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Oltrepassare Severino 1

21 ottobre 2011

Tiziano Vecellio, Sisifo (1548-49)

Partito dall’idea che ente ed essere non sono distinti e separati – ciò che è in Parmenide, per esempio –, con la conseguenza che ogni uomo è un Dio, anzi un “Superdio”, e il dio delle religioni viene cancellato, Severino ha poi speso il suo insegnamento a sostenerla, svilupparla, dimostrarla. Tale è la sua opera: il più grande monumento al nulla che sia mai stato scritto. E i frequentatori abituali del suo pensiero che provano ad arrampicarsi su quella allucinante struttura, immancabilmente scivolano da qualche parte e inevitabilmente si ritrovano al punto di partenza. Una nuova versione della fatica di Sisifo, insomma.
Si badi bene però: costruire un monumento siffatto è opera filosofica di grande importanza in tempi di nichilismo diventato condizione normale, tanto è vero che abbiamo sempre chiamato Severino “Re del nichilismo”. Lo dimostra anche il fatto che c’è sempre una lunga fila che va a vederla e studiarla, ma poi non resta nulla. Nulla che aiuti l’uomo dei nostri giorni a superare davvero la sua condizione.
Ciò che invece noi abbiamo fatto completando e illuminando la via dell’eterno ritorno dell’uguale (vedi Friedrich Nietzsche e l’uscita dal cerchio dell’eterno ritorno).

L’inaudito di Emanuele Severino, ovvero l’attrazione del nulla

1 Maggio 2010

Qui scriviamo i canti
di una nuova era.
La filosofia ufficiale,
le nenie funebri
di quella che finisce.

 

 

Salvador Dalí, Persistenza della memoria, 1931

Non sempre Severino arriva fino alla base del suo pensiero. Perlopiù si ferma prima, a quel “inaudito” indicato ma non svolto, che per i pochi che sono riusciti a seguire la sua filosofia fino a quel punto è espresso dalla formula: “l’essente è eterno, immutabile, immobile”.
Essente
è l’uomo: ogni uomo che si vede e tocca, ma anche quelli che non s’incontrano più per le vie e le piazze della città e hanno la loro foto su una lastra in cimitero e di cui, perché si crede che le cose vengano dal nulla e nel nulla ritornano, si dice erroneamente o superficialmente che sono morti, e quelli che non abbiamo mai visto perché non sono ancora nati. I primi, infatti, per Severino sono soltanto usciti dal cerchio dell’apparire e i secondi non sono ancora entrati in esso. Inoltre, essente è anche ogni filo d’erba del prato di questa primavera e di ogni altra passata e futura, i sassi della via, ogni granello di sabbia del mare, le stelle del cielo, i bruchi che si arrampicano sui fili d’erba, la secrezione che essi lasciano spostandosi eccetera – tutto eterno, immutabile, immobile, che non è stato o sarà, ma è.
Dunque, Severino non arriva spesso fino alla formula dell’“inaudito”, che è la base di partenza, il fondamento su cui sorge la sua filosofia, ma qualche volta è successo in modo chiaro e distinto: nel libro Il muro di pietra, per esempio, uno dei tanti che ha scritto. (E. Severino, Il muro di pietra, Rizzoli, pagg. 195-196) Ecco in che modo: partendo da Proust.
Seguono le pagine 195 e 196 di quel libro, che dividiamo in tre parti, e sotto ad ognuna un commento.

Prima parte.
Nel Tempo ritrovato Proust parla degli attimi in cui ritorna il suo passato di bambino, quando a tarda sera attendeva il ritorno a casa dei genitori e a un certo punto tintinnava in giardino il campanellino del cancello. Il tintinnio e i passi dei genitori, in quegli attimi, “io li udivo ancora, li udivo proprio loro, pur situati così lontani nel passato […] Era proprio quel campanello a risuonare ancora in me, senza che io nulla potessi mutare nelle strida del suo sonaglio […] Dunque quello scampanellio vi era sempre, e con lui, fra esso e l’attimo presente, tutto quel passato indefinitamente trascorso che ignoravo di portare ancora in me”.
Quegli attimi, scrive Proust, non sono soltanto “resurrezioni del passato”, ma resurrezioni “totali” del passato, non sono “semplicemente un’eco, un duplicato d’una sensazione passata”, “ma proprio quella sensazione stessa”.

Qui si dice che si ripresenta eterno, immutabile e immobile, ciò che dovrebbe essere lontano, vago, perduto. Come sono i ricordi in genere, che poi svaniscono completamente, o diventano solo indecifrabili segni come le pietre di una via antica corrose dal tempo e dall’uso, che nessuno più sa a cosa servivano e dove conducevano. Invece a Proust si ripresentano le stesse cose di quando era bambino: non “un duplicato d’una sensazione passata, ma proprio quella sensazione stessa”.
Un’esperienza che non è toccata solo a Proust, ma anche ad altri. A Borges, per esempio, durante una passeggiata notturna, che così racconta: “Una sorta di gravitazione familiare mi guidò verso quartieri, del cui nome voglio sempre ricordarmi e che dettano reverenza al mio cuore” […] “Mi arrestai a guardare quella semplicità, Pensai, certo ad alta voce: ‘È come trent’anni fa’. Calcolai la data: un’epoca recente in altri paesi, ma già remota in questa mutevole parte del mondo. […] Il facile pensiero ‘sono nel mille ottocento e tanti’ cessò d’essere poche approssimative parole e divenne realtà profonda. Mi sentii morto, sentii che percepivo astrattamente il mondo; sentii un indefinito timore penetrato di scienza che è la luce migliore della metafisica. Non credetti, no, di aver risalito le prevedibili acque del Tempo; piuttosto sospettai d’essere in possesso del senso reticente o assente dell’inconcepibile parola eternità. Solo in seguito potei definire tale immaginazione”.
“La scrivo, ora, così: questa pura rappresentazione di fatti omogenei – notte in quiete, muro nitido, odore di provincia della madreselva, fango essenziale – non è soltanto identica a quella che si verificò in quest’angolo tanti anni fa; è, senza somiglianze né ripetizioni, la stessa. Il tempo, se possiamo intuire tale identità, è una delusione: l’indifferenza e inseparabilità di un momento del suo apparente ieri e di un altro del suo apparente oggi, bastano a disintegrarlo”
(J.L. Borges, Nuova confutazione del tempo, Mondadori, pagg. 1080-1081).
Dunque, nel corso di una vita, simili ai ricordi si ripresentano anche avvenimenti lontani nel passato che sono gli stessi della prima volta. “Resurrezioni totali”, li ha chiamati Proust. Non “poche approssimative parole” ma “realtà profonda”, ha detto Borges.

 

Seconda parte.
Dunque, il passato si ripresenta in carne ed ossa. Come son proprio le montagne, e non le loro semplici immagini, a ripresentarsi allorché le nubi che le avvolgevano si dissolvono e si allontanano. Proust avverte qualcosa d’inaudito al di là dei consueti modi di considerare il passato da parte della “nostra cultura” (sente la voce della Non-Follia). Ma poi, l’inaudito, egli lo perde subito di vista, perché se quella del passato è una “resurrezione totale”, è però, per lui, conservato soltanto nella coscienza dell’artista, cioè di un essere “destinato a morire”, a diventare un “essere che non è più”, che è annientato dall’“azione distruttrice del tempo”. “Anche per Heidegger la poesia di Hölderlin intuisce ciò che rimane, lo stabile, l’“Essere”; ma la stabilità dell’“Essere” rimane sino a che i poeti esistono: con la loro morte, anche la stabilità si annienta.”

Qui si entra decisamente nel cuore della filosofia di Severino. Bene la voce della “Non-Follia” che i poeti percepiscono, dice Severino, ma ecco il loro limite: percepiscono l’eterno, immutabile immobile ma all’interno di un di un essere “destinato a morire”, cioè solo nel corso della loro vita finché dura. Poi, seguendo invece la voce comune e generale della Follia, credono che il loro corpo finisca nel nulla. Perciò quella voce, per Severino, è solo un’eco dell’eterno, che pian piano si spegne
Ma non conosce Severino la metempsicosi? Lui non ci crede, d’accordo, ma c’è per moltissimi, anzi è la teoria più diffusa in tutti i piani della conoscenza: miti, misteri, religioni, sapienza, filosofia (vedi
Per sempre e L’infinito di Leopardi). Per molti è la più razionale teoria dell’immortalità personale. E nella metempsicosi non ci sono ritorni d’avvenimenti accaduti nel passato di una sola vita, ma in vite precedenti quella in corso, che emergono da profondità più oscure e lontane. Inoltre i pochi esempi di “resurrezione totale”, che sono avvenuti nel corso di una vita quelli di Proust e di Borges per intenderci –, sono piccola cosa rispetto agli altri.
Riporto alcuni esempi celebri, già esposti in altri post di questo blog, ma essi sono innumerevoli.

Buddha la notte precedente il Risveglio − Buddha significa lo Svegliato −, come ha scritto di lui il suo maggiore biografo Asvagosa, ha richiamato alla memoria “migliaia di vite, come rivivendole” e le ha collegate fra loro.
Ermete Trismegisto, nato tre volte in Egitto, ogni volta si è dedicato alla conoscenza, finché nell’ultima vita terrena si è illuminato, “si è ricordato delle precedenti esistenze, ha ricuperato il suo vero nome” e poi è salito al mondo superiore dov’è l’origine.
Pitagora ricordava anche il suo precedente nome: Euforbo; era un milite nella guerra di Troia e ha perso la vita in battaglia sotto quelle mura, ucciso da Menelao.
Dunque, ritorna il passato “in carne ed ossa” nel modo di Proust e Borges, ma molto più spesso in quello di Buddha, Pitagora, Ermete, e nel secondo, allora, non c’è il corpo fisico che lo chiude e limita. Non c’è il corpo che, “destinato a morire”, quando ciò avviene decreta la fine anche di quel che è avvertito e vissuto come eterno, immutabile, immobile. E come potrebbe? Come può il guscio provocare la fine della perla, il fango della miniera del diamante e il corpo della mente?
Come può ciò che per tutti perisce, fuorché per Severino, trascinare nella sua sorte l’eterno?

 

Terza parte.
“Totali resurrezioni, ma all’interno del perituro – prosegue imperterrito Severino. Totali resurrezioni, ma all’interno di una vita che è morte. Il passato, per Proust, “è sempre”, ma perdura rimanendo nascosto in uno scrigno destinato alla morte. Come ogni altra voce dell’Occidente, nemmeno Proust vede che lo scrigno, in cui il passato permane, è eterno. Il suo modo di pensare è simile a quello di chi si rallegrasse per il fatto che i passeggeri di una nave che si sa destinata a un naufragio in cui non c’è scampo per nessuno escono dalle loro cabine, dove si erano da tempo nascosti o da tempo erano stati dimenticati, e si riuniscono nella sala da pranzo (cioè nella sala della memoria). Possono solo intonarvi un canto funebre, che celebra l’effimera resurrezione del tempo che è stato ritrovato e che è destinato a essere definitivamente perduto”.

E qui scatta la differenza esistente fra Severino e tutti i personaggi che ha avuto la cultura nei millenni che ci hanno preceduto, compresi quelli dell’Oriente. Personaggi che hanno contribuito ad aumentarla e svilupparla fino ad arrivare, in Occidente e per gli autori di questo blog, alla fine della via della conoscenza iniziata venticinque secoli fa nell’antica Grecia. In questo capolinea l’eterno, immutabile, immobile, è la coincidenza di fine e inizio, ed è soprattutto il “Centro” di tal giro, dove si può portarsi e da cui tutto il movimento appare. Da cui si vede, in altre parole, tutto ciò che ruota in cielo e in terra. Come già in parte  avviene d’altronde: vediamo il sole che percorre la volta celeste, le fasi della luna, le stelle che ritornano nel cielo della notte, il giro delle stagioni… Ma ora molto di più. Ora anche l’intero cerchio della vita umana: giorno e notte assieme, conscio e inconscio assieme, vita e morte unite.
Sembrerebbe però, secondo questo mio dire, che a un tale risultato si sia arrivati, quindi ci sarebbe un “eterno” che ha avuto inizio. Ma l’inizio è coincidenza con la fine, quindi non c’è un inizio. Cos’è accaduto, allora? È accaduto che non alla vasta e numerosa specie, non all’interminabile natura, non a Dio, ma all’uomo, ciò che era sentimento, fede, intuizione, è diventata idea chiara e distinta. Ecco cos’è capitato. E la via ora c’è per lui, il suo cerchio è tutto intero, il suo centro è immobile, immutabile, eterno. Centro di ciò che gira in cielo e in terra: galassie, stelle, pianeti, stagioni, piante, animali, uomini.
Perciò la terza parte del brano andrebbe corretta così.
− Il corpo, sia esso eterno come vuole Severino, o limitato e finito come sostengono tutti gli altri, passati e presenti, non è limite e impedimento al manifestarsi delle “resurrezioni totali”, tant’è vero che possono avvenire non solo da un giorno della vita ad un altro della stessa, seppur lontano, ma anche da vita a vita.
− È eterno, immutabile, immobile, ciò che viene sperimentato come tale, vale a dire la “resurrezione totale” di Proust, “la realtà profonda” di Borges, i ricordi di vite precedenti di Buddha, Pitagora, Ermete, e per me “la chiesetta sperduta” che è riapparsa da profondità lontane e nascoste, e sono riuscito a trovare la strada che collega le due. Una strada di tempo, perciò, che sembrava non finire mai, invece è ritornata su se stessa, formando un cerchio e diventando
eterno ritorni (vedi L’antica via dei Miti e dei Misteri, percorsa ora con la lampada della conoscenza filosofica, Editrice Leonardo, Pasian di Prato, Udine). Ma chi muore nessuno l’ha più visto circolare per le vie e le piazze della città con il corpo che aveva quando li ha lasciati, neppure i parenti più stretti e gli amici più cari. O esiste solo un caso: quello di Cristo, ma anche lui, come affermano i Vangeli, dopo la resurrezione era pressoché irriconoscibile e aveva un corpo che passava attraverso i muri.
− Inoltre perché dovrebbe essere eterno, immutabile, immobile, anche l’involucro, cioè lo scrigno che contiene la perla, la terra che nasconde il diamante, il carcere che rinchiude l’anima, la mente, l’Io, il Sé?
− Va da se, inoltre che ciò viene sperimentato come eterno, immutabile, immobile, non può avere limitazioni. Non “c’è” e poi “non c’è più” solo perché il corpo finisce. Esso rimane, indipendentemente dal corpo. Così, infatti, è sempre stato. Così è e sarà.
Concludendo: non è necessario che il corpo sia eterno, immutabile, immobile, per l’eterno, immutabile, immobile, che lo abita.

 

P.S.
Non insisterei tanto con la filosofia di Severino, a confutarla, a dimostrare la sua infondatezza, se il punto più profondo dell’Abisso del nulla, da quanto mi risulta, non fosse stato toccato proprio da essa. E, arrivati a quel livello, non si esce più con le proprie gambe, perché si manifesta tutta la potenza del nascosto, tutta l’attrazione del senza fondo. Tutto e fermo e si ferma lì sotto. Tutto è bloccato, immobile, immutabile: eternamente, come similmente accade in fisica quando − dicono gli scienziati − si raggiunge lo zero assoluto.
In quel nulla vanno a finire:
− Parmenide, che secondo Severino è stato il primo nichilista perché, per lui, l’essere e non l’essente è eterno, immutabile, immobile.
− Tutta la filosofia che è nata subito dopo, da Socrate fino ai nostri giorni, perché essa è in tanta parte le vie indicate dal sapiente di Elea (vedi Lettera aperta: le cinque vie di Parmenide).
− Tutta la storia d’Occidente e anche quella dell’Oriente, fondata sulla fede che le cose escano dal nulla e nel nulla ritornino.
− La metempsicosi, perché non si ritorna con lo stesso corpo, o non è certamente necessario.
− Il divenire, perché esso è − dice Severino − “trasformazione e metamorfosi – divenire – altro, appunto. Il risultato del divenire è altro dall’inizio del divenire. Il risultato, cioè il compimento del divenire, è la situazione in cui la cosa che diviene è diventata altro da sé è altro da sé. Ma che una cosa sia altro da sé, cioè non sia ciò che essa è, non è forse il senso stesso dell’impossibile? Non è forse l’essenza stessa della follia” (E. Severino, Nascere, Rizzoli, pagg. 265-266).
− Infine il nulla stesso, perché “tutto è eterno, immutabile, immobile”.
Più nichilismo di così!
E tutto viene infaticabilmente ripetuto, ribadito, rispiegato, a chi si ostina a non capire e continua a domandare. Ma non c’è nulla da capire, c’è solo il vuoto là sotto.
“Io definisco la filosofia di Severino come espressione di una tesi che è falsa (negazione dello spessore ontologico del divenire e, quindi, del non essere e della morte) − ha detto di essa Giovanni Reale − però espressa nel modo più coerente e più perfetto. Ma con N. Gòmez Dàvile io penso che la coerenza di un discorso non è prova di verità, ma solo di coerenza” (Giovanni Reale, Corriere della Sera, 6 gennaio 2005).

Lettera aperta: le cinque vie di Parmenide

8 novembre 2009

Lettera aperta ai filosofi e filologi che si sono cimentati nella decifrazione delle vie presenti nel Poema sulla natura di Parmenide

parmenide1

Parmenide

Le Cinque Vie viste e seguite da Parmenide dopo che è giunto sulla “Porta che divide i sentieri della Notte e del Giorno”, e con il consenso della Dea guardiana è entrato (Parmenide, Poema sulla natura, a cura di G. Reale e L. Ruggiu, Rusconi, Milano, 1991).
Oppure le Tre Vie, ma due di esse presenti due volte in tempi e modi diversi: prima e dopo l’Aurora dell’Essere.
Avendo percorso la stessa strada di Parmenide e visto e sperimentato molto di ciò che egli vide e sperimentò, anche se sono partito da punti diversi – da dopo il Tramonto anziché prima dell’Aurora –, posso ora raccontare cosa è accaduto in quel lontano passato, perché molte ipotesi trovino conferma, perché molti errori siano cancellati.

La prima via vista e percorsa da Parmenide è quella da cui arriva fino alla “Porta che divide i sentieri del Giorno e della Notte”, vale a dire la via della Notte. Non è solo, lo accompagnano fanciulle “Figlie del Sole” che indicano la direzione e l’uscita e guidano verso di essa il carro trainato da cavalle (Parmenide, Poema sulla Natura, Frammento 1, i primi nove versi).
La seconda via comincia dopo la Porta. Nel “Giorno” perciò, e Giorno è un appellativo dell’ “Essere” (Parmenide, Poema sulla Natura, Frammento 1, versi 19 e 20; Fr. 2 v. 1,2,3,4; Fr. 8 versi 1 e 2). Non diversamente, allora, la Notte da cui arriva è il “non-Essere”. Se l’Essere è Giorno, allora è ciò che illumina, non quel che viene illuminato, vale a dire il numeroso e multiforme regno di cose, che sono viste, toccate, annusate, sentite, gustate.
La terza via è quella “su cui i mortali che nulla sanno/ vanno errando”. Essa è la via dell’“opinione” o delle “apparenze” com’era prima che il Giorno spuntasse, vale a dire buia, o anche quella degli uomini incapaci di vedere quella luce anche dopo la sua apparizione perché ad essa volgono le spalle (Parmenide, Poema sulla Natura, Fr. 6, versi 4,5,6,7,8,9).
La quarta via è ancora via dell’opinione. Ma non sembra più quella di prima. Perché è ora illuminata e chi va per essa non procede errando. È quella che sarà seguita da chi deve apprendere come anche le apparenze “bisognava che fossero”. Dagli uomini che conosceranno “la natura dell’etere, e nell’etere tutte quante/ le stelle, e della pura lampada del sole lucente/ le invisibili opere e donde ebbero origine”. Dai futuri filosofi e scienziati perciò, quel che in seguito è accaduto, ed è la via che ci ha portati fin dove ora ci troviamo. È questa la via che appare dopo il superamento della Porta, dopo che la luce dell’Essere ha cominciato a versarsi da quell’uscio aperto e riflettersi sulle cose di qui in modo continuo e diffuso, e la civiltà greca ha cominciato a splendere e i filosofi hanno cominciato a vedere e progettare la via dell’Occidente. Quella luce riflessa si chiamerà ragione e gli abitanti in quella luce “animali razionali” (Parmenide, Poema sulla Natura, Fr.1, versi 27, 28, 29, 30, 31. Questa via sarà poi ripresa nella seconda parte del poema: vedi Fr. 8 versi 50, 51, 52; Fr. 10 versi 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7).
La quinta via è ancora via della Notte, ma la sua natura va ora completata e precisata. Perché la stessa ricorre due volte? Anche la via dell’opinione ricorre due volte: prima che il Giorno l’illuminasse e dopo che esso è sorto. Ma la via della Notte mai l’illumina il Giorno, o essa rimane anche sempre nascosta, né quella del Giorno la cancella la Notte, perché è sempre anche manifesta; come giorno e notte sulla terra, insomma. L’una e l’altra perciò sono sempre contemporaneamente, di qua e di là della Porta, e si alternano sulla scena. C’è da capire, allora, perché la via della Notte è nominata due volte nei pochi versi del poema parmenideo, e la prima volta è percorsa da Parmenide e poi da essa è da “tenersi lontano”. Infatti, egli arriva dalle “case della Notte” diretto alla Luce, quindi percorrendola, ma la seconda volta che viene citata la Dea raccomanda di lasciarla perdere, perché “non potresti conoscere ciò che non è, perché non è cosa fattibile, Né potresti esprimerlo” (Parmenide, Poema sulla Natura, fr. 2, versi 6, 7, 8, 9).
C’è contraddizione perciò? Assolutamente no, perché la prima volta egli la percorre ma accompagnato dalle “Figlie del Sole” che la rischiaravano: da solo non l’avrebbe vista e perciò nemmeno manifestata con il pensiero. Infatti, dopo quel passaggio si è spento quel sentiero per tanto tempo. È diventato soltanto Notte, sonno, inconscio, morte, non-Essere, e ciò fino a circa un secolo fa, quando ha cominciato a tramontare la filosofia del Giorno ed è stato giocoforza affrontare la via della Notte per arrivare di nuovo alla Porta (Parmenide, Poema sulla Natura, Fr. 2 versi 6, 7, 8. Vedi anche Fr. 6, verso 3 e Fr. 7 versi 1, 2).

Dunque, delle cinque vie qui elencate, una porta all’Essere, due sono vie dell’opinione dei mortali e le altre due conducono al non-Essere. Vie impraticabili ambedue le ultime per l’uomo, perché sono tenebrose e solo Parmenide è riuscito a passare la prima volta, ma perché accompagnato dalle “Fanciulle figlie del Sole” che hanno aperto le Tenebre e guidato il carro verso la Porta d’uscita, e in altro modo finora non si era riusciti a superarla. Oppure è accaduto, ma in altre dimensioni: nei Miti, nei Misteri, nelle Religioni e da parte di semidei, eroi, iniziati, mistici. Finora, tuttavia, perché ora, vale a dire in questa nostra età, ha cominciato a riapparire e si può andare per essa. Seguendo la via filosofica, perciò la seconda via dell’apparenza percorsa in modo consapevole e aiutandosi con essa, anche l’uomo è riuscito a percorrere la via della Notte senza aiuti divini, o almeno non diretti ma concordati, ed è arrivato da solo fino alla Porta (Wilmo Boraso e Grazia Sacchi, L’antica via dei Miti e dei misteri – percorsa ora con in mano la lampada della conoscenza filosofica, Editrice Leonardo, Pasian di Prato, Udine, 2009).

Rispetto alle cinque vie qui elencate, ci sono le posizioni assunte dai filosofi e filologi moderni e contemporanei, da quando Hermann Diels e Walter Kranz hanno cercato, raccolto, ordinato, interpretato, i frammenti di Parmenide e degli altri presocratici e li hanno portati sulla scena della filosofia (ciò è accaduto più di cento anni fa, dopo circa 2400 anni da quelle scritture. La prima edizione di I frammenti dei Presocratici del Diels è, infatti, del 1903).
Ma filosofi e filologi d’oggi non hanno visto come Parmenide, e ai nostri giorni solo una sparuta avanguardia è arrivata alla fine della via tenebrosa; perciò le hanno dedotte col ragionamento e le loro soluzioni incomplete suonano così:
Martin Heidegger ne ammette tre. La prima è la via che conduce verso l’Essere […]. Essa è “imprescindibile”. La seconda va verso il non-Essere, “via che in realtà non può essere percorsa, ma proprio per questo, in quanto impraticabile, necessita di venire elevata al sapere, in considerazione appunto del fatto che conduce al non-essere” (Martin Heidegger, Introduzione alla metafisica, Mursia, 1972, pag. 120). Infine la terza via, “quella della doxa nel senso dell’apparenza” (ivi, pag. 121). Essa “ha il medesimo aspetto della prima, ma non conduce all’Essere: perciò dà l’impressione di non essere anch’essa che una via verso il non essere nel senso del nulla” (ibidem). Invece, afferma Heidegger, anche se “gli uomini trascorrono da un’opinione all’altra, alternativamente […] fino a perdervisi del tutto”, è necessario conoscerla, “affinché – per entro l’apparenza e contro l’apparenza – si riveli l’essere” (ivi, pag. 122). Tant’è vero – egli continua – che viene raccomandata dalla Dea e così traduce le sue parole: “…Ora è altresì necessario (per te che t’incammini sulla via dell’essere) apprendere il tutto:/ tanto il cuore saldo della non-latenza bellamente conchiusa/ quanto le vedute degli uomini in cui non risiede affidamento veruno per il non-latente./ Ma in tutto ciò tu devi ugualmente imparare a conoscere come l’apparente sia a questo tenuto:/ a pervadere tutto come apparenza (alla sua maniera), contribuendo così a compiere il tutto” (ivi, pag. 121). Concludendo, per Heidegger la via dell’essere è indispensabile, la via del nulla è impercorribile ma non può essere ignorata, la via dell’apparenza è sempre accessibile e seguita, ma eludibile. Non è tutto ben chiaro e distinto in questa terza via, perché c’è chi si perde e chi no, ma da questa combinazione a due colori si possono trarre indicazioni della sua duplice natura: non illuminata e illuminata, con le cose che hanno l’essere con loro e quelle che non lo hanno.
Mario Untersteiner di vie dopo la Porta, perciò nella Luce, ne pone due, le stesse indicate e raccomandate dalla Dea “che tiene le chiavi che aprono e chiudono”. Una è la via Maestra che porta all’Essere “essenzialmente atemporale, con tutte le conseguenti attribuzioni” (Zenone, Testimonianze e frammenti; a cura di Mario Untersteiner, La Nuova Italia Editrice, Firenze, Introduzione, pag. XXI), l’altra è la via “dell’esperienza sensibile (la doxa) che è nel tempo”. Ma le due vie non sono opposte perché portano entrambe all’Essere, e “la doxa non è altro se non la visibilità dell’essere atemporale nella natura temporale” (Ibidem, pag. XXI). Un’interpretazione, questa dell’Untersteiner, che corrisponde alla mia esperienza. Infatti, percorrendo le vie dell’esperienza sensibile con la mente rivolta all’uscita da esse, dopo tanti anni sono giunto alla Fine che coincide con l’Inizio. I due estremi in un punto solo, perciò: la coincidenza degli opposti. Dopo di essa c’è la Porta e l’uscita (W. Boraso e G. Sacchi, op. cit.).
Il più sobrio di tutti per numero di vie individuate ed esposte è invece Emanuele Severino. Anzi con lui si riducono ai minimi termini: non due o tre ma una sola, quella che conduce all’Essere. Questo risultato estremo l’ha ottenuto così: l’Essere per lui non è più il Giorno, vale a dire la Luce che illumina, ma ciò che viene illuminato: le cose del mondo, i molteplici e policromi fenomeni. Quel che insomma è invece la via dell’apparenza per tutti gli altri. In tal modo però l’Essere, privato di tutti i suoi attributi che vengono trasferiti sui fenomeni e conferiti ad essi sparisce e di lui non rimane più nulla. In altre parole, Severino riduce l’Essere alla doxa e ogni cosa, vestita con i panni dell’Essere, diventa un suo simulacro.
Come per Heidegger, anche per Giovanni Reale si profilano “non due (come si è per molto tempo creduto), ma tre vie di ricerca, o, se si vuole, due vie, ma la seconda ha due aspetti ben distinti” (Parmenide, op. cit.) che dipendono da chi la percorre. Ecco queste due (o tre) vie. “C’è la via seguendo la quale si coglie il solido cuore della verità ben rotonda; c’è la via delle opinioni dei mortali, che è del tutto fallace; e c’è anche una che indica in modo corretto come le cose che appaiono vadano interpretate, ossia come vadano incluse nell’essere (nel modo che vedremo). Si tratta della via dell’opinione vera, dell’opinione in sintonia con la Verità, e, come dicevo sopra, si tratta, in un certo senso, di una prosecuzione della via della Verità, Ma, per comodità, la chiameremo ‘terza via’, ossia via dell’opinione verace? (ivi, pag. 22) Così le tre (o due) vie di Reale, che però esclude “in modo categorico” la via del non-essere, “perché ciò che non è non si può né ‘conoscere’, né in alcun modo ‘esprimere’. Il pensare è sempre e solo pensare l’essere”. (ivi, pag. 23) Via che invece, come si è visto, Heidegger non annulla. E perché Reale non ammette anche la prima, vale a dire la via della Notte da cui comincia il viaggio di Parmenide? Eppure è lì, sotto gli occhi di chi legge, chiara, evidente. Perché, allora? Perché è Notte, sonno, inconscio, nulla, morte: ecco perché. Perché l’uomo non può “conoscere” né “esprimere” cose di cui non è cosciente, quando è nel sonno, nell’inconscio, nella morte: perciò nessuno ne parla. Se tre sono le vie di Giovanni Reale – come quelle di Heidegger, si noti però che non sono le stesse. Solo quella dell’Essere coincide nei due casi, le altre due no. Reale pone due vie dell’apparenza – o due aspetti di una sola –, ed esclude quella che porta al non-essere. Heidegger, invece, “eleva al sapere” la via del non-essere e non distingue e separa i due modi della via dell’apparenza: quello percorso al buio dove si erra e l’altro nella Luce dove si vede e si conosce. Via della filosofia e della scienza il secondo modo di percorrerlo.

Rispetto alle cinque vie, ecco la posizione e corrispondenza di quelle espresse dai filosofi qui nominati.
La prima di Heidegger corrisponde alla seconda.
La seconda alla quinta.
La terza alla quarta, anche se per essa vanno anche gli uomini che si perdono, e in un certo senso è vero perché una sola è la via prima buia ed ora illuminata. O se vanno per quella illuminata anche coloro che si perdono, ciò è perché volgono le spalle all’Essere, com’è capitato lungo il millenario cammino dell’Occidente dall’Alba al Tramonto, e ancor di più nella Notte dei nostri giorni.
Heidegger la considera percorsa anche da quelli che in essa “si perdono”, perché non coglie il suo duplice aspetto di via tenebrosa e via illuminata.
Le due vie dopo la Porta di Untersteiner corrispondono alla seconda e alla quinta.
Severino fa d’ogni erba un fascio e le cinque vie diventano una sola.
Le tre vie di Giovanni Reale corrispondono alla seconda, terza e quarta, che sono vie del Giorno. Se si guarda a Reale e Heidegger assieme, dal momento che quest’ultimo ammette la via del non-Essere, nel pensiero filosofico ufficiale di vie ne compaiono quattro. Una di meno delle mie cinque, perciò. Ma la mancante, è la prima e la più in vista, quella dove inizia il viaggio di Parmenide e il poema che lo racconta. Perché nessuno la nomina? Perché finora apparteneva alla divinità e al Destino e di essa l’uomo non sapeva, o non aveva occhi per vederla e mente per introdurla nella scena.

Su queste cinque vie si sono poi messi gli abitanti della Grecia antica e in seguito l’Occidente intero.
I metafisici per la seconda anche se, come ha detto Aristotele, era possibile mantenersi in essa solo per poco tempo e con brevi sguardi. Come quando si guarda il sole, insomma, che non si può fissare e si è costretti ad abbassare gli occhi sulle cose.
I filosofi e scienziati per la quarta, fino a vedere e dimostrare che per essa non si arriva alla “vera certezza” perché “non c’è”. Finita la parte a Giorno della via dell’apparenza, i filosofi sono poi entrati nella Notte. Schopenhauer il primo. Heidegger e Jünger sono arrivati fin sulla “linea di Mezzanotte”.
I mistici e i santi per la prima e la quinta, a volte aiutati e a volte no, e nel secondo caso la “caligine” era densa, la “notte oscura” e hanno a lungo disperato, a volte fino alla morte.
I poeti per tutte le vie, mi pare, o hanno percorso tratti di ognuna. Qualcuno anche il giro intero, come Dante. È arrivato fino a Dio attraversando il Giorno e la Notte, l’Abisso e il Cielo.
Tutti gli altri hanno seguito prevalentemente la terza via ed ora si trovano nel nichilismo diventato condizione normale.

N.B.
Per le posizioni di partenza e d’arrivo di Parmenide e mie lungo lo stesso percorso circolare, seguirà lo scritto Dalla sapienza alla sapienza seguendo la via filosofica.

*

Parmenide, Poema sulla natura
A cura di G. Reale e L. Ruggiu, Rusconi, Milano, 1991, pagg. 85-119

giorgione_tempesta

Giorgione, La tempesta (1507-1508)

Proemio del Poema
Frammento 1
(Sesto Empirico, Contro i matematici, VII, 111 e segg.)
1 Le cavalle che mi portano fin dove il mio desiderio vuol giungere,
2 Mi accompagnarono, dopo che mi ebbero condotto e mi ebbero posto sulla via che dice molte cose,
3 Che appartiene alla divinità e che porta per tutti i luoghi l’uomo che sa.
4 Là fui portato. Infatti, là mi portarono accorte cavalle tirando il mio carro, e fanciulle indicavano la via.
5 L’asse dei mozzi mandava un sibilo acuto,
6 Infiammandosi – in quanto era premuto da due rotanti
7 cerchi da una parte e dall’altra –, quando affrettavano il corso per accompagnarmi,
8 le fanciulle Figlie del Sole, dopo aver lasciato le case della Notte,
9 verso la luce, togliendosi con le mani i veli dal capo.
10 Là è la porta dei sentieri della Notte e del Giorno,
11 con ai due estremi un architrave e una soglia di pietra;
12 e la porta, eretta nell’etere, è rinchiusa da grandi battenti.
13 Di questi, Giustizia, che molto punisce, tiene le chiavi che aprono e chiudono.
14 Le fanciulle, allora, rivolgendole soavi parole,
15 con accortezza la persuasero, affinché, per loro, la sbarra del chiavistello
16 senza indugiare togliesse dalla porta. E questa, subito aprendosi,
17 produsse una vasta apertura dei battenti, facendo ruotare
18 nei cardini, in senso inverso, o bronzei assi
19 fissati con chiodi e borchie. Di là, subito, attraverso la porta,
20 diritto per la strada maestra le fanciulle guidarono carro e cavalle.
21 E la Dea di buon animo mi accolse, e con la mano la mia mano destra
22 prese, e incominciò a parlare così e mi disse:
23 O giovane, tu che, compagno di immortali guidatrici,
24 con le cavalle che ti portano giungi alla nostra dimora,
25 rallegrati, poiché non un’infausta sorte ti ha condotto a percorrere
26 questo cammino – infatti esso è fuori dalla via battuta dagli uomini –,
27 ma legge divina e giustizia. Bisogna che tu tutto apprenda:
28 e il solido cuore della Verità ben rotonda
29 e le opinioni dei mortali, nelle quali non c’è vera certezza.
30 Eppure anche questo imparerai: come le cose che appaiono
31 Bisognava che veramente fossero, essendo tutte in ogni senso”.

Prima parte. L’Essere e la Verità
Frammento 2
(Proclo, Commento al Timeo, I, 345, 18-27)
1 Orbene, io ti dirò – e tu ascolta e ricevi la mia parola –
2 quali sono le vie di ricerca che sole si possono pensare:
3 l’una che “è” e che non è possibile che non sia
4 – è il sentiero della Persuasione, perché tiene dietro alla Verità –
5 l’altra che “non è” e che è necessario che non sia.
6 E io ti dico che questo è un sentiero su cui nulla si apprende.
7 Infatti non potresti conoscere ciò che non è, perché non è cosa fattibile,
8 né potresti esprimerlo.

Frammento 3 (Clemente Alessandrino, Stromata, II, 440, 12)
1 […] Infatti lo stesso è pensare ed essere.

Frammento 4 (Clemente Alessandrino, Stromata, V, 15)
1 Considera come cose che pur sono assenti, alla mente siano saldamente presenti;
2 infatti non potrai recidere l’essere dal suo essere congiunto con l’essere,
3 né come disperso dappertutto nel cosmo,
4 né come raccolto insieme.

Frammento 5 (Proclo, Commento al Parmenide, 708, 16-17)
1 Indifferente è per me
2 il punto da cui devo prendere le mosse; là, infatti, nuovamente dovrò fare ritorno.

Frammento 6 (Simplicio, Commento alla Fisica, 117, 4-13; 86, 27-28)
1 È necessario il dire e il pensare che l’essere sia: infatti l’essere è,
2 il nulla non è: queste cose ti esorto a considerare.
3 E dunque da questa prima via di ricerca ti tengo lontano,
4 ma, poi, anche da quella su cui i mortali che nulla sanno
5 vanno errando, uomini a due teste: infatti, è l’incertezza
6 che nei loro petti guida una dissennata mente. Costoro sono trascinati,
7 sordi e ciechi ad un tempo, sbalorditi, razza di uomini senza giudizio,
8 dai quali essere e non-essere sono considerati la medesima cosa
9 e non la medesima cosa, e perciò di tutte le cose c’è un cammino che è reversibile.

Frammento 7 (Platone, Sofista, 237a, 258d; Sesto Empirico, Contro i matematici, VII 111 e   114)
1 Infatti, questo non potrà mai imporsi: che siano le cose che non sono!
2 Ma tu da questa via di ricerca allontana il pensiero, né l’abitudine, nata da numerose esperienze, su questa via ti forzi
3 a muovere l’occhio che non vede, l’orecchio che rimbomba e la lingua, ma con la ragione giudica la prova molto
discussa che da me ti è stata fornita.

Frammento 8 (Simplicio, Commento alla Fisica, e altre fonti)
1 Resta solo un discorso della via:
2 che “è”. Su questa via ci sono segni indicatori
3 assai numerosi: l’essere è ingenerato e imperituro,
4 infatti è un intero nel suo insieme, immobile e senza fine.
5 Né una volta era, né sarà, perché è ora insieme tutto quanto,
6 uno, continuo. Quale origine, infatti, cercherai di esso?
7 Come e da dove sarebbe cresciuto? Dal non-essere non ti concedo
8 né di dirlo né di pensarli, perché non è possibile né dire né pensare
9 che non è. Quale necessità lo avrebbe mai costretto
10 a nascere, dopo o prima, se derivasse dal nulla?
11 Perciò è necessario che sia per intero, o che non sia per nulla.
12 E neppure dall’essere concederà la forza di una certezza
13 che nasca qualcosa che sia accanto ad esso. Per questa ragione né il nascere
14 né il perire concesse a lui la Giustizia, sciogliendolo dalle catene
15 ma saldamente lo tiene. La decisione intorno a tali cose sta in questo:
16 “è” o “non è”. Si è quindi deciso, come è necessario,
17 che una via si deve lasciare, in quanto impensabile e inesprimibile, perché non del vero
18 è la via, e invece che l’altra è, ed è vera.
19 E come l’essere potrebbe esistere nel futuro? E come potrebbe essere nato?
20 Infatti, se nacque, non è; e neppure esso è, se mai dovrà essere in futuro.
21 Così la nascita si spegne e la morte rimane ignorata.
22 E neppure è divisibile, perché tutto intero è uguale;
23 né c’è da qualche parte un di più che possa impedirgli di essere unito,
24 né c’è un di meno, ma tutto intero è pieno d’essere.
25 Perciò è tutto intero continuo: l’essere, infatti, si stringe con l’essere.
26 Ma immobile, nei limiti di grandi legami
27 è senza un principio e senza una fine, poiché nascita e morte
28 sono state cacciate lontane e le respinge una vera certezza.
29 E rimanendo identico e nell’identico, in sé medesimo giace,
30 e in questo modo rimane là saldo. Infatti, Necessità inflessibile
31 lo tiene nei legami del limite, che lo rinserra tutt’intorno,
32 poiché è stabilito che l’essere non sia senza compimento:
33 infatti non manca di nulla, se invece, lo fosse, mancherebbe di tutto.
34 Lo stesso è il pensare e ciò a causa del quale è il pensiero,
35 perché senza l’essere nel quale è espresso,
36 non troverai il pensare. Infatti, nient’altro o è o sarà
37 all’infuori dell’essere, poiché la sorte lo ha vincolato
38 ad essere un intero e immobile. Per esso saranno nomi tutte
39 quelle cose che hanno stabilito i mortali, convinti che fossero vere
40 nascere e perire, essere e non-essere,
41 cambiare luogo e mutare luminoso colore.
42 Inoltre, poiché c’è un limite estremo, esso è compiuto
43 da ogni parte, simile a massa di ben rotonda sfera,
44 a partire dal centro uguale in ogni parte: infatti, né in qualche modo più grande
45 né in qualche modo più piccolo è necessario che sia, da una parte o da un’altra.
46 Né, infatti, c’è un non-essere che gli possa impedire di giungere
47 All’egual4, né è possibile che l’essere sia dell’essere
48 Più da una parte e meno dall’altra, perché è un tutto inviolabile.
49 Infatti, uguale da ogni parte, in modo uguale sta nei suoi confini.

Seconda parte. L’opinione della Verità
Frammento 8
(Simplicio, Commento alla fisica, e altre fonti)
50 Qui pongo termine al discorso che si accompagna a certezza e al pensiero
51  intorno alla Verità; da questo punto le opinioni dei mortali
52 devi apprendere, ascoltando l’ordine seducente delle mie parole.
53 Infatti, essi stabilirono di dar nome a due forme
54 l’unità delle quali per loro non è necessaria: in questo essi si sono ingannati.
55 Le giudicarono opposte nelle loro strutture, e stabilirono i segni che le distinguono,
56 separatamente gli uni dagli altri: da un lato, posero l’etereo fuoco della fiamma,
57 che è benigno, molto leggero, a sé medesimo da ogni parte identico,
58 e rispetto all’altro, invece, non identico; dall’altro lato, posero anche l’altro per se stesso,
59 come opposto, notte oscura, di struttura densa e pesante.
60 Questo ordinamento del mondo, veritiero in tutto, compiutamente ti espongo,
61  così che nessuna convinzione dei mortali potrà fuorviarti.

Frammento 9 (Simplicio, Commento alla Fisica, 180, 9-12)
1 E poiché tutte le cose sono state denominate luce e notte,
2 e le cose che corrispondono alla loro forza sono attribuite a queste cose o a quelle,
3 tutto è pieno ugualmente di luce e notte oscura,
4 uguali ambedue, perché con nessuna delle due c’è il nulla.

Frammento 10 (Clemente Alessandrino, Stromata, V, 138, 1)
1 Tu conoscerai la natura dell’etere, e nell’etere tutte quante
2 le stelle, e della pura lampada del sole lucente
3 le invisibili opere donde ebbero origine,
4 e apprenderai le azioni e le vicende della luna errabonda dall’occhio rotondo
5 e la sua natura; e conoscerai altresì il cielo che tutto circonda,
6 donde ebbe origine, e come la Necessità lo guidò e costrinse
7 a tenere fermi i confini degli astri.

Frammento 11 (Simplicio, Commento al De Cielo, 559, 22-25)
1 […] come la terra il Sole e la Luna
2 e l’etere tutto avvolgente e la lattea via del cielo e l’Olimpo
3 estremo e l’ardente forza degli astri ebbero impulso a formarsi.

Frammento 12 (Simplicio, Commento alla Fisica, 39,14-16 e 31, 13-17)
1 Le corone più strette furono riempite di fuoco non mescolato,
2 quelle che seguono ad esse furono riempite di notte, ma in esse si immette una parte di fuoco;
3 nel mezzo di queste sta una divinità che tutto governa:
4 dovunque, infatti, essa presiede al doloroso parto e alla congiunzione,
5 spingendo la femmina ad unirsi col maschio, e, all’inverso, di nuovo,
6 il maschio con la femmina.

Frammento 13 (Platone, Simposio, 178b)
E primo di tutti gli dèi pensò Eros.

Frammento 14 (Plutarco, Contro Colotoe, 15 1116A)

Frammento 15 (Plutarco, La faccia della luna, 929B)
[…] sempre guardando ai raggi del sole.

Frammento 15a (Scolio a Basilio di Cesarea, 25)
[…] ha radici nell’acqua.

Frammento 16 (Aristotele, Metafisica, 1009 b 21)
1 Come, infatti, ogni volta ha luogo la mescolanza nelle membra dai molteplici    movimenti,
2 così negli uomini si dispone la mente. Infatti è sempre il medesimo
3 ciò che negli uomini pensa la natura delle membra,
4 in tutti e in ciascuno. Il pieno, infatti, è pensiero,

Frammento 17 (Galeno, In Hippocratis libros Epidemiarum)
[…] a destra i maschi, a sinistra le femmine […]

Frammento 18
(Celio Aureliano, Tardarum vel chronicarum passionum libri V, IV, 9, 134-135)
1 Quando la donna e l’uomo mescolano insieme i semi di Venere,
2 e la forza che si forma nelle vene da sangue diverso
3 plasma corpi ben costituiti, si conserva il giusto equilibrio.
4 infatti, se, mescolatosi il seme, le forze entrano in lotta
5 e nel corpo che deriva dalla mescolanza non formano una unità, crudeli
6 tormenteranno il sesso che nasce col duplice seme.

Frammento 19 (Simplicio, Commento al De Cielo, 558, 9-11)
1 In questo modo secondo l’apparire queste cose sono nate e ora sono
2 e in seguito cresceranno e poi finiranno;
3 ad esse gli uomini hanno posto un nome, per ciascuna come un segno distintivo.

Pascoli, il mare, il ponte

18 ottobre 2009

Giovanni Pascoli, Mare

M’affaccio alla finestra e vedo il mare:
vanno le stelle, tremolano l’onde.
Vedo stelle passare, onde passare:
un guizzo chiama, un palpito risponde.
Ecco sospira l’acqua, alita il vento:
sul mare è apparso un bel ponte d’argento.
Ponte gettato sui laghi sereni,
per chi dunque sei fatto e dove meni?

Emil Nolde, Crucifixion (1912)

Emil Nolde, Crucifixion (1912)


Una bella poesuola, mi son detto, quando l’ho letta la prima volta. Così carina e semplice che merita di essere ricordata e ripetuta, e in breve l’ho imparata a memoria. Da allora non è più uscita dalla mente, ma giaceva nel profondo, perché per molti anni non l’ho più vista e sentita. Infatti, ero tanto giovane allora, forse studente della scuola media o delle elementari. O forse non l’ho neppure letta a scuola ma in una delle mie peregrinazioni sui libri di poesia. Leggevo e quel che mi colpiva l’imparavo. Allora sembrava per gioco, oggi c’è qualcosa di più. Ora Mare entra nel novero delle Coincidenze.
Per via del ponte misterioso?
È quello che attira di più certamente e mi da modo di aprire sull’argomento ponte, che è una delle strutture più importanti della via della conoscenza. Senza il ponte, il cammino non poteva continuare, l’Abisso non sarebbe stato attraversato. Il viaggio si sarebbe fermato sulla linea di Mezzanotte, come, di fatto, è accaduto a tutti quelli che lungo la filosofia, seguendo i filosofi del Tramonto e della Notte da Schopenhauer in poi, sono arrivati fin lì, ma ancora non sanno che una struttura di tal genere ora esiste anche in tal campo. Si tratta solo di una corda che collega le due sponde, quella che portavo con me e che mi è riuscito a lasciar pendere alle mie spalle nel lavoro d’attraversamento dell’Abisso che ho compiuto.
È la prima volta, dunque, che un tal ponte viene qui gettato, ma esso esisteva già in altri campi. Ne ricordo alcuni.
Nelle religioni che fanno capo alla Bibbia, il ponte fra l’uomo e Dio lo ha posto Dio stesso. Il suo aspetto sensibile è l’arcobaleno: “Io porrò il mio arco nelle nubi, e sarà come segno dell’alleanza fra me e la terra”.
In molti rituali e nelle mitologie iniziatiche e funerarie sono numerose le immagini del ponte, che implicano l’idea di un passaggio pericoloso, a volte di una liana che oscilla sotto il passo.
Le leggende medievali parlano di ponti nascosti nell’acqua, o sottili e taglienti come il filo di una spada, che il cavaliere doveva attraversare per riuscire a compiere l’impresa cui era stato destinato.
Un ponte esiste anche in natura, e non poteva essere altrimenti se essa è l’origine di ciò che è venuto dopo, e dopo c’è tutta la cultura. Si chiama ponte di Varòlio dal nome del suo scopritore, è formato da circa trecento milioni di fibre nervose, ed è la via di collegamento dei due emisferi del cervello che hanno funzioni diverse, e in tal modo raggiungono la coincidenza (L’emisfero sinistro è molto più competente del destro nel linguaggio e nella logica; il destro ha una parte molto maggiore in abilità spaziali e nel pensiero “gestaltico”. Noi abbiamo linguaggio, arte, ispirazione, mantenuti separati dagli abissi enormi esistenti fra i due emisferi e collegati fra loro da un ponte dalla campata immensa. Se a questo punto si riflette sul fatto che gli uomini hanno maggiore attitudini per il linguaggio e la logica, e le donne per ciò che compete all’altra metà del cervello, allora si arriva a conseguenze imprevedibili. Una di esse è stata esposta da un filosofo donna, così riassunta: “L’alleanza fra l’uomo e la donna diviene allora un ponte fra la natura e la cultura, un ponte ancora da costruire.”, Luce Irigaray, Essere in due, Bollati Boringhieri).
Poi la prima comparsa del ponte anche nella filosofia; ma era giocoforza a quel punto, vale a dire dopo che la linea di Mezzanotte era stata raggiunta. Perché non c’era più cammino davanti, solo il vuoto e l’alternativa era la caduta in esso. Come, di fatto, sta avvenendo. Com’è sempre accaduto, per la verità, ma oggi l’Abisso è sotto gli occhi e si guarda rassegnati e vinti, e c’è chi si getta prima per non prolungare l’attesa disperata e l’agonia. Quella prima idea di ponte è opera di Nietzsche ed esso, per il filosofo dell’eterno ritorno, è l’umanità stessa che porta dell’uomo al superuomo.
Giunto davanti all’Abisso, a un ponte ha pensato anche Heidegger. Lui però di primo acchito l’ha escluso, perché ha pensato di riuscire a superarlo con un salto, ma per quella larghezza non sarebbero bastati gli stivali delle sette leghe”. Perciò era il Ponte che si doveva costruire. Egli ha detto: “Non c’è un ponte che conduca dalla scienza (il pensiero calcolante della ‘ragione’ occidentale) al pensiero (il pensiero che rinunciando ad ogni finalità ‘costruttiva’ si pone come risposta ad una chiamata, quella dell’essere). L’unico passaggio possibile è il salto. Il luogo dove questo salto ci conduce non è solo l’altro lato dell’abisso, ma una regione totalmente diversa” (Heidegger, Was heisst Denchen?, 61, II, 6). Poi ancora: “Il salto, a differenza del cammino (d’ogni cammino dell’Occidente, scientifico, filosofico, poetico…) porta il pensiero, senza ponti, cioè senza che vi sia un procedere continuo, in un altro ambito e in un’altra maniera di dire” (Heidegger, Weise des Sagens?, 63,95.). La diagnosi era esatta, le due sponde sono indicate in modo chiaro e distinto, ma un salto di tal genere poteva riuscire solo a qualcuno, com’eccezione.
Per ultimo il mio ponte, quello che collega la fine del millenario cammino filosofico nel mondo di qua con l’aldilà. Di come sono riuscito a idearlo, costruirlo e poi attraversare l’Abisso, ho detto nel libro L’antica via dei Miti e dei Misteri.

Perciò una struttura di collegamento assai recente il ponte in filosofia. Tuttavia la filosofia non ha mai rinunciato all’aldilà, anche se non c’era il ponte.
Com’è stato possibile, allora?
In altre parole, anche lungo la filosofia del giorno, quella che va da Socrate a Hegel, tale forma di conoscenza non si è mai fatta mancare l’altra parte. Ha parlato di essa, è sempre stata la sua meta, molti hanno abitato in ispirito quei luoghi, passando quindi dall’immanente al trascendente, o dalla fisica alla metafisica, o dal divenire all’essere. In definitiva da questa dimensione dove tutto è cambiamento e dalla vita si va inesorabilmente verso la morte finché non si arriva, a quella dell’essere, dove invece ogni cosa è per sempre.
Ma come ha potuto se, di fatto, con i piedi, è sempre stata di qua, vale a dire prima dell’Abisso?
Perché ha fatto uso degli altri ponti degli altri domini, quelli or ora descritti, arrivando aldilà non con una sua esperienza diretta ed esclusiva. Cioè i filosofi si sono fatti portare dall’altra parte sulle ali del mito, dei misteri, delle religioni, perché fino a Nietzsche , come ho già detto, con l’aldilà non c’è mai stata prima un’esperienza diretta. Alcuni esempi.
Socrate, dopo aver dimostrato l’immortalità dell’anima, per dirci dove essa va dopo la morte, ha messo da parte la ragione che non lo sapeva e si è rivolto al mito. Quello favoleggiato dai poeti, sacerdoti, mistici.
Secondo Platone, le sostanze immutabili (idee) risiedono “di là dal cielo”, vale a dire nell’Iperuranio, ma si tratta di un mito descritto nel Fedro ed è un mito anche la famosa caverna, dove gli uomini sono legati all’interno di essa e costretti a fissare il muro di fondo senza poter girare la testa; e vedono solo le ombre delle cose che passano davanti a foro d’ingresso; e credono vere, reali, le prime perché delle altre non sanno. Mito della caverna, infatti, è il titolo di quel racconto. Dichiaratamente, perciò, non c’è un cammino filosofico che collega, semmai, appunto, una visione da sogno.
L’aldilà di Aristotele è la “filosofia prima”, poi chiamata metafisica (Metafisica deriva dal posto che gli scritti aristotelici relativi avevano nella raccolta di Andronico da Rodi, precisamente dopo la fisica, che era la prima delle scienze particolari), ma c’è un vuoto incolmabile fra fisica e metafisica, lo stesso che Tommaso d’Aquino ha cercato di superare con le sue prove dell’esistenza di Dio.
Cartesio, per fondare il suo Cogito ergo sum, che non è mai riuscito a distinguerlo in modo chiaro e distinto dal sogno, ha chiamato in aiuto Dio. In altre parole la certezza di sé e del mondo l’ha fondata in Dio; e vale per Dio, seguendo la via della conoscenza e non quella della fede e del misticismo, l’impossibilità di collegarlo all’uomo.
Lo sapeva bene Kant, che ha posto limiti insuperabili alla conoscenza filosofica e ha chiamato “cosa in sé” ciò che, non per ragione ma per fede, poteva anche esserci (come frutto “di una intuizione non sensibile”, per esempio, cioè divina, mentre per noi il concetto rimane vuoto), ma non era dimostrabile; e cosa in sé era anche Dio. Ma alla fine ha dovuto gettare la spugna: c’era solo il vuoto di là della conoscenza umana della cosa; e a questa conclusione è giunto nell’ultima edizione della critica, dopo anni di riflessioni (Infine, “Non è afferrabile la possibilità di tali noumeni, e l’ambito che si estende al di fuori della sfera delle apparenze, è [per noi] vuoto; noi abbiamo cioè un intelletto che si estende di là delle apparenze, ma non abbiamo alcun’intuizione, anzi neppure il concetto di un’intuizione possibile, attraverso cui possono esserci dati al di fuori del campo della sensibilità degli oggetti, e l’intelletto possa venire usato in modo assertorio di là di tale sfera. Il concetto di un noumeno (cosa in sé) è quindi semplicemente un concetto-limite, destinato a circoscrivere la presunzione della sensibilità, e d’uso quindi soltanto negativo. Esso non è peraltro inventato ad arbitrio, ma è connesso alla limitazione della sensibilità, senza poter tuttavia porre nulla di positivo al di fuori di tale sfera”, Kant, Critica della ragion pura).
Continuando sulla via della conoscenza, infatti, i filosofi che sono venuti dopo Kant, precisamente Fichte, Schelling, Hegel, hanno negata la cosa in sé e l’Io è diventato anche Dio.
A conclusione di questa breve rassegna, lungo tutta la filosofia che va da Socrate a Hegel non c’era, dunque, nemmeno il progetto di un collegamento. Ed ora la domanda: com’è possibile che per ventiquattro secoli i filosofi si siano adagiati su questo qui pro quo, quello di passare aldilà su strutture altrui o di accontentarsi di intravedere da lontano e congetturare? E la risposta suona così: il legame c’era anche nel dna della filosofia, ma nascosto e segreto, abitava l’inconscio. Era quello espresso dalla sapienza prima che la filosofia fosse, quello che Socrate aveva sentito da Parmenide quando era assai giovane, ma non era riuscito a sollevarlo alla parola della filosofia.
L’unica vera esperienza a questo punto è stata quella di Parmenide, ma essa appartiene alla sapienza. Qual è la differenza? Che lui la strada l’ha percorsa davvero: quella che dalla “casa della notte” portava fino alla Porta. E la Porta s’è aperta davvero sotto i suoi occhi ed è passato. E il Giorno l’ha visto tutto in una volta, come quando dall’alba sulla terra appare anche il cielo del tramonto e l’orizzonte dove tutto di nuovo sparirà nel buio. Insomma c’è tutta la conoscenza e l’esperienza di un giro completo nell’avventura di Parmenide, e per lui si parla, infatti, di viaggio iniziatico, non solo d’opera di pensiero razionale. Ciò che ho già detto in altre occasioni e che qui ribadisco (vedi le Coincidenze 3, 5, 10, 12), per segnare ancora una volta il confine fra sapienza e filosofia, per dire a chiare e tonde lettere cosa le distingue. Sapienza è l’esperienza di tutto il giro della vita, di giorno-notte , veglia-sonno, conscio-inconscio, vita-morte; filosofia solo della metà.

Ritorno alla poesia Mare dopo l’excursus nella filosofia. Ma è venuta da sé la lunga camminata nel pensiero con passi da gigante, per cercare riferimenti e coincidenze, o meglio per portarli alla parola, perché gli uni e le altre hanno fatto capolino appena ho rivisto la poesia, e non l’ho letta anche se ho tenuto gli occhi chini sul foglio ma recitata a memoria. Ed ho subito pensato: Pascoli ha sollevato dall’inconscio quello che io ho tratto dall’intrico della cultura; lui l’ha manifestato con parole più belle, adatte al paesaggio che aveva sotto gli occhi e in modo più raccolto; io con pensieri più chiari e distinti. Vediamo ora come si combinano questi due modi di conoscere.
Il poeta s’affaccia alla finestra.
È sempre da un punto o luogo privilegiato che si guarda e nel momento propizio. Dalla finestra in questo caso ma anche dai “lidi della California” o dall’alto di “un colle” come Whitman (vedi Coincidenze 3 e 8). O dal presente, rivolti prima al passato e poi al futuro, come la Cantarutti e Kavafis (vedi le Coincidenze 2 e 7). O dalla spiaggia, guardando la “marina”, come Montale nella poesia Casa sul mare (vedi la Coincidenza 10).
Anche Pascoli dalla finestra vede il mare.
E sul mare “vanno le stelle, tremolano l’onde”.
Vede “stelle passare, onde passare:/ un guizzo chiama, un palpito risponde”.
Vede, in altre parole questo mondo che scorre. Quello che la filosofia chiama anche immanente, o fisico, o del divenire. Se poi si sa che il mare è uno degli aspetti sensibili dell’Abisso, si può capire subito dove vanno le cose: dove scompaiono e la vita muta in morte, come nel Canto notturno di un pastore errante dell’Asia. Ma questa volta c’è un ponte su quella sponda estrema.
Di esso, come ho detto più sopra, mi sono accorto anche la prima volta, da ragazzo. Ma allora mi sembrava una licenza poetica – così si diceva delle apparizioni strane e misteriose nella poesia. Sembrava un tocco extra che la rendeva più affascinante. D’altronde gli stessi poeti, a volte, indulgono su questa credenza popolare e in qualche caso l’alimentano. “È del poeta il fin la meraviglia”, ha detto uno di loro; ed ora eccola lì, nella veste di “un bel ponte d’argento” posto nel punto dove prima venivano meno l’uomo e il suo mondo, e si può non precipitare. Ed io per un mucchio d’anni mi sono invece cullato su quella ingenua interpretazione del ponte, finché il suo ripresentarsi non mi ha svegliato e scosso.
C’è l’eco di Eraclito nella poesia di Pascoli: “Tutto scorre”. Ma per il sapiente tutto va a confluire in una superiore unità, perché Il dio è giorno notte, inverno estate, guerra pace, sazietà fame, e muta come (il fuoco) quando si mescola ai profumi e prende il nome di ognuno di essi” (Eraclito, frammento 67). Ed ora c’è un Ponte che porta a quell’unione.
C’è l’eco d’Anassimandro, perché egli ha affermato che “principio degli esseri è Ápeiron (non-limitato, non-finito, non-particolare) […] da dove infatti gli esseri hanno la loro origine, ivi hanno anche la distruzione secondo necessità: poiché essi pagano l’uno all’altro la pena e l’espiazione dell’ingiustizia (la loro separazione) secondo l’ordine del tempo” (Anassimandro, frammento 1 D.K.).
Ma ora la giustizia è stata ripristinata: si va verso il non-particolare nella consapevolezza, ma passa solo chi sa e vuole.
Ecco perciò dove porta il Ponte: di là dell’Abisso dove c’è la coincidenza degli opposti.
Rimane l’ultimo verso che è una domanda: per chi dunque sei fatto e dove meni?
Dove porta il ponte già si sa, c’è la risposta: sull’altra riva e dall’altra parte, quella che ora ha per appellativo anche Ápeiron. Di essa, semmai, si vorrà saperne di più, e qualcosa ci dicono già le altre coincidenze.
Porta sulla riva dove l’amore è “per sempre”.
Dove “allontanarsi significa tornare”.
È il “ritorno in patria”.
È la dimensione di una nuova civiltà che nascerà dalle ceneri dell’Occidente, e l’abiteranno l’arcangelo di Aurobindo, il nuovo essere un quarto uomo tre quarti verbo di Robertson, chi passerà “di là dal tempo” di Montale. Poi tutti coloro che oseranno attraversare il Ponte e abbandonare la morta gora, dove l’Occidente è nato ma ora sta morendo.
A questo punto, anche la risposta alla domanda “per chi dunque sei fatto?” arriva da sola: è fatto per l’uomo nuovo.
Attenzione però: non si tratta di visioni vaghe e future come quelle dei maghi, perché il passaggio è già in atto.

P.S.
In genere c’è il ponte o la porta fra un dominio e l’altro, e si va dall’uno all’altro attraversando il ponte o aprendo e superando la porta. Perché a me, invece, sono toccati entrambi i passaggi? Mi sembra già di poter rispondere così: perché seguendo la via della conoscenza e attraversando il ponte, giunti al di là si può continuare, inanellando un altro giro, ma ad occhi aperti e mente sveglia questa volta, e sapendo da dove si arriva e dove si va. Oppure c’è la porta d’uscita e si lascia questa dimensione. Una possibilità quest’ultima su cui non mi sono ancora soffermato, non sufficientemente almeno, perché sono orientato verso la prima soluzione.
Forse per pigrizia, o perché, come dice il proverbio, è meglio “non lasciare la strada vecchia per la nuova”; ed io il vecchio giro lo conosco ormai a memoria.
Certamente un motivo è questo, ma c’è poi il luogo d’appuntamento perenne e l’attesa di chi deve arrivare. E tutto è già incanto, tutto è già presente e mai non muta.
In quanto al giro che mi piacerà ripetere, nel modo in cui si torna anche qui a rivedere luoghi di vacanze o altri aspetti se sono belli e cari, se a compierlo tutto questa volta ho impiegato cinquant’anni – perché c’era da trovare l’uscita dal labirinto, ideare e costruire il Ponte, attraversare l’Abisso, scoprire il segreto della Porta per aprirla –, la prossima ne basteranno cinque. Ma che dico! Forse nessun tempo, perché esso è tutto presente in un momento come il cerchio d’orizzonte della terra visto dall’alto di un colle. Ma mettiamo pure di compierlo a piedi, portandomi sulla circonferenza perciò, e allora confermo: cinque anni. Perché il tracciato nel labirinto lo conosco, non devo più districarmi fra i tratti di sentiero e i vicoli ciechi, né tirare la moneta per aria agli incroci, o aspettare che l’indicazione la mandi il Cielo, perché a volte c’è molto d’aspettare.

Giacomo Leopardi, Canto notturno di un pastore errante dell’Asia

11 ottobre 2009

Giacomo Leopardi,
Canto notturno di un pastore errante dell’Asia
Versi 1-38

Che fai tu, luna, in ciel? Dimmi, che fai,
Silenziosa luna?
Sorgi la sera, e vai,
contemplando i deserti; indi ti posi.
Ancor non sei tu paga
Di riandare i sempiterni calli?
Ancor non prendi a schivo, ancor sei vaga
Di mirar queste valli?
Somiglia alla tua vita
La vita del pastore.
Sorge in sul primo albore
Move la greggia oltre pel campo, e vede
Greggi, fontane ed erbe;
Poi stanco si riposa in su la sera:
Altro mai non ispera.
Dimmi, o luna: a che vale
Al pastor la sua vita,
La vostra vita a voi? Dimmi: ove tende
Questo vagar mio breve,
Il tuo corso immortale?

Vecchierel bianco, infermo,
Mezzo vestito e scalzo,
Con gravissimo fascio in su le spalle,
Per montagna e per valle,
Per sassi acuti, ed alta rena, e fratte,
Al vento, alla tempesta, e quando avvampa
L’ora, e quando poi gela,
Corre via, corre, anela,
Varca torrenti e stagni,
Cade, risorge, e più e più s’affretta,
Senza posa o ristoro,
Lacero, sanguinoso; infin che arriva
Colà dove la via
E dove il tanto affaticar fu volto:
Abisso orrido, immenso,
Ov’ei precipitando, il tutto oblia.
Vergine luna, tale
È la vita mortale.

Caspar Friedrich, Luna nascente sul mare (1821)

Caspar Friedrich, Luna nascente sul mare (1821)

Nei primi otto versi c’è il cammino della luna nel cielo, continuo e immutabile, di cui si sa ormai tutto: dove comincia ogni fase, dove finisce, come si ripete. Ed è un continuo riandare, sempre uguale: l’eterno ritorno dello stesso che Nietzsche, come ho già avuto modo di dire in una precedente coincidenza, considerava il peso più grande (vedi la decima coincidenza, Montale, Casa sul mare) e noia e tedio insopportabili. Leopardi invece dice: “ancor non sei tu paga” di questo riandare, di questo contemplare i deserti, “ancor non prendi a schivo, ancor sei vaga/ di mirar queste valli”? Ed è la stessa cosa detta con altre parole: Nietzsche in modo più drammatico. Il supplizio di Sisifo, la condanna di Tantalo.
Questo ritornare ogni volta all’inizio però la rende “immortale”. Comincia, gira, ritorna al punto di partenza, ripete, e così per sempre. Una condizione privilegiata, perciò, quella della luna, rispetto alla vita dell’uomo: perché quest’ultima è peritura, l’altra no.
A questo punto sappiamo cosa vuol dire immortalità: lo insegna il poeta, o c’è una definizione di essa chiara e distinta. Vuol dire compiere il giro completo e poi “riandare”, per i sempiterni calli.
Di fronte ad esso la “vita del pastore” che si sveglia all’alba e prima era nel sonno: ma cos’è il sonno? Egli non lo sa, perciò il suo giro s’è interrotto per lui nella notte. Arriva, in ogni modo, da regioni sconosciute e misteriose e perciò non sa da dove. “Poi stanco si riposa in su la sera”, ritorna nel sonno e non sa dove va. Ecco la differenza con il moto della luna, che invece “sorge alla sera”, si muove nella notte, ma è presente anche nel giorno. Non ha mai staccato dal suo moto, non ha mai interrotto la sua vigile presenza. Essa perciò conosce da dove viene e dove va.
Inoltre le interruzioni notturne del pastore sono segnali d’avvertimento dell’ultima che ci aspetta perché, come dicevano gli antichi, sonno e morte sono fratelli e alla fine si passa dall’uno all’altra. Essa, infatti, appare nella seconda strofa, dove anziché gioventù e sonno c’è vecchiaia e morte.
C’è tutta l’indigenza della vita, la sua precarietà, la sua tragica conclusione nei versi che seguono. In particolare:
C’è la vecchiaia e l’infermità.
La povertà, perché il vecchierel è “mezzo vestito e scalzo”.
La necessità di provvedere al fabbisogno per vivere: la legna per scaldarsi in questo caso.
Ci sono le avversità del tempo: venti, tempesta, caldo torrido, gelo.
Poi la faticosa e perigliosa corsa, varcando torrenti e stagni, cadendo, rialzandosi lacero e sanguinoso.
Per andare dove? Verso l’Abisso e alla fine precipitare in quel buco orrido immenso.Qui la morte ha nome abisso, come anch’io spesso l’ho chiamata.
Povero uomo! Mi pare che dai tempi di Buddha nessuno ha messo a nudo la sua vera condizione come ha fatto Leopardi con questi versi. O forse anche altri, ma lasciando un po’ di spazio all’illusione, alla speranza.

Si dirà: ma la vita umana è anche bella, c’è anche il paese di Bengodi sulle sue terre, tante cose sono attraenti e desiderabili. Ed io rispondo: è come il Luna Park, dove si portano i bambini, ed essi si divertono e non vorrebbero più uscire. Ma poi finisce il giorno, calano le ombre, arriva l’oscurità, chiudono le giostre. E comincia la solitudine, la tristezza, il pianto, il grido.
Per Leopardi la chiusura è definitiva: quello era l’ultimo spettacolo. Riuscito male, fra l’altro, specialmente per il vecchierello.
Buddha, invece, ha meditato sulla dolorosa condizione umana, che termina sempre con la morte, e ha trovato e percorso una via d’uscita che parte dal samsâra o ruota del divenire e porta al Nirvana – da nirva che significa spegnere. Poi l’ha insegnata.
Nirvana
perciò vuol dire spegnimento, ma anche contemporanea Illuminazione: spegnimento del mondo che si lascia, perciò, come si annebbiano e oscurano immediatamente le cose se si alzano gli occhi verso il sole e poi si ritorna ad osservarle, e Luce illuminante per chi ormai è entrato e la guarda apertamente e la sostiene. Perciò anche Nirvana e Illuminazione sono la stessa cosa: la Patria luminosa dove i sapienti sono entrati. Il tragitto per arrivare al Nirvana Buddha l’ha chiamato “Sentiero”.
Esso è soprattutto una via filosofica, anche se è improntata più sulla sapienza che sulla filosofia. Non c’è stata in Oriente la deviazione operata da Socrate e Platone fin dall’inizio. O Buddha, contemporaneo di Parmenide, non ha avuto discepoli o seguaci che hanno deviato dalla via maestra, contravvenendo ai suoi insegnamenti (vedi dodicesima coincidenza, Eliot, The rock). Oppure qualcosa di simile è avvenuto, ma solo alcuni secoli dopo la morte del maestro, all’inizio dell’era cristiana. Alla scuola da lui fondata, chiamata Piccolo veicolo (hinayana), che insegnava la conquista della verità per se stessi, simile perciò alla Via della Verità di Parmenide, si è affiancato il Grande veicolo (mahayana), un sentiero aperto a molti, ed esso assomiglia allora alla via della filosofia iniziata da Socrate e Platone. Perché questo potesse avvenire, l’illuminato (Bodhisattva) evitava di spegnersi nel nirvana e rimaneva per aiutare tutte le esistenze nella ricerca della verità e della liberazione.
Ma questa è un’altra storia che sarà da raccontare, perché è essenziale per la comprensione di ciò che ha separato l’Oriente dall’Occidente per tanti secoli e quel che ora li sta avvicinando.

Ora le note filosofiche.
La prima
: il corso immortale della luna in cielo e quello mortale dell’uomo sulla terra. Certamente non è la luna che sa, che confronta la sua esistenza con quella umana. Essa è un corpo inanimato, non ha coscienza: la sua coscienza è l’uomo, solo lui sa che è immortale. O, in ogni caso, è l’uomo che vede e parla.
E cosa vede? Il vagare breve di sé, perché sa quando comincia e come finisce, e il moto circolare continuo dell’altra. L’abbiamo già visto questo moto, nella poesia Casa sul mare di Montale, dove al posto della rotante luna ci sono “i giri di ruota della pompa” (vedi decima coincidenza Montale, Casa sul mare), o in quella di Novella Cantarutti che inizia così: “Rotolo indietro…”, e tutto ciò che sta dietro, dice la filosofia, è natura naturata e si muove in tondo ­– astri, vita vegetale, animale, umana.
Il confronto perciò è sempre fra il movimento lineare e quello circolare: di chi arriva sulla scena per compiere un tratto di cammino e poi com’è apparso così sparisce, e chi invece svolta, ritorna dove ha cominciato e riprende lo stesso corso.
Ora una domanda: se è solo l’uomo, sempre l’uomo, che vede e parla, non è solo lui, sempre lui, che dà la patente d’immortale alla luna e di mortale a sé? Certamente, ma sulla base dell’esperienza diranno tutti quanti, un’esperienza comune continuamente ripetuta e convalidata. Ciò che, insomma, è evidenza e scienza assieme, se si tiene presente che i risultati di quest’ultima non avvengono per caso, o, anche se ciò accade qualche volta, si possono però ripetere quando si vuole, e solo per questo possono appartenere alla scienza e fregiarsi dei suoi titoli.

Se, dunque, la durata della vita è diversa per la luna e l’uomo, ecco allora la seconda nota, che ha qui la forma di domanda: non può essere la luna immortale perché di essa vediamo tutto il cammino, e noi mortali perché il nostro c’è noto solo in piccola parte? Infatti, per ogni uomo ci sono continue interruzioni misteriose e prefissate anche durante il tratto diurno – quelle del sonno; e c’è poi la fermata e la caduta nel profondo da cui non si risale, o – come dice il poeta – dove tutto si dimentica. Ed è quest’ultima soprattutto che ci fa dire di noi stessi: siamo mortali.
Il primo che l’ha affermato è stato Alcmeone, citato da Aristotele, e quel suo dire suona così: “Gli uomini sono perituri perché non possono congiungere la loro fine al loro principio”.
Conoscenza perciò difettosa e limitata la nostra?
È quello che sto cercando di dimostrare in un impegno che si è già preso, qualunque sia il risultato, tanta parte del mio tempo e mi sta occupando ancora con queste Coincidenze. Esse vogliono essere anche una comunicazione presentata in modo nuovo e con un fondamento indiscutibile: la poesia. In modo che se qualcuno vuole intervenire per dichiararle inattendibili, si trovi a fare i conti anche con lei. Non con i singoli poeti, perché qualcuno potrebbe sentirsi messo a nudo e preferire la veste magica di prima, ma con la poesia, che dovrà adeguarsi perciò anch’essa alla nuova condizione. Dovrà penetrare di più nella parte oscura, quella d’altronde da cui sono giunti gli input fino ad oggi, per cui la provenienza non cambia, e svilupparsi di più nel regno della luce mettendo nuovi fiori e frutti.

La terza nota. Leopardi parla della luna da fuori della luna e come altro da essa, mentre parla dell’uomo dall’uomo. Dal suo interno, voglio dire.
Si obietterà che, come la luna, stanno fuori anche il pastore e il vecchierello. Ma non è la stessa cosa. Essi sono uomini, non sono altra cosa dal poeta, e ciò che vale per loro vale anche per lui. Tutti e tre sono mortali, tutti e tre seguono la stessa strada altalenante fra la luce e l’oscurità e nella zona buia sono trasportati e non hanno occhi per vedere. Poi c’è l’Abisso dove tutti vanno a finire.
A questo punto, ecco che appare la possibilità per l’uomo di saperne di più di sé. Se delle cose del cielo come la luna conosciamo tutte le sue fasi e il suo eterno riandare perché le vediamo da fuori e come altro da noi stessi, allora anche per vedere l’intero nostro cammino dobbiamo uscire. Da noi stessi a questo punto. È ciò che ho chiamato anche uscita dal mondo o dal labirinto.
Dopo c’è l’Abisso, ma arrivando sulla sua sponda ad occhi aperti e anticipando il tempo del suo ineluttabile accadere, già si comincia ad accorgersi di tutto il cammino e a far progetti. Com’è accaduto a Heidegger e Jünger dopo che sono giunti sulla linea di Mezzanotte (vedi quinta coincidenza, Aurobindo).
Uscir dal mondo o dal labirinto, perciò, è il primo importante risultato. Di esso ho già parlato in alcune precedenti coincidenze (vedi coincidenze prima, seconda, terza, nona e undicesima).

Quarta nota. Chi è che si innalza e guarda da fuori?
A questo punto, per vedere tutto il cammino, anche il semicerchio notturno, non è più sufficiente l’Io, ci vuole il Sé, l’ultima conquista dell’Occidente nel campo del soggetto.
Quello che nella poesia d’Aurobindo ha nome arcangelo (vedi quinta coincidenza, Aurobindo). Oppure quell’essere “un quarto uomo,/ tre quarti verbo” di Robertson (vedi nona coincidenza, Robertson, Andrà a ovest). O quello che vuole passare “di là dal tempo” di Montale (vedi decima coincidenza, Montale, Casa al mare).
Visto dai padri fondatori della psicanalisi, il Sé non è solo la parte in luce ma anche tratto d’Oceano vicino alla terra emersa. Quest’ultima è l’autocoscienza, l’altra è simile al bassofondo che gli olandesi hanno strappato al Mare del nord, imbrigliandolo con le loro dighe: a quell’opera Freud ha paragonato il lavoro della psicanalisi nella parte a notte dell’uomo e dell’umanità (vedi settima coincidenza, Kavafis, Candele). Della stessa cosa, vale a dire del Sé, Jung ha detto che è coincidenza di conscio e inconscio (vedi settima coincidenza, Kavafis, Candele).

P.S.
Lungo la via della conoscenza, prima di arrivare all’uscita dal mondo o dal labirinto, ho visto anch’io segnali che indicavano quella tappa. Ne riporto due che mi hanno particolarmente colpito, e un eguale effetto potrebbero produrlo in chi li legge.
Il primo: “C’è un altro che non vedo che comanda,/ come io comando a quelli che stanno sotto./ E mi comanda di assumere il comando/ perché egli è stato innalzato”.
Il secondo: “Se già osservo il vegetale e l’animale che stanno sotto/ allora potrò vedere anche l’umano/ se mi hanno detto di salire ancora”.
Questa è invece la conclusione che s’impone: Io sono uscito da me per dire di me stesso: c’è il giro completo della vita che tu puoi vedere e ripetere se vuoi. Ma ora dipende da te e non perché costretto.

Lettera aperta a Emanuele Severino

22 agosto 2009

Martin Heidegger in the woods

Martin Heidegger in the woods

“L’essere, per Heidegger, non è nessuno degli enti, non è nemmeno quel Super-ente che è il Dio della tradizione occidentale. È invece ciò che si manifesta nel disvelamento. Nell’antica lingua greca è presente la parola alétheia solitamente tradotta con verità, la cui traduzione più appropriata e anche più letterale, però, è appunto disvelamento (dove il prefisso dis corrisponde all’alfa privativo di a-létheia. Per i Greci la “verità” è un trar fuori dal velamento, ossia dalla léthe – dalla latenza. Il disvelamento non è un atto umano. Heidegger lo interpreta come una luce che sorge dall’oscurità (cui è quindi essenzialmente unita) e che illumina le cose. E aggiunge, spintovi dal senso greco di quella parola, che tale luce ancor prima di illuminare le cose, quindi indipendentemente da esse, apre una radura luminosa che non è costituita da alcun ente e non rappresenta alcun ente, ma è, appunto, l’essere di ogni ente. Rifacendosi ai primi pensatori greci, Heidegger intende affermare la differenza ontologica tra essere ed essente (Emanuele Severino, Il muro di pietra, Rizzoli, pp. 109-110).

Ed ora la sorpresa: chi espone così il pensiero di Heidegger sull’Essere, vale a dire con queste parole chiare e distinte e in modo conciso ma completo, non è un discepolo del filosofo tedesco o un suo ammiratore esperto della sua dottrina, ma Emanuele Severino.
Inoltre le sorprese non finiscono qui. L’Essere, come luce che appare dall’oscurità, non è un’idea di Heidegger soltanto: anche Parmenide l’ha descritto in tal modo; quello che il sapiente d’Elea vide più di venticinque secoli fa e di cui ci ha lasciato le testimonianze. Perciò se esistono differenze fra i due racconti dipendono solo dalle parole impiegate per riferirgli, diverse ma che esprimono la stessa cosa, per questo essi sono sostanzialmente uguali. Vediamo qualche esempio.

Per Heidegger l’Essere “è una luce che sorge dall’oscurità”.
Per Parmenide è il “Giorno” che appare quando si apre “la Porta che divide i sentieri della Notte e del Giorno”, e lui giungeva dalla “Notte”. Perciò “Giorno” è un appellativo dell’Essere.

Per Heidegger la Luce che sorge apre una “radura luminosa”, che è l’Essere nella sua manifestazione, luogo degli enti che così appaiono.
Per Parmenide questo luogo è lo spazio visto dall’Aurora dove appare tutto in una volta e collegato, e dove si sarebbero riversati gli abitanti dell’antica Grecia per cominciare il cammino di una civiltà, quella che si è poi chiamata Occidente.

Naturalmente per Heidegger gli enti che si presentano alla vista non sono gli stessi di prima della manifestazione luminosa. Ora hanno l’Essere con loro.
Per Parmenide gli enti così illuminati segnano la via della doxa, che sarà poi quella della filosofia e della scienza.

Per Heidegger l’Essere non è Dio ma Luce che appare, poiché Dio si rivela fuori della sfera della filosofia nella sfera del Sacro. (“Das Sein-das ist nicht Gott und nicht ein Weltgrund”, M. Heidegger, Brief über Humanismus, Bern 1947, pag. 76).
Anche per Parmenide l’Essere non è il Dio delle religioni. Dopo aver affermato che “Essendo ingenerato è anche imperituro,/ tutt’ intero, unico, immobile e senza fine./ Non mai era né sarà, perché è ora tutt’ insieme,/ uno, continuo”, egli prosegue così: è anche “immobile; infatti la dominatrice Necessità lo tiene nelle strettoia del limite che tutto intorno lo cinge, perché bisogna che l’essere non sia incompiuto: è infatti non manchevole: se lo fosse mancherebbe di tutto” (I Presocratici – Testimonianze e frammenti. Parmenide, framm. 7, Biblioteca Universale Laterza.). Cose che non si dicono di Dio, vale a dire che sia costretto e ristretto dentro confini.

D’altronde perché dovrebbe sorprendersi se un appellativo dell’Essere è Luce e così viene chiamato? C’è solo una continuazione e sviluppo di quel che già avviene in modo simile in luoghi già noti. Non è ciò che succede ogni mattina qui sulla Terra quando appare il sole e illumina tutte le cose che così appaiono, spuntano, si aprono, crescono? Non è ciò che accade ad ogni ragazzo quando raggiunge l’età della ragione ­– la quale è luce riflessa dell’Essere –, che perciò vede e comprende quel che prima gli era negato: la vista delle cose tutte assieme, per esempio, e le leggi che le collegano e governano?
Soltanto che la luce vista da Parmenide e riscoperta da Heidegger non è né il sole né la ragione. È un’altra, o la stessa ma colta in modo nuovo. Con gli occhi dell’intelletto oltre che con quelli del corpo e della mente razionale: c’è un innalzamento della soglia della percezione a questo punto. E ciò che è apparso in più da quel momento sotto la luce dell’Essere è la filosofia, la scienza esatta della natura, la storia, la tragedia, la democrazia, il cammino di una civiltà diretta verso Occidente, vale a dire alla sua conclusione, dove però c’è la possibilità per chi arriva, oppresso e avvinto da limiti tenebrosi che parevano insuperabili, di un altro passo in avanti, di uno “scavalcamento di sé stesso”.

Heidegger e Parmenide assieme, perciò, a questo punto. Poi la mia esperienza, quella che sto raccontando in queste pagine: un cammino il mio che è passato per molte tappe su cui si è soffermato il sapiente di Elea (si veda su questo blog la sedicesima coincidenza intitolata Dalla sapienza alla sapienza seguendo la via filosofica), e per arrivare fino alla fine ho adottato il metodo già sperimentato da Heidegger: quello di tornare indietro fino alle origini prima di proseguire. Nel mio caso è stato un tornare indietro per andare avanti e in tal modo sono giunto alla fine che coincide con l’inizio (si veda L’antica via dei Miti e dei Misteri – percorsa ora con in mano la lampada della conoscenza filosofica). Ma anche Heidegger, mi pare, ha proceduto, di fatto, così. Dopo aver percorso la strada all’indietro fino a Parmenide, ha ripreso la stessa in avanti, ormai immersa nelle Tenebre, ed è giunto al “punto zero” o “linea di Mezzanotte”, sognando l’Alba. Io ho superato anche la Mezzanotte e dopo aver attraversato l’Abisso e apparso il primo chiarore dell’Alba, e poco dopo ha cominciato a splendere il “Giorno”.

In tre perciò, siamo giunti allo stesso risultato, e Severino poteva diventare il quarto, vista la chiarezza e la competenza con cui ha colto il nocciolo del pensiero dei grandi che l’hanno preceduto. Invece la sua contrarietà. Contro Parmenide, contro Heidegger.
Al primo ha addebitato soprattutto di aver “negato il molteplice” per affermare l’Essere, e che “il molteplice non è vuol dire che il mondo così come ci sta davanti nella sua straordinaria ricchezza, differenza di forme, colori, di luci, di situazioni, non è (vedi su questo blog l’articolo S.P.S. – Salviamo Parmenide da Severino). Da ciò l’accusa: negando gli enti e il loro totale Parmenide è stato il primo nichilista e l’Occidente ha cominciato il suo cammino dal nulla, per ritornare al nulla se Severino non avesse scoperto la deviazione antica, indicando ora la via da seguire.
Heidegger l’ha accusato invece d’ambiguità, perché egli “non ha mai ritrattato l’affermazione, espressa in più occasioni, che il proprio pensiero non pregiudica né in senso positivo né in senso negativo la soluzione dei grandi problemi metafisici – i problemi dell’esistenza di Dio e dell’immortalità dell’anima” (E. Severino, Il muro di pietra, Rizzoli, pp. 117-118). Perché una delle sue ultime espressioni prima di lasciare questo mondo suona così: “Ormai soltanto un Dio ci può salvare”.

In quanto a me, non sono ancora in gioco nell’arena della filosofia, né si può sapere se dopo questa lettera aperta il grande accademico si degnerà di guardare dal suo trono a chi gli dice: “Il re è nudo”. Ma anche se rimanesse impalato e muto con lo sguardo fisso in avanti, pensando “che qui ne va del decoro, se non si rimane imperterriti” (si veda su questo blog Severino e la favola), non avrebbe molta importanza per me che ho compiuto il gran viaggio: ai posteri l’ardua sentenza. Se si riconoscesse nudo sarebbe però importante per chi è ancora in cammino e non sa dove andare, e per coloro che la strada non l’hanno ancora incominciata. Perché non è vero che ogni uomo in carne ed ossa è “Dio” qui sulla Terra, tantomeno “Superdio”. Siamo invece miseri, e dopo che l’Essere è scomparso sotto l’orizzonte della mente anche senza alcuna meta e scopo; e se continua così può darsi che la struttura sociale dove ora ci troviamo non regga più e che imploda o esploda. Ciò che è nelle previsioni di molti profeti d’altronde, specialmente da quando disponiamo dell’energia nucleare ed è cominciata la devastazione della Terra.

Giunti a questo punto, che cosa si può pensare di Severino? Che il suo voler confutare il più grande sapiente dell’antichità e il più grande filosofo del secolo scorso sia solo un gioco di parole, di quelli cari ai sofisti antichi e nuovi? Oppure ha così parlato perché ha visto: ha parlato cioè sulla base della sua esperienza e non menando il can per l’aia come spesso si fa nella moderna ermeneutica, dove la “verità” è solo un giro di parole?
Fino a poco tempo fa conoscevo solo la prima ipotesi, ma ora si è fatta avanti la seconda, si è insinuata come un tarlo e sta scacciando la prima.

Intanto vediamo la trasformazione operata da Severino sul pensiero dei grandi che l’hanno preceduto. Per lui eterno, immutabile, incorruttibile, ingenerabile, non è il “Giorno” di Parmenide e la “Luce” di Heidegger che aprono spazio e “radura luminosa”, luogo degli enti che così acquistano l’Essere e s’illuminano e appaiono con la nuova veste (Alétheia è il nome greco di quell’accadere).
Eterno, immutabile, incorruttibile, ingenerabile, è ogni ente di questo mondo. Questo è il centro del suo pensiero su cui tutto gira. Così, però, sparisce l’“Essere”, perché le sue determinazioni sono trasferite ad ogni ente, e quella che era la fonte si svuota e sparisce per sempre. Preceduto dal “Dio è morto” di Nietzsche, egli ora gli dà pubblica e solenne sepoltura. È il becchino ufficiale dell’Occidente immerso nel nichilismo diventato condizione normale.
Ma com’è potuto arrivare a tanto se, come ho appena detto, non gli si può negare la buona fede? Perché l’Essere era sceso sotto l’orizzonte è la risposta, e non c’era più nel cielo della civiltà che ha illuminato per venticinque secoli.

Era tramontato nel modo previsto e visto da Heidegger, che ha parlato di “epoché dell’Essere”, vale a dire di momenti di massima manifestazione e di altri di oscuramento completo. E il primo si è verificato nel sesto secolo a.C. e l’hanno visto i sapienti, ed è cominciata la civiltà occidentale e non solo essa: anche il Buddhismo in India e il Taoismo in Cina; e i fondatori di quelle dottrine sono contemporanei di Parmenide. Il nascondimento ha avuto invece inizio circa due secoli fa nei modi del sole che tramonta fino a scomparire. Le prime avvisaglie le hanno percepite i poeti (Hölderlin). Poi un crescendo d’ombre sempre più scure già con Nietzsche e gli autori della numerosa e varia letteratura del nichilismo. Quindi la scomparsa.
Così quando è arrivato Severino l’Essere più non c’era, sepolto dall’oscurità, e lui l’ha ritenuto morto.
Al suo posto solo la sua luce negli enti, ed ognuno di essi è diventato “Essere”, anzi “Superdio”, perché per Severino non c’è distinzione fra l’Essere della filosofia e il Dio delle religioni.

I vantaggi

2 agosto 2009

I vantaggi che si acquistano arrivando alla fine del giro eterno in modo consapevole, perché inconsapevolmente sempre si giunge ma allora solo per ripeterlo ciecamente, instancabilmente. Quest’ultimo è l’eterno riandare delle piante, degli animali e dell’uomo. Ma ora quella fatica, simile alla condanna di Sisifo, per l’uomo appare terminata

Moebius, M.C. Escher

Moebius, M.C. Escher

Nel lungo titolo si parla di
“giro eterno”;
d’arrivo alla fine di esso in due modi: “inconsapevole” e “consapevole”;
e dei “vantaggi” che si “acquistano” giungendo nel secondo modo.
Innanzi tutto il giro eterno: cos’è?
Il titolo ci dice qualcosa di esso: è l’eterno riandare delle piante, degli animali e dell’uomo. Cui si può aggiungere, senza tema di esaurire l’elenco che appare interminabile, l’infaticabile girotondo dei corpi celesti, la girandola dei mesi e delle stagioni, le rotondità dei nidi continuamente mantenute e ripetute; il turbinio del vento quando è più potente; i gorghi dell’acqua quando è aspirata nel profondo.
Sono giri della natura che, come si sa, sono fatti d’apparizioni e nascondimenti, di atti e potenze, di veglia e sonno, di coscienza e inconscio.
Apparizioni e sparizioni sono la luna piena e quella nuova, la terra nelle tenebre e la stessa illuminata, il sole che sorge e il sole che tramonta. Apparizione è anche la costellazione che ritorna dal giro dell’eclittica e sparizione il suo contrario.
In potenza è l’uomo nel seme, in atto dalla nascita in poi, specialmente nell’età del fiorire, vale a dire nel mezzo del cammino della vita.  
Nella veglia, invece, c’è il manifestarsi della coscienza e nel sonno il suo sparire. In modo ancora più ampio e profondo, coscienza è la percezione complessiva che l’uomo ha di sé “del proprio corpo e delle proprie sensazioni, delle proprie idee, dei significati e dei fini delle proprie azioni”, sempre limitata, continuamente interrotta, immersa nel dubbio, in continua sospensione; e l’inconscio è il suo contrario, “vale a dire il complesso dei processi psichici che non giungono alla soglia della coscienza” ed esso appare senza fondo.
Come in natura, anche nella cultura il giro eterno ha molti nomi ed aspetti. Ne dico alcuni da portare come esempi.
Uno è l’Anno perfetto (Platone, Timeo, paragrafo trigesimo nono), lungo venticinquemilaottocento anni, come risulta dai calcoli della moderna astronomia. Dopo questo gran giro dei pianeti e delle stelle, i cieli ritorneranno al punto di partenza e tutto riprenderà nuovamente, hanno detto Anassimandro (Hyp., Refut. omn. haeres, I, 6, 1), Eraclito (Censorino, De die natali, 18), Empedocle (Fr. 17 Diels), Cicerone (Cicerone, Sulla natura degli dèi, libro II), Macrobio (Tacito, Dialogo degli oratori, 16). Anche la Storia umana, hanno aggiunto altri che sono arrivati a tanto in un’estensione della stessa idea: perché se i periodi planetari sono ciclici, lo sarà anche la storia universale – deduzione che appare difficilmente confutabile.
Un altro aspetto del giro: il farsi invisibile a poco a poco della santa dottrina del Buddha Sâkyamuni, fino alla scomparsa, ma ritornerà con un altro Buddha (secondo le profezie che risalgono all’inizio dell’era cristiana, ciò accadrà dopo venticinque secoli dall’Illuminazione di Buddha, e quando perfino i monaci “diventeranno forti soltanto nella lotta e nel rimprovero).
Infine l’ultimo in ordine di tempo, quello che ci riguarda più da vicino perché tocca direttamente l’uomo: è l’eterno ritorno del medesimo di Nietzsche, e chi ritorna da questo circolo non è più quello di prima. È il pastore che ha staccato con un morso la testa del serpente che gli era entrato in bocca (Così parlò Zarathustra – La visione e l’enigma, Adelphi, edizione Colli-Montinari); è l’uomo che si è liberato dal supplizio dell’eterno e cieco riandare.
Rispetto ai giri della natura che la stragrande maggioranza sta ancora conducendo nell’inconsapevolezza fra canti e pianti, in quelli della cultura l’uomo prospetta e progetta il suo personale ritorno. Ha detto lo stoico Nemesio: “Quando nel loro moto gli astri siano tornati allo stesso segno e alla latitudine e longitudine in cui ciascuno era al principio, accade nel corso dei tempi, una conflagrazione e distruzione totale; poi di nuovo si ritorna al principio e allo stesso ordine cosmico e di nuovo muovendosi gli astri ugualmente, ogni avvenimento accaduto nel precedente ciclo torna a ripetersi senza alcuna differenza. Vi sarà infatti di nuovo Socrate, di nuovo Platone e di nuovo ciascuno degli uomini con gli stessi amici e concittadini; le stesse cose credute e gli stessi argomenti discussi, e ogni città e villaggio e campagna ritornerà ugualmente. Questo ritorno universale si effettuerà non una sola volta ma molte volte e all’infinito” (De nat. Hom., 38). Ha detto Lucilio Vanini: “Di nuovo Achille andrà a Troia; rinasceranno le cerimonie e le religioni; la storia umana si ripete; nulla c’è adesso che non sia stato; ciò che è stato sarà; ma tutto questo in generale, non (come determina Platone) in particolare” (Lucilio Vanini, De admirandis naturae arcanis, dialogo 52). Ha detto David Hume: “Non immaginiamo la materia infinita come fece Epicuro; immaginiamola finita. Un numero finito di particelle non è suscettibile d’infinite trasposizioni; in una durata eterna, tutti gli ordini e posizioni possibili avverranno un numero infinito di volte. Questo mondo, con tutti i suoi particolari, perfino i più minuscoli, è stato elaborato e annichilato: infinitamente” (David Hume, Dialogues concerning natural religion, VIII).
Ha detto Goethe: “Il cerchio che l’umanità deve percorrere è abbastanza determinato, e nonostante la grande stasi prodotta dalle barbarie, essa ha già percorso questo cammino più di una volta. Se le si vuole inoltre attribuire un movimento a spirale, si può dire che essa ritorni sempre di nuovo nella regione già attraversata. In questo modo si ripetono tutte le opinioni vere e tutti gli errori” (Geschichte der Farbenlehre, tratto da Karl Löwith, Da Hegel a Nietzsche, Einaudi). Egli anche in altri modi ha espresso il ciclico ritornare: con le Madri del Faust che si trovano nella Galleria oscura”, che sono “il principio che produce e che conserva, dal quale si origina tutto ciò che ha vita e forma sulla superficie della terra. Ciò che cessa di vivere ritorna ad esse come natura spirituale, ed esse lo custodiscono fino a che trovi l’occasione di entrare in una nuova esistenza. […] Eterna metamorfosi dell’esistenza terrestre, del nascere e del crescere, del trasformarsi e del distruggersi…” (J.P. Eckermann, Gespräche mit Goethe, cit. pag. 385).
Fra l’arrivo inconsapevole e quello consapevole, dunque, c’è differenza grande: anch’essa è indicata nel titolo e si tratta di vedere in che consiste. Anzi è ciò che il titolo espressamente vuole che si sviluppi. Che finalmente si dica in modo chiaro e tondo a cosa è servita nella mia avventura – che è giunta alla consapevolezza dopo tanti precedenti tentativi nel Mito, nelle religioni, nei Misteri, nelle fiabe –, la fatica di uscire dal Labirinto alle prime luci dell’Alba, arrivare al Tramonto, continuare nel Buio fino alla Mezzanotte, attraversare l’Abisso per arrivare ad una nuova sponda della Luce, o rivedere la stessa in modo nuovo. Ciò che è già stato scritto, insomma, nel libro L’antica via dei Miti e dei Misteri – percorsa ora con in mano la lampada della conoscenza filosofica. Una Luce che così trovata e riscoperta è la fonte dei “vantaggi” di cui parla il titolo. Ecco, allora, che si arriva ad essi, ai loro nomi e alle idee chiare e distinte che li esprimono. 

Arrivo consapevole si ha quando, partiti da un inizio determinato ad esso si ritorna, dopo aver fatto esperienza di tutta la via. Nel mio caso, partito da un’immagine della chiesetta sperduta, apparsa come in sogno tanti anni prima, l’ho trovata come si suole dire in carne ed ossa, dopo un immane giro sulla terra e nel pensiero. Oppure, partito dall’inizio della civiltà occidentale – da Parmenide che ha aperto lo spazio dove l’Occidente si sarebbe riversato e da Erodoto che ha cominciato a raccontare quel viaggio –, sono arrivato alla sua fine che è la linea di Mezzanotte, raggiunta alcuni decenni fa da Heidegger e Jünger.

Assomigliano perciò gli arrivi consapevoli a quelli dei viaggi di qui, quando si ritorna in una città già vista, in luoghi già visitati, da parenti o persone amiche, di cui si conoscono gli indirizzi.  Perciò il percorso che unisce un’esistenza passata alla presente è simile a quello che collega un luogo della terra a un altro luogo, o a se stesso in un ritorno dopo un giro completo, per cui si può dire con Eraclito che “sulla circonferenza il principio e la fine sono insieme raccolti, sono lo stesso” (Eraclito, frammento 103 D.K.). Anche in questo caso la via è tracciata sulla terra, ma per andare per essa è necessario conoscerla. E prima ancora aver gambe e piedi per camminare, occhi per vedere, cultura per leggere piante e mappe e per cogliere i segnali e capirli. Insomma, anche per la via che collega le esistenze, per poter andare ci devono essere prima gli esistenti, le vie della natura tracciate nella terra e nei corpi, le luci che illuminano e riscaldano, come quella del sole a primavera che chiama piante e fiori ad apparire, come la luna che presiede alle nascite degli animali e degli uomini.
Oltre che visione di tutta la via, cosa accade ancora quando si raggiunge la fine ed essa è anche il punto da cui l’avventura è cominciata? Avviene la: coincidenza degli opposti. Coincidenza di Fine e Inizio, la prima e più evidente. Poi tutte le altre e fra esse quella uomo – donna. Essa appare la più vicina, perché ci sono suoi aspetti e prove anche qui, vale a dire in questo mondo di metà divise e contrapposte. Accade nell’innamoramento, quando una metà incontra l’altra metà e da segni misteriosi si riconoscono, come se fossero già state unite. Narra, infatti, il Mito che erano una cosa sola prima che Zeus li dividesse con la spada (In un Mito, citato da Platone, l’uomo e la donna erano all’inizio un solo corpo, di forma circolare, – e non due distinti e separati come sono oggi, che se si sentono uno solo soltanto nell’amore e per davvero lo sono un po’ solo quando si penetrano – capace quell’unica carne d’auto generarsi, e così potevano sfidare impunemente il tempo e la morte. Ma apparvero troppo potenti quei due così uniti al timoroso Zeus. Per tale motivo, prima che s’accorgessero della loro potenza e fossero presi dall’idea di scalare l’Olimpo, come avevano fatto i Giganti, egli li tagliò in due con la spada. Da quel lontano passato non solo l’uomo ha perso la Notte e la donna il Giorno, rimanendo l’uno e l’altra, così soli e staccati, una debole e inservibile metà, ma ognuna delle due parti separate con la forza cerca l’altra e ha pace solo se la trova. Ecco il perché della continua inquietudine e agitazione. Pressoché impossibile, però, il ritrovamento e ricongiungimento fra tanta lacerazione e dispersione; e poi, anche quando la ricerca sembra avere un approdo, non c’è mai la certezza che sia la metà originale quella che appare, perché tante si assomigliano, perché sembra soltanto che sia quella perduta. Poi la stragrande maggioranza s’accorge invece che non è così. Allora interviene mutuo bisogno, mutua stima, mutua comprensione e rimangono lo stesso assieme finché dura la vita; ma i più si dividono finché non incontrano un altro o un’altra. Soltanto molto raramente sono la metà che cercano: per lo più la nuova unione è un’altra illusione, un nuovo aspetto dell’inganno). Affermano le religioni che lo diventeranno ancora alla fine dei tempi, quando verrà il Regno dei cieli (In un frammento da un testo apocrifo, chiamato Il vangelo degli Egizi, conservato da Clemente Alessandrino è affermato che il Redentore, interrogato su quando sarebbe venuto il Suo regno, ha risposto: “Quando quei due [maschio e femmina] saranno uno solo, nell’esterno come nell’interno, e il maschio con la femmina non sarà né maschio né femmina”).
Dove il cammino finisce, naturalmente lì anche incomincia e si può riprendere il giro in modo consapevole questa volta. Oppure si può uscire perché in quel punto c’è anche “la Porta che divide i sentieri della Notte e del Giorno”, già nota a Parmenide che così l’ha chiamata, e ad altri.

Arrivo inconsapevole è, di converso, quello che lungo la via della natura e della Storia tocca ancora all’uomo. È quello d’ognuno che arriva alla luce del sole e della ragione ma senza saper come, seguendo le antiche strade che sono state costruite dalla specie d’appartenenza: in poche parole, ogni nascita. Anche il tratto fra nascita e morte è fatto di luci e ombre: veglia e sonno, conscio e inconscio. Luci ed ombre dalla nascita alla morte e tenebra prima e dopo: perciò le parole che contraddistinguono questa parte del percorso: non si sa da dove si viene e dove si va né chi è davvero colui che procede in tal modo. Da ciò inoltre la forma che quel tratto di via ha preso per i più: quella di un segmento o arco che comincia da un punto indeterminato e termina in un altro altrettanto sperduto e solo. Naturalmente, tutto questo ora è visto in un confronto, ed appare così in modo chiaro e distinto la differenza esistente tra il giro completo e una piccola parte di esso. Del primo si può dire: si sa da dove comincia, cos’è e dove conduce; e di chi lo percorre: nell’ambito del suo giro egli è un intero, sussistente in sé, immutabile e immobile nel suo centro. Sono arrivi inconsapevoli anche quelli della metempsicosi e reincarnazione, perché anche se si ricorda di essere già stati, però non si conosce la strada che ha portato di nuovo a rivedere le stelle. C’è in questo caso un aumento di visione e perciò di luce, ma essa non è sufficiente ad illuminare tutto il giro. La metempsicosi come appare finora assomiglia piuttosto ad un faro nella notte che s’appunta, attraversando le tenebre, su rive lontane della vita, aldilà dell’Abisso.

Oggi, prima dell’alba…

18 giugno 2009

Walt Whitman, Oggi, prima dell’alba…

Walt Whitman

Walt Whitman

Oggi, prima dell’alba, sono salito su un colle
e ho guardato il cielo affollato,
e ho detto al mio spirito:
‘Quando avremo abbracciato tutti questi mondi
e goduto e saputo ogni cosa di essi,
saremo sazi e soddisfatti, dopo?’
E il mio spirito disse:
‘Arriveremo a quel limite per superarlo
e proseguire oltre.’
[…]

Questa poesia l’ho letta sulla quarta di copertina del libro di Grazia Sacchi intitolato Per te per sempre e mi ha subito colto il desiderio di tradurla.
Eppure un altro Whitman, dopo Dai lidi della California, non era in previsione, a così breve data almeno.
Perché allora? Perché è una naturale continuazione della prima o, almeno, così essa m’è apparsa al primo sguardo.
Perché anche a me, dopo l’arrivo alla Porta e aver messo i piedi sulla soglia, prima di proseguire oltre, è capitato proprio così: volgendomi a vedere, ciò che lasciavo era uguale alla visione del poeta, era l’universo tutto in una volta. Whitman vede il cielo affollato e lo coglie tutto in un abbraccio; io tutte le stelle alle mie spalle, “immerse in una sfera di pensiero”. Probabilmente – ora mi sembra – nella luce che usciva dal battente ormai aperto sulle due dimensioni.

Così si è presentata tutta la scena: “Se ti accade di accostarti a quella porta/ e di affacciarti, vedi gran luce/ e le stelle e le galassie stanno alle tue spalle/ immerse in una sfera di pensiero”. Oppure così, ed è la stessa: “T’affacci sul divino della luce quando incontri la Porta/ e da lì ti accorgi che le stelle e le galassie/ sono scintille di essa sparpagliate/ dentro l’interno che si lascia”.
Qui, allora, la parola della poesia e quella della filosofia sono la “stessa cosa”, ecco la sorpresa!
Le due si sostengono a vicenda, e si danno origine fra loro, ecco la novità!
E ciò che risulta dalla coincidenza è un linguaggio nuovo, necessario all’impresa che stava incominciando.

A guardar bene, anzi, non è neppure una novità. L’ha previsto Heidegger, per esempio, quando egli è giunto sulla linea di mezzanotte che corrisponde al confine di questo mondo di cose e di pensiero, e perciò anche di fronte all’abisso che comincia subito dopo. Egli ha affermato che in quel punto il linguaggio, in uso di qua, non era più adatto. A cosa? Ad andare avanti, vale a dire ad attraversare quel baratro e mettere piede sull’altra sponda dove c’è la porta. Ecco a cosa non bastava più la “parola” usata in questo mondo, anche quella della filosofia (Heidegger, per primo, giunto sulla linea, ha pensato che il nostro dire venga meno al momento del suo superamento e che sia perciò necessario un altro linguaggio. Così egli si è espresso. “È sufficiente che questo linguaggio sia universalmente comprensibile, o vigono qui altre leggi e altre misure, così uniche nel loro genere quanto l’istante della storia del mondo che segna il compimento planetario del nichilismo e l’esplicazione della sua essenza?” [Ernst Jünger-Martim Heidegger, Oltre la linea, Adelphi, pag. 144]. Poi, nella stessa occasione: “In che linguaggio parla lo schema fondamentale del pensiero che prefigura un attraversamento della linea? Il linguaggio della metafisica della volontà di potenza, della forma e del valore deve essere salvato di là della linea critica? E in che modo, se proprio il linguaggio della metafisica e la metafisica stessa, sia essa del Dio vivente o del dio morto, hanno costituito in quanto metafisica il limite che impedisce il passaggio oltre la linea, cioè l’oltrepassamento del nichilismo?” (Ernst Jünger-Martin Heidegger, Oltre la linea, Adelphi, pag. 138). Domande che sono rimaste senza risposta in quel tempo, ma che aleggiavano da qualche parte dal momento che qualche decennio dopo la linea è stata superata. Ed ora, ecco che si è presentata l’occasione di sapere in cosa consiste il nuovo linguaggio: è la coincidenza di poesia e filosofia).
La stessa cosa d’altronde che capita ai mistici quando arrivano al punto α  e ω, – e le cose che sentono e gustano non si possono esprimere con parole né pensieri; o ai grandi poeti, com’è capitato a Dante in Paradiso al cospetto di Dio.

In seguito però la linea è stata superata, e chi è andato oltre non si è posto il problema del linguaggio. Piuttosto un altro linguaggio è venuto da sé quando l’impresa è incominciata. È cominciata perché un nuovo linguaggio era a disposizione, o era a disposizione perché è iniziata? Le due cose stanno assieme mi sembra, c’era coincidenza. Ciò corrisponde a quel che è sempre accaduto in questi momenti: che sono la stessa cosa il pensare e l’esistere (“Infatti identico è il pensare e l’esistere”, Parmenide, testimonianze e frammenti, Frammento 3, a cura di Mario Untersteiner, La Nuova Italia Editrice, Firenze.).

Ora però a cose fatte si potrebbe essere colti dalla curiosità di andare un po’ a fondo, quel che sta accadendo con queste coincidenze su queste pagine; e l’occasione l’ha offerta la poesia in esame di Whitman e la coincidenza fra essa e il pensiero filosofico che mi ha accompagnato nel passaggio della linea e durante la traversata dell’abisso, che è balzata subito agli occhi quando l’ho vista.
Perciò la domanda suona così: qual è, cos’è il nuovo linguaggio? La risposta: è poesia consapevole. Ciò potrebbe significare che la sua origine non è più oscura com’è stata fino ad oggi, con nomi noti e usati ma ognuno isolato e chiuso nella sua impenetrabilità: sentimento, intuizione, amore. Ora ha anche un aspetto, vale a dire qualcosa s’intravede in quel che era senza porte e finestre.
Il linguaggio di oltre la linea dovrebbe essere allora quello che ho segnato su queste pagine e sta scorrendo ancora. Queste “coincidenze”, perciò, specialmente questa qui che sto scrivendo. Cerco di entrare un po’ di più nel cuore del problema.

Nella poesia in esame ci sono due attori: il poeta in carne ed ossa e il suo invisibile spirito. Il primo sale su un colle all’alba e da lì guarda il cielo, lo vede “affollato” di stelle e chiede al secondo: ‘Quando avremo abbracciato tutti questi mondi/ e goduto e saputo ogni cosa di essi,/ saremo sazi e soddisfatti, dopo?’ E il suo spirito risponde:
‘Arriveremo a quel limite per superarlo/ e proseguire oltre.’ […]
Ora non c’è nessuno, sano di mente come qui si dice, che crede davvero che il poeta possa abbracciare l’universo fisico che, secondo la stima degli scienziati, ha un diametro di tredici miliardi d’anni luce. Motivo per cui si proclama: si tratta di una licenza poetica. Da cui il giudizio tanto caro ai più: il poeta è un visionario che galoppa con la fantasia, uno che scambia le lucciole per lanterne.
E se invece fosse “vero” quel che dice? Vero che tutti questi mondi si possono abbracciare? Del resto, non stanno già tutti quanti nello sguardo!

A questo punto giunge a sostegno la filosofia che conferma: si può. Si può coglierli tutti in volta con il pensiero e la figura che così risulta diventa superabile e si può lasciarla alle spalle. Quel che è capitato a me d’altronde prima dell’attraversamento della linea di mezzanotte e ho chiamato quest’avvenimento uscita dal labirinto, e il labirinto era il mondo (si veda anche L’antica via dei miti e dei misteri, percorsa ora con in mano la lampada della conoscenza filosofica).
Perciò il pensiero poetico filosofico di quel momento propizio: le stelle e le galassie stanno indietro, immerse in una sfera di pensiero.
Ecco un’altra indicazione di quell’evento che m’è toccato quando ho raggiunto il confine del mondo e prima di affrontare l’abisso. “Superando la linea/ quest’intero raccolto, cioè il mondo,/ ti appare tutto incluso/ nella sfera che si lascia”.
Parole che corrispondono esattamente a quelle del poeta: “Arriveremo a quel limite per superarlo/ e proseguire oltre”. E questi versi, ora che hanno il sostegno della filosofia, non suonano più da incredibili o assurdi. Perché ora quel confine è stato davvero raggiunto e superato.

e goduto e saputo ogni cosa di essi,

saremo sazi e soddisfatti, dopo?’

E il mio spirito disse:

‘Arriveremo a quel limite per superarlo

e proseguire oltre.’ […]

S.P.S. Salviamo Parmenide da Severino

1 Maggio 2009

Vedere anche i precedenti scritti sull’argomento: Severino e Parmenide, Dalla sapienza alla sapienza seguendo la via filosofica, Severino e la favola.

Un castello di carte sta in piedi
finché non giungono le prime folate
dell’uragano che s’avvicina.
Una casa costruita sulla sabbia
precipita appena si alza la marea
e raggiunge le sue mura.

Seguiamo un po’ la strana storia di Parmenide vista da Emanuele Severino, perché il sapiente d’Elea, che ha aperto la dimensione luminosa dove la nostra civiltà è sorta e si è sviluppata, arrischia di diventare invece, per mano di Severino, il primo nichilista di essa.

Parmenide raffigurato da Raffaello Sanzio

Parmenide raffigurato da Raffaello Sanzio

Vediamo cosa ha detto Parmenide del suo viaggio che si è svolto dalla “casa della Notte” fino alla “rotonda Verità”, vale a dire fino all’Essere. La prima parte di esso è avvenuta nelle Tenebre ma l’accompagnavano le “fanciulle figlie del Sole”. Con il loro aiuto è arrivato fino alla “porta che divide i sentieri della Notte e del Giorno”. La porta era chiusa e sorvegliata da una dea, che però l’ha aperta per lui, per farlo passare, perché n’era degno. Prima di riprendere il viaggio aldilà della porta, la dea gli dice cosa lo aspetta: la via che porta alla “rotonda Verità”, vale a dire all’Essere, ed è quella principale, “maestra” l’ha chiamata; ma ce ne sono altre due. La via che conduce a “conoscere” “ciò che appare ai mortali”, ed è necessario che egli la segua, perché anche le apparenze “sono”, e gliela raccomanda; e poi quella che porta al non essere. Però quest’ultima “è del tutto inindagabile: perché il non essere né lo puoi pensare (non è, infatti, possibile), né lo puoi esprimere”.

Delle tre, perciò, solo l’ultima è sconsigliata anche se non preclusa, e Parmenide non la percorrerà. D’altronde era giunto dalla Notte e, varcata la Porta che apre nel Giorno, era quella la direzione che gli interessava (Diversamente è toccato a me, che ho compiuto lo stesso giro ma partendo dal Tramonto anziché dall’Aurora, ed è stato giocoforza, per non perdermi nelle Tenebre, attraversare la Notte.). Arrivando in tal modo per la prima via fino alla “rotonda Verità”; iniziando poi la seconda e inoltrandosi in essa. Nel vasto e numeroso mondo perciò, un cammino più lungo di quanto un uomo possa fisicamente percorrerne nel corso di una vita, che si svolgerà, infatti, per venticinque secoli, vale a dire lungo tutto l’arco della nostra civiltà. Sarà questa la via della filosofia e della scienza, fatta di ricerche e di scoperte, che per la filosofia è terminata ai nostri giorni (È finito il ciclo iniziato da Socrate venticinque secoli fa. Dopo il superamento del nichilismo, la continuazione avverrà in altro modo, anzi è già iniziata), ma per la scienza continua ancora.

L’Essere dove è giunto seguendo la prima via, egli l’ha così visto e descritto: “Non resta ormai che pronunciarsi sulla via/ che dice che (l’essere) è. Lungo questa sono indizi/ in gran numero. Essendo ingenerato è anche imperituro,/ tutto intero, unico, immobile e senza fine./ Non mai era né sarà, perché è ora tutt’insieme,/ uno, continuo. Difatti quale origine gli vuoi cercare?/ Come e donde il suo nascere? Dal non essere non ti permetterò né/ di dirlo né di pensarlo. Infatti non si può né dire né pensare/ ciò che non è. E quand’anche, quale necessità può avere spinto/ lui, che comincia dal nulla, a nascere dopo o prima?/ Di modo che è necessario o che sia del tutto o che non sia per nulla” (I Presocratici. Testimonianze e frammenti, Parmenide, framm. 8 pag. 275, Biblioteca Universale Laterza).

Dell’iniziale esperienza lungo la seconda via, dopo aver bene avvertito che da quel momento egli interrompe il suo “discorso degno di fede e il suo pensiero attorno alla verità”, ha invece visto, raccontato e previsto così: ora “…le opinioni dei mortali impara/ a conoscere, ascoltando l’ingannevole andamento delle mie parole./ Perché i mortali furono del parere di nominare due forme,/ una delle quali non dovevano – e in questo sono andati errati –; ne contrapposero gli aspetti e vi applicarono note/ reciprocamente distinte: da un lato il fuoco etereo che è dolce, leggerissimo, del tutto identico a se stesso,/ ma non identico all’altro,/ e inoltre anche l’altro [lo posero]/ con caratteristiche opposte, [cioè] la notte senza luce, di aspetto denso e pesante./ Quest’ordinamento cosmico, apparente come esso è, io te lo espongo compiutamente,/ cosicché non mai assolutamente qualche opinione dei mortali potrà superarti (I Presocratici. Testimonianze e frammenti, Parmenide, framm. 8 pag. 276-277, Biblioteca Universale Laterza).

E la previsione l’ha così formulata: “Conoscerai l’eterea natura e quanti astri sono/ nell’etere e della pura e tersa lampada/ del sole l’opera distruttrice, e di dove derivarono;/ e apprenderai l’errabondo agire della luna dal tondo occhio/ e la sua natura; conoscerai inoltre di dove la volta celeste che tutto circuisce/ nacque e come la Necessità guidandola la costrinse/ a osservare i limiti degli astri” (I Presocratici. Testimonianze e frammenti, Parmenide, framm. 10 pag. 277-278, Biblioteca Universale Laterza).

Questo breve racconto di Parmenide, che si svolge su due piani o dimensioni e in cui c’è il passaggio dall’una all’altra, detto con poche parole chiare e distinte, vediamo ora cosa diventa nel discorso di Severino.

In un’intervista gli hanno posto questa domanda: Come si sviluppa l’argomentazione di Parmenide? E lui ha risposto così: “Secondo una prima articolazione essa suona così: se l’essere è assolutamente opposto al niente, allora la prima conseguenza è che esso è immutabile, eterno, incorruttibile, ingenerabile. Perché? Anche in questo caso, Parmenide non si limita ad affermarlo, poiché egli dice – e qui l’attenzione deve diventare massima – che se si generasse o si corrompesse, esso sarebbe stato niente e tornerebbe ad essere niente. Ma l’essere non è il niente, dunque è impossibile che sia stato niente, che torni ad essere niente; questo vuol dire che è impossibile che non sia, e dunque deve essere eterno, ingenerabile, immutabile. Si può dire che questo discorso che abbiamo esposto così alla svelta, è uno dei discorsi che devono essere messi nei tabernacoli della filosofia.

L’altra argomentazione si riferisce alla negazione del molteplice – questa è senz’altro l’interpretazione che di Parmenide danno tutti quelli che l’hanno seguito, cominciando da Empedocle, a Democrito, Platone, Aristotele, fino a Hegel. Che il molteplice non “è” vuol dire che il mondo così come ci sta davanti nella sua straordinaria ricchezza, differenza di forme, colori, di luci, di situazioni, non “è”. Anche in questo caso si arriva a questa conclusione perché è in gioco la tautologia. Vediamo come. Noi possiamo chiamare le differenze per nome: la lampada, la telecamera, gli arredamenti della stanza, poi le stelle, il cielo; possiamo semplificare e dire A, B, C, D chiamando con tali lettere le cose del mondo. Ci dobbiamo chiedere: “A”, come poi “B” e “C”, significa “essere”? Supponiamo che “A” sia il brillare delle stelle; tentiamo di lasciar parlare Parmenide: “Luce significa essere?” “No”. Questo “no” lo dice Parmenide per la prima volta, ma poi lo diranno tutti gli altri e se noi chiedessimo ad un linguista se “essere” significa luce, anche il linguista, con tutta la sua correttezza scientifica, ci direbbe che “essere” non significa “luce”. Ma allora luce non è “essere”; ma “non essere” vuol dire “ni-ente” che vuole dire “non-ente”– io amo sostenere quest’etimologia della nostra lingua – e allora “luce” è “non essere”. Ma lo stesso discorso lo possiamo dire di tutte le cose che ci stanno attorno che costituiscono il punto di riferimento della nostra vita. Ognuna di queste determinazioni della vita non significa essere e quindi è niente.

Prendiamo ora la grande tautologia che dice: “L’essere non è il niente”, e a questo punto si fa avanti la conclusione che ci riguarda – noi uomini della civiltà della tecnica – molto da vicino: dire che la luce, i colori, le cose, le case, gli uomini “sono” significa ammettere che il niente “è”. Vorrei ripetere questa cosa. Le differenze del mondo hanno un significato che non coincide con il significato dell’essere; questa non coincidenza vuol dire la loro diversità dall’essere, e cioè che sono “non essere”. Se allora l’amante o l’amico del mondo vuol dire: “il mondo è”, egli deve anche dire “il niente è”. La ragione dell’Occidente nasce qui, dall’esigenza di tenere ferme le determinazioni – potremmo dire l’esigenza di non contraddirsi. Se si afferma che il mondo molteplice è, si afferma che il niente è. Allora abbiamo questa conclusione straordinaria: Parmenide proprio per evitare che il niente sia, proprio per evitare di identificare l’essere e il niente, afferma che le cose sono niente, che le differenze sono niente; se si afferma il mondo, se si è amici del mondo si sta nella pazzia che identifica l’essere e il niente.

A questo punto abbiamo gli elementi per rispondere alla Sua domanda. Il logos, che costituisce il pensiero incontrovertibile perché si appoggia sulla tautologia dice appunto che l’avvenire non è, e che non esiste molteplicità. Qual è il significato di questa negazione? Vuol forse dire che Parmenide non vedeva il divenire e non vedeva la molteplicità? Sarebbe strano, avremmo a che fare con qualche cosa che non appartiene alla nostra esperienza; noi vediamo il mondo, vediamo il divenire e la molteplicità delle cose e ne godiamo, perché senza di esse la nostra vita non avrebbe significato. L’Oriente dice invece che la nostra vera vita è al di là del molteplice e del divenire.

Parmenide invece dice che l’essere è immutabile e semplice – semplice vuol dire non molteplice e non differenziato; in questo caso l’apparire del mondo come diveniente è molteplice e non verità, cioè è illusione, è doxa. Con una battuta direi che tutto il pensiero successivo, ma non solo filosofico, anche scientifico – e dico scientifico sapendo che questa affermazione può suonare paradossale – intende salvare il mondo da Parmenide, perché egli pone il mondo come non verità.

Ecco a confronto ciò che Parmenide ci ha raccontato della sua avventura e come Severino lo ha stravolto, mettendo sullo stesso piano quel che invece si è svolto in una successione di esperienze e conoscenze, dove c’è perfino il passaggio da un piano ad un altro che ha enorme importanza, perché è su quest’ultimo che è iniziata e si è svolta la nuova civiltà. Severino invece mette tutto assieme, il suo pensiero ha soltanto una dimensione, la sua spiegazione non ha profondità. Ne è nato un coacervo di parole, un panegirico, un gioco da sofisti, uno zibaldone, un calderone, da cui poi Severino ha tratto quel che gli serviva per la sua filosofia, la quale – egli ha detto – “chiude definitivamente i conti con il pensiero tradizionale”. Ecco a grandi linee cos’è accaduto.

Ha attinto dalla dimensione dell’Essere le sue determinazioni, soprattutto eternità, immutabilità, immobilità, e le ha applicate a tutto ciò che appare ai mortali, per cui diventano eterne, immutabili, immobili, tutte le cose. Privato l’Essere delle sue determinazioni, di esso è rimasto nulla. Infatti, Severino lo elimina. Nel suo pensiero non c’è più l’Essere. Non c’è più Dio. La morte di Dio che era soltanto un grido, con Severino è diventata sistema pubblicamente elogiato e premiato. Al suo posto ogni uomo è Dio, anzi “Superdio”, e ogni cosa è da sempre e per sempre.
Da quel cappello da prestigiatore è uscito, insomma, il contrario di quanto ha detto Parmenide: eterne, immutabili, immobili, sono tutte le cose e nulla è l’Essere.
Così ciò che Severino chiama il “nuovo pensiero” comincia con quest’assurdità: uomini siete tutti Superdei, aspettate e lo vedrete. non occorre far nulla nell’attesa.

P.S.
In poche pagine, non si può dire tutto di un problema che sta a fondamento della nostra civiltà ed è perciò determinante anche per la sua conclusione. Se non si conosce la prima la seconda rimane incomprensibile e non si può uscire dal nichilismo diventato condizione normale. Perciò io spero che qualcosa di serio e responsabile si muova. Lo spero perché si tratta dell’unica possibilità esistente, io credo, di superamento di questo stato, cui è legato il destino dell’Occidente. Heidegger ha posto il problema in questo modo: “Si tratta di decidere se l’Occidente si creda ancora capace di creare un fine di là di se stesso e della storia, oppure se preferisca abbassarsi alla conservazione e al potenziamento degli interessi economici e vitali, e accontentarsi di fare appello a ciò che è stato finora, come se fosse l’Assoluto”( Martin Heidegger, Nietzsche, Pfullingen 1961, vol. I, pag. 579). Da notare, inoltre, che la previsione di futuro ha le caratteristiche del necessario e dell’assolutamente nuovo. La necessità di un altro inizio “attira lo sguardo verso il vortice del futuro. Il ritornare alle origini, all’origine dell’essenza, è pensabile soltanto nella modalità del progredire verso il futuro dell’essenza”. (Ibidem, vol. II, pag. 656).
Credo sia proprio così. Oppure se non sarà superato l’Abisso, l’Occidente si perderà, imploderà, esploderà, muterà pian piano in cenere e faville.

Severino e la favola

7 aprile 2009

Vedere anche i precedenti scritti sull’argomento: Severino e Parmenide e Dalla sapienza alla sapienza seguendo la via filosofica.

Il Re è nudo

Il re è nudo

Ad Emanuele Severino, il filosofo di casa nostra tanto esaltato, si addice in modo mirabile la favola di Christian Andersen intitolata Il vestito nuovo dell’imperatore (H. Christian Andersen, Quaranta novelle, Ulrico Hoepli Editore, Milano 1967). La ricordo in breve per chi non l’ha più in mente nei particolari o non l’ha letta.

C’era una volta un imperatore cui piacevano immensamente i vestiti e ad essi dedicava gran parte della giornata tant’è che, “come degli altri re si dice ordinariamente: è al consiglio, di lui si diceva sempre: è nello spogliatoio”.
Un giorno arrivarono nel suo impero due tessitori che si vantavano di saper tessere la più bella stoffa che si potesse vedere al mondo, che aveva anche una mirabile proprietà: ad ogni uomo inetto o stupido essa rimaneva invisibile.
I due tessitori erano dei bricconi, ma le loro parole giunsero presto alle orecchie dell’imperatore che subito di quella stoffa s’invaghì e la ordinò. Come si diedero da fare quei due per soddisfare quel comando! Tessevano ininterrottamente ma su telai vuoti, tagliavano con grosse forbici ma solo l’aria, cucivano con l’ago senza gigliata, e chiedevano in continuazione le sete più preziose e l’oro più fine; che non finivano, come si è ben capito, a costituire la veste, ma nelle loro tasche.
Siccome l’opera sembrava non finire mai, l’imperatore pensò di mandare a vedere a che punto era il lavoro. Voleva andare lui stesso, ma lo tratteneva il timore di non riuscire a vedere la stoffa. Non poteva essere, perché non era uno sciocco né inadatto al suo mestiere d’imperatore, ma non si sa mai. Perciò “stimò più opportuno di mandare prima un altro”. Ci andò il suo “buon vecchio Ministro” che quando arrivò sul posto “sgranò tanto d’occhi ma non vide nulla”. Però “si guardò bene dal dirlo”; anzi esclamò quando gli fu vicino: è magnifica questa stoffa, è stupenda la confezione, e così riferì al suo imperatore.

Dopo di lui andò un altro “ottimo ufficiale dello Stato”, e anche lui non vedeva nulla anche se era sicuro di non essere uno sciocco. Però poteva non essere adatto al suo alto officio. Ed insinuatosi il dubbio, bisognava “almeno non lasciarlo scorgere!” e decise anche lui di vantare “la stoffa che non vedeva”.
Infine arrivò l’imperatore stesso “con il suo seguito d’eletti cortigiani, tra i quali anche i due” che erano andati in avanscoperta. “Non è vero che è proprio stupenda?” essi dissero per primi, e tutti videro anche se nulla c’era e tutti ammirarono quel vuoto. Anche l’Imperatore, che ragionò così: “Che affare è questo?, io non ci vedo nulla! Questa è grossa! Fossi mai per caso un grullo? O non fossi buono a far l’Imperatore? Sarebbe il peggio che mi potesse capitare…” “Oh, è bellissimo!” disse ad alta voce: “proprio di mio pieno gradimento”. Ed approvò soddisfatto, esaminando il telaio vuoto, perché non voleva confessare di non vedervi nulla. Tutto il seguito, che lo accompagnava, aveva un bel aguzzare gli occhi: non riusciva a vedervi più che non vi avessero veduto gli altri; e però tutti dissero con l’Imperatore: “Bellissimo, magnifico!”
In quell’occasione “concedette ai due bricconi il permesso di portare all’occhiello il nastrino di cavaliere, col titolo di Tessitori della Casa Imperiale.
Poi venne il giorno della vestizione.

I due tessitori “levavano il braccio in aria come se reggessero qualche cosa e dicevano: – Ecco i calzoni! Ecco la giubba! Ecco il mantello! – e così via”. Tolsero all’Imperatore il vestito che indossava e cominciarono a mettergli il nuovo. “Lo strinsero ai fianchi, fingendo di agganciargli qualche cosa, che doveva figurare lo strascico; e l’Imperatore si volgeva e si girava dinanzi allo specchio”. Quando si mosse, “i paggi, i quali dovevano reggere lo strascico, camminavano chini a terra, come se tenessero realmente in mano un lembo di stoffa. Camminavano con le mani tese all’aria dinanzi a sé, perché non osavano lasciar vedere di non averci nulla. E così l’Imperatore si mise alla testa del corteo solenne… e tutta la gente che era nelle strade e alle finestre, esclamava: – Mio Dio come son fuori dal comune i vestiti dell’Imperatore! Che stupendo strascico porta alla veste! Come tutto l’insieme gli torna bene!”.
Ad un tratto però s’udì la voce di un bambino: “Ma non ha niente addosso!”. “Non ha niente addosso!”, gridò allora la folla.
L’Imperatore si scosse tutto, perché anche a lui sembrava che il popolo avesse ragione; ma pensava: “Qui non c’è scampo! Qui ne va del decoro della processione se non si rimane imperterriti!”. E prese un’andatura ancora più maestosa; ed i paggi continuarono a camminare chini, reggendolo strascico che non c’era.

Questa la favola, ora la filosofia di Severino cui essa assomiglia, perché anche Severino promette meraviglie, anzi miracoli. Non la veste più bella e preziosa ad un Imperatore, ma molto di più: promette la divinità a tutti gli uomini. Anzi dice ad ognuno: un Dio già sei, anzi un Superdio. Se non appare, se ancora non lo sai, è perché c’è stato un peccato d’origine. I Greci antichi, quelli che hanno iniziato la filosofia, sono caduti in un enorme errore, in uno smarrimento profondo. Hanno detto che tutto viene dal nulla e nel nulla ritorna, invece tutto è eterno, immutabile, immobile. Ma finora è prevalsa la fede antica e anche tu ne sei vittima: ti credi mortale anziché un eterno, un Superdio. Ora però ho confutato questa falsa credenza e ho ristabilito la Verità, quella che ti ho qui comunicato.
L’origine dell’errore e della deviazione Severino l’ha trovato in Parmenide, che diventa perciò, per lui, il primo nichilista della Storia dell’Occidente, che è cominciata ufficialmente qualche decennio dopo, con Erodoto. Una Storia perciò inficiata fin da prima del suo apparire dalla fede che tutto provenga dal nulla e nel nulla ritorni.

Ritorno al tema: a ciò che hanno in comune la favola di Andersen e la filosofia di Severino.
L’una e l’altra, dunque, dichiarano risultati soprannaturali, e per arrivare ad essi anche i materiali impiegati hanno caratteristiche che non sono di questo mondo.
Quelli della favola di Andersen sono invisibili.
Quelli della filosofia di Severino sono eterni, ed è la stessa cosa, perché l’eterno non c’è nelle cose di qui, in nessuna. Neppure nelle limpide stelle. Semmai eterno è tutto, perché come dice la legge fisica della conservazione della materia e dell’energia, “nulla si crea e nulla si distrugge ma soltanto si trasforma”. Ma Severino esclude ogni mutamento. Andiamo avanti.
Nell’invisibilità delle cose che compongono la veste dell’Imperatore ci stanno tutte le qualità che gli astuti tessitori dicono che esse hanno: forme, colori, splendore, valore. Se nulla si vede, si può metterci tutto quello che si vuole.
Nell’eternità di tutte le cose e delle loro determinazioni, ci stanno la fissità, l’immutabilità, la perennità.
In Severino, inoltre, eterni sono anche i mezzi e gli strumenti, che nella favola sono invece i telai, le forbici, gli aghi, di uso comune e con le normali caratteristiche.

Ora i risultati.
Quello della favola lo sappiamo: era un inganno. L’uomo Superdio di Severino, invece, per ora è soltanto annunciato. A meno che non ci sia già qualche matto che va in giro con un cartello dove è scritto: io sono un Superdio. Sarebbe da manicomio, ma di solito ormai si lascia fare se non è pericoloso. Perciò siamo in attesa che il fenomeno appaia e sia compreso, prodotto questa volta dalla filosofia, o meglio dalla nuova filosofia che chiude “definitivamente i conti con il pensiero tradizionale” (Enciclopedia Multimediale, Rai Educational, Intervista a Severino del 16/12/1994: Nietzsche e l’eterno ritorno).
Siamo in attesa che dopo Severino qualcuno possa dire di sé convinto: sono un Superdio; perché un Superdio è sempre stato ma da questa sua natura l’hanno distolto e l’aveva dimenticata. Dovrebbe anche poterlo dimostrare se non vuol esser preso, appunto, per matto.
Quanto dobbiamo aspettare? Severino non lo dice, siamo ancora nella “Pazzia” e dovrà subentrare la “Gioia” e la “Gloria”, ma quel giorno verrà. Anzi c’è già nel nascosto, perciò per ora dobbiamo sorbirci l’ignoranza e la pena che i Greci ci hanno lasciato in eredità.

Nel frattempo verso quel risultato che, dunque, ancora non c’è, ma che è stato assicurato ad ogni uomo presente nel cerchio dell’apparire e anche a quelli che sono già apparsi e appariranno, siamo condotti da un diluvio di scritti: da oltre cento saggi, alla faccia del divenire che non c’è, perché tutto è eterno ed immutabile da sempre e per sempre, e dell’operare che non serve, perché tutto è immobile . Titoli altisonanti ci accompagnano in quest’attesa: Destino della necessità, Essenza del nichilismo, La filosofia futura, Oltre il linguaggio, Tautótes, L’anello del ritorno, La legna e la cenere, La Gloria, Oltrepassare, La necessità dell’eternità, Il muro di pietra
Vista così, la filosofia di Severino è la favola di Andersen elevata all’ennesima potenza.

Perciò viene da chiedersi: pazienza Severino, è uno solo e una rondine non fa primavera. Del suo eternismo è stato anche detto in un’intervista condotta da una psicologa, che potrebbe essere la conseguenza di un trauma giovanile: la perdita in guerra del fratello maggiore; perciò, per salvare quell’affetto, come nella favola La bella addormentata nel bosco, egli ha toccato ogni cosa con la bacchetta magica dell’immortalità e tutto è diventato immobile e immutabile per sempre. Un’opera immensa che non ha lasciato scampo a nessuna cosa in terra e in cielo.
Perciò, pazienza Severino, ma gli altri? Perché sono tanti quelli che lo seguono e lo ammirano.

Come nella favola di Andersen, non c’è nulla di concreto nell’opera del filosofo perché è costruita con materiali che non ci sono, ma sono tanti quelli che vedono o fanno finta, o s’illudono di vedere.
Ha ricevuto titoli prestigiosi: accademico dei Lincei, Cavaliere di Gran Croce, medaglia d’oro della Repubblica per la cultura.
Collaboratore del Corriere della Sera.
Già professore alla Cattolica di Milano, poi alla Ca’ Foscari di Venezia e attualmente occupa la Facoltà di Filosofia del San Raffaele di Milano.
Le grandi case editrici si contendono e stampano i suoi libri.
I giornali nazionali pubblicani i suoi articoli a iosa.
Valenti giornalisti intervistano e osannano. Le tavole rotonde e i convegni si sprecano.
Gli allievi del “grande” filosofo imperversano sulle riviste di cultura e fanno i curatori delle sezioni specializzate delle case editrici che si occupano di filosofia, perciò non è possibile entrare se non c’è il loro nulla osta.

Ma perché a pensarci mi sorprendo: cos’è il nichilismo se non tutto ciò! In questo caso, come ho già avuto modo di dire, esso è la vacuità del tutto eterno. Nulla è possibile partendo dalle premesse di Severino che sono, appunto, l’eternità di tutte le cose e delle loro determinazioni. Con lui l’incantesimo cala sul mondo e su ogni sua parte ed aspetto, sull’uomo e le sue azioni e idee e tutto si ferma, si blocca, nella posizione in cui si trovava il momento prima di quel tocco che annienta.

Non si dice sempre più frequentemente che ci troviamo nel nichilismo diventato condizione normale? Allora cosa voglio io?

Che non si faccia torto ai sapienti dell’antica Grecia e non si avesse una conoscenza distorta di loro. E siccome c’è una via d’uscita, ecco cosa desidererei: che qualcuno la guardasse. Non è una via mia: io l’ho solo completata. Si tratta di una via storica: quella dell’inizio che è giunta alla conclusione.Ecco cosa sarebbe sufficiente almeno per ora: che qualcuno riuscisse a volgersi dal nulla. E non lo dico per iscrivermi nella Gioia o nella Gloria. Lo dico perché su questi temi e problemi si continua l’uomo occidentale o si muore. O se non si muore si vegeta e si chiacchiera finché dura.