due sono passati circa tremila anni, che hanno aggiunto molto alla ricerca e alla scoperta. Gilgamesh, per esempio, non è riuscito a superare le acque di morte e perciò non ha rivisto l’amico perduto che si trovava aldilà, Novalis invece la Notte l’ha superata con le ali della poesia e Sophie gli è apparsa e con lei si è congiunto.
A questo punto, pongo mano alla traduzione degli Inni alla notte, che dopo il presente preambolo dovrebbe avere il cammino un po’ più facile e risultare più chiaro e semplice. Di essi, prenderò in considerazione per ora solo i primi tre, anche perché dopo il terzo, la poesia sfuma in altri linguaggi: in quello della religione e nel misticismo ed essi perciò, se lo vorrà il Cielo, saranno oggetto di altre traduzioni.

Nel suo primo inno, dopo aver tessuto le lodi della luce, è nella direzione opposta che il poeta però si rivolge, quella delle tenebre, per andare dove Sophie e il fratello sono spariti. Prende congedo dalla luce diurna anche se gioiosa, nonostante “i suoi colori, i suoi raggi e onde; la sua mite onnipresenza di giorno che risveglia”, e si volge all’immensa avventura nel regno tenebroso che è sepolto nel baratro di una tomba, squallida e solitaria la sua dimora. Perché, dunque, è il regno della morte dove sono spariti i suoi cari che lui vuole ritrovare.
E quel miracolo comincia quasi subito: la Notte dove è entrato prende forma ed aspetto. Quello di un volto severo che devoto e soave si piega sul poeta e “sotto i riccioli che senza fine s’intrecciano, mostra la cara giovinezza della madre”. Notte che ha l’aspetto della madre: ecco finalmente un primo segno noto e caro dell’impenetrabile segreto di sempre. Dopo quell’apparizione, misera e puerile gli sembra la luce, grato e benedetto il commiato dal giorno. Ma è solo l’inizio, perché dopo la madre gli appare Sophie, la giovanissima fidanzata, che se n’era andata da poco lasciandolo solo nel giorno.
Ma perché la morte s’illumina e poi acquista anche il volto della madre e diventa incontro e fusione con l’amata? Perché così è la natura: è il profondo e misterioso da cui la vita proviene, e la poesia, sull’onda del sentimento e dell’intuizione, porta a chiarità quel nascosto e quel che appare è donna. Perché è la donna che nasconde nel suo grembo, come l’ostrica la perla, la parte misteriosa e segreta della vita ed è lei perciò, materialmente, la depositaria. Si tratta d’informazioni che la sapienza e le religioni hanno da molto: il Tao afferma che la donna è l’altra metà del cielo, che è il percorso oscuro, e nel suo simbolo, tanto diffuso e noto, essa occupa quel posto e le due parti che compongono il totale: notte – giorno, donna – uomo, stanno assieme e coincidono.
Continuo con il primo inno. Dopo la madre, dunque, Sophie. Dopo la madre, l’amante e la sposa. Tutto il circolo, insomma, quello che è segreto nella parte a notte e che solo al sentimento poetico era dato di sollevarlo. Ed egli così conclude il primo canto: “Tu mi hai rivelato che la notte è vita – mi hai fatto uomo – consuma con ardore spettrale il mio corpo, così che io mi congiunga etereo più intimamente con te e la notte nuziale duri in eterno”. Dicono gli esperti e studiosi di Novalis che questa chiusa del primo inno, nel testo manoscritto aveva un’accentuazione erotica che il poeta ha molto sfumato nella versione per l’Athenäum (la rivista fondata da Friedrich Schlegel, che pubblicò quasi tutte le opere di Novalis), perché il discorso si mantenesse su un piano mistico-religioso. Invece quella correzione era da evitare, perché ciò che ci sta davvero a questo punto è il più semplice e normale degli amplessi: quello erotico-sentimentale. Perché l’altro immutabile ed eterno avverrà nel terzo inno.

Nel secondo inno, dopo che la tenebra è mutata in notte “sacra, ineffabile, arcana”, e dall’oscuro manto che s’è aperto è apparso il volto della madre e Sophie, è il giorno che mostra ora la sua povertà, provvisorietà e limitatezza. Diventa sgradita la sua invadenza e il poeta si domanda: “Deve sempre ritornare il mattino? Ma non finirà la violenza di ciò che è terrestre?” Perché non solo la notte ha tutte le stelle mentre il giorno ha solo il sole, “ma (anche) senza tempo e senza spazio è il (suo) dominio”, mentre “misurato fu alla luce il suo tempo”. Perciò eterna è la durata del sonno, vale a dire la permanenza nella notte, di fronte alle brevi incursioni giornaliere.
Inoltre la notte ha anche la chiave della porta che apre la porta del regno dove sono giunti i suoi cari, perché è la sua ombra, la sua anticamera, perché si passa da lì, e questo accresce la sua importanza sul giorno, dove c’è solo vita effimera e vana.

Poi nel terzo inno il superamento della tenebra, dopo che è diventata notte e donna.
E dopo la prima unione con Sophie dettata dall’amore carnale, dopo che la tenebra è stata superata e si aperta la porta “per la dimora dei beati”, avviene quella ideale e per sempre.
Ma prima di quell’abbraccio con la persona amata che sembrava irrimediabilmente perduta, c’è una grande povertà, tristezza, desolazione. Lacrime amare, speranze che si dileguano, solitudine davanti alla tomba, angoscia indicibile, nostalgia infinita, vita spenta. Capita sempre così: tutto ciò corrisponde allo stato d’animo di chi perde la persona amata e rimane solo e sperduto, ma era necessario arrivare alla fine di questo mondo per entrare nell’altro. E prima del passaggio c’è tutto questo: tutto si dilegua fino alla scomparsa, tutte le radici della vita si staccano e si sfilano dalle terre antiche – la madre terra, il corpo – dove erano abbarbicate. Soltanto dopo si può entrare.
Così una sera, mentre si trovava davanti alla tomba di Sophie, “solitario come non era mai stato nessuno”, “si spezzò il cordone della nascita, il vincolo della luce”. Il tetro confine, la tomba, la morta spoglia, tutto si dissolse; e il poeta entrò nell’altra dimensione: vide i tratti trasfigurati dell’amata, afferrò le sue mani e “al suo collo pianse lacrime d’estasi per la nuova vita”.
Una vera e propria trasformazione dopo il superamento dell’abisso e l’ingresso nell’immutabile ed eterno.Cosa si può aggiungere, arrivati a questo punto! Che qui tutto si compie nella parola di poesia. Tutto ciò che poi è diventata la via circolare della filosofia, percorsa con i passi della ragione e della sapienza, qui è un volo, è l’unità poetica del tutto: è giorno-notte, veglia-sonno, uomo-donna, vita-morte, nell’unità che in generale si chiama coincidenza degli opposti, e quando sono uomo e donna le due metà, matrimonio. Come sarà il matrimonio nella dimensione dopo l’abisso? Qui un po’ l’ha detto la poesia, oppure qualcosa sappiamo dalle religioni: ci sarò la coincidenza uomo-donna.
Nel Vangelo secondo l’apostolo Tommaso, che Gesù stesso chiamò “didimo”, cioè “gemello”, è detto: “E quando farete del maschio e della femmina una cosa sola in modo che il maschio non sia più maschio e la femmina non sia più femmina…, allora entrerete nel regno”.
Si legge nello Zohar ebraico che “Ogni anima e ogni spirito,” “prima di penetrare in questo mondo, è composto da un maschio e una femmina uniti in un solo essere. Quando discende su questa terra, le due parti si separano e si animano in due corpi diversi. Al momento del matrimonio, il Santo, li unisce di nuovo come prima, e di nuovo essi costituiscono un solo corpo e una sola anima, formando così la destra e la sinistra di un individuo… Questa unione, tuttavia, è influenzata dalle azioni dell’uomo e dal modo in cui si comporta. Se l’uomo è puro e la sua azione è gradita a Dio, egli viene unito alla parte femminile della sua anima, che faceva parte di lui prima della nascita.”
In un frammento da un testo apocrifo, chiamato Il vangelo degli Egizi conservato da Clemente Alessandrino, è affermato che il Redentore, interrogato su quando sarebbe venuto il Suo regno, ha risposto: “Quando quei due (maschio e femmina) saranno uno solo, nell’esterno come nell’interno, e il maschio con la femmina non sarà né maschio né femmina”.
Alla fine dei tempi – questi che stiamo vivendo –, per Paolo di Tarso ci sarà la riconciliazione dei contrari: “Non vi è né schiavo né uomo libero, né uomo né donna”.
Nel Vangelo apocrifo di Filippo sta scritto: “Grande è il mistero del matrimonio! Perché senza di esso il mondo non sarebbe esistito. Ora, l’esistenza del mondo dipende dall’uomo, e l’esistenza dell’uomo dal matrimonio”. Dove matrimonio è, appunto, uno dei nomi della coincidenza degli opposti.

Dopo il terzo inno la poesia acquista tratti che appartengono alla religione e al misticismo e sfuma in essi; perciò chiudo qui. Semmai i rimanenti inni li riprenderemo in una non improbabile altra traduzione: dal linguaggio religioso o mistico questa volta, perché collegamenti segreti e misteriosi ci sono sempre state tra le varie forme di linguaggio, e si tratta soltanto di riuscire a decifrarli.

Visto nella prospettiva dell’immensa avventura, quella attorno alla terra e alla mente, cosa ha in comune Inni alla notte con le altre che l’hanno preceduta e seguita. Con Gilgamesh, per esempio, già ricordato, o con l’avventura d’Ulisse e quella di Whitman? Sono la stessa, è la risposta. Ma questa è detta attingendo direttamente e quasi esclusivamente dall’amore uomo-donna. Quello è stato il movente principale. Ci sono, come nelle altre, tanti contraddittori: luce e tenebra, giorno e notte, veglia e sonno, conscio e inconscio, vita e morte, ma è su uomo e donna che si è appuntata la ricerca, dopo che questa unione è stata interrotta dalla morte di uno dei due. Ma fra l’uno e l’altro ora c’è l’abisso, che bisogna superare per ricostituire l’unità, ed è su questo ostacolo immane che la maggior parte delle avventure si arena.

Novalis, invece, con la poesia è riuscito a superarlo e passare, dopo che, come si è visto, quella tenebra è diventata notte stellata e ha preso le sembianze della madre e di Sophie e dopo che si è congiunto con lei. Non è così, d’altronde che si arriva sempre nella vita! Spuntando dall’abisso e rientrando in esso. Gettati, però, e poi tolti, come dice la filosofia, dopo un breve tratto di cammino nella luce del sole e della mente. Mentre nelle grandi avventure del pensiero si superano i limiti della natura umana che sembravano invalicabili, e ancora così si presentano ai più. In Inni alla notte, dunque, la vita del poeta continua nella morte della fanciulla amata e che l’aldilà fosse la sua meta, lo ha detto anche con le parole della filosofia: “Il vero atto filosofico è un suicidio. Questo è l’inizio reale d’ogni filosofia, a tanto mira il bisogno del discepolo in filosofia, poiché solo questo atto risponde a tutte le caratteristiche dell’azione trascendente” (Novalis, frammento 54) . La grande poesia persegue il sogno di sempre, da quando nell’uomo è entrata la morte come compagna inseparabile e le due sono staccate e opposte. Separazione estrema che è causa d’angoscia, timore, tremore, terrore. Perciò la reazione di alcuni, forse di chi non ha accettato ed accetta la sconfitta continua e inesorabile, e i tentativi compiuti e i risultati ottenuti nei vari campi della conoscenza stanno a dimostrare che molto è stato ottenuto, varie coincidenze di opposti sono state raggiunte, e anche vita-morte non sono più così diverse ed opposte e senza speranza di formare l’unità.