Posts Tagged ‘Empedocle’

I vantaggi

2 agosto 2009

I vantaggi che si acquistano arrivando alla fine del giro eterno in modo consapevole, perché inconsapevolmente sempre si giunge ma allora solo per ripeterlo ciecamente, instancabilmente. Quest’ultimo è l’eterno riandare delle piante, degli animali e dell’uomo. Ma ora quella fatica, simile alla condanna di Sisifo, per l’uomo appare terminata

Moebius, M.C. Escher

Moebius, M.C. Escher

Nel lungo titolo si parla di
“giro eterno”;
d’arrivo alla fine di esso in due modi: “inconsapevole” e “consapevole”;
e dei “vantaggi” che si “acquistano” giungendo nel secondo modo.
Innanzi tutto il giro eterno: cos’è?
Il titolo ci dice qualcosa di esso: è l’eterno riandare delle piante, degli animali e dell’uomo. Cui si può aggiungere, senza tema di esaurire l’elenco che appare interminabile, l’infaticabile girotondo dei corpi celesti, la girandola dei mesi e delle stagioni, le rotondità dei nidi continuamente mantenute e ripetute; il turbinio del vento quando è più potente; i gorghi dell’acqua quando è aspirata nel profondo.
Sono giri della natura che, come si sa, sono fatti d’apparizioni e nascondimenti, di atti e potenze, di veglia e sonno, di coscienza e inconscio.
Apparizioni e sparizioni sono la luna piena e quella nuova, la terra nelle tenebre e la stessa illuminata, il sole che sorge e il sole che tramonta. Apparizione è anche la costellazione che ritorna dal giro dell’eclittica e sparizione il suo contrario.
In potenza è l’uomo nel seme, in atto dalla nascita in poi, specialmente nell’età del fiorire, vale a dire nel mezzo del cammino della vita.  
Nella veglia, invece, c’è il manifestarsi della coscienza e nel sonno il suo sparire. In modo ancora più ampio e profondo, coscienza è la percezione complessiva che l’uomo ha di sé “del proprio corpo e delle proprie sensazioni, delle proprie idee, dei significati e dei fini delle proprie azioni”, sempre limitata, continuamente interrotta, immersa nel dubbio, in continua sospensione; e l’inconscio è il suo contrario, “vale a dire il complesso dei processi psichici che non giungono alla soglia della coscienza” ed esso appare senza fondo.
Come in natura, anche nella cultura il giro eterno ha molti nomi ed aspetti. Ne dico alcuni da portare come esempi.
Uno è l’Anno perfetto (Platone, Timeo, paragrafo trigesimo nono), lungo venticinquemilaottocento anni, come risulta dai calcoli della moderna astronomia. Dopo questo gran giro dei pianeti e delle stelle, i cieli ritorneranno al punto di partenza e tutto riprenderà nuovamente, hanno detto Anassimandro (Hyp., Refut. omn. haeres, I, 6, 1), Eraclito (Censorino, De die natali, 18), Empedocle (Fr. 17 Diels), Cicerone (Cicerone, Sulla natura degli dèi, libro II), Macrobio (Tacito, Dialogo degli oratori, 16). Anche la Storia umana, hanno aggiunto altri che sono arrivati a tanto in un’estensione della stessa idea: perché se i periodi planetari sono ciclici, lo sarà anche la storia universale – deduzione che appare difficilmente confutabile.
Un altro aspetto del giro: il farsi invisibile a poco a poco della santa dottrina del Buddha Sâkyamuni, fino alla scomparsa, ma ritornerà con un altro Buddha (secondo le profezie che risalgono all’inizio dell’era cristiana, ciò accadrà dopo venticinque secoli dall’Illuminazione di Buddha, e quando perfino i monaci “diventeranno forti soltanto nella lotta e nel rimprovero).
Infine l’ultimo in ordine di tempo, quello che ci riguarda più da vicino perché tocca direttamente l’uomo: è l’eterno ritorno del medesimo di Nietzsche, e chi ritorna da questo circolo non è più quello di prima. È il pastore che ha staccato con un morso la testa del serpente che gli era entrato in bocca (Così parlò Zarathustra – La visione e l’enigma, Adelphi, edizione Colli-Montinari); è l’uomo che si è liberato dal supplizio dell’eterno e cieco riandare.
Rispetto ai giri della natura che la stragrande maggioranza sta ancora conducendo nell’inconsapevolezza fra canti e pianti, in quelli della cultura l’uomo prospetta e progetta il suo personale ritorno. Ha detto lo stoico Nemesio: “Quando nel loro moto gli astri siano tornati allo stesso segno e alla latitudine e longitudine in cui ciascuno era al principio, accade nel corso dei tempi, una conflagrazione e distruzione totale; poi di nuovo si ritorna al principio e allo stesso ordine cosmico e di nuovo muovendosi gli astri ugualmente, ogni avvenimento accaduto nel precedente ciclo torna a ripetersi senza alcuna differenza. Vi sarà infatti di nuovo Socrate, di nuovo Platone e di nuovo ciascuno degli uomini con gli stessi amici e concittadini; le stesse cose credute e gli stessi argomenti discussi, e ogni città e villaggio e campagna ritornerà ugualmente. Questo ritorno universale si effettuerà non una sola volta ma molte volte e all’infinito” (De nat. Hom., 38). Ha detto Lucilio Vanini: “Di nuovo Achille andrà a Troia; rinasceranno le cerimonie e le religioni; la storia umana si ripete; nulla c’è adesso che non sia stato; ciò che è stato sarà; ma tutto questo in generale, non (come determina Platone) in particolare” (Lucilio Vanini, De admirandis naturae arcanis, dialogo 52). Ha detto David Hume: “Non immaginiamo la materia infinita come fece Epicuro; immaginiamola finita. Un numero finito di particelle non è suscettibile d’infinite trasposizioni; in una durata eterna, tutti gli ordini e posizioni possibili avverranno un numero infinito di volte. Questo mondo, con tutti i suoi particolari, perfino i più minuscoli, è stato elaborato e annichilato: infinitamente” (David Hume, Dialogues concerning natural religion, VIII).
Ha detto Goethe: “Il cerchio che l’umanità deve percorrere è abbastanza determinato, e nonostante la grande stasi prodotta dalle barbarie, essa ha già percorso questo cammino più di una volta. Se le si vuole inoltre attribuire un movimento a spirale, si può dire che essa ritorni sempre di nuovo nella regione già attraversata. In questo modo si ripetono tutte le opinioni vere e tutti gli errori” (Geschichte der Farbenlehre, tratto da Karl Löwith, Da Hegel a Nietzsche, Einaudi). Egli anche in altri modi ha espresso il ciclico ritornare: con le Madri del Faust che si trovano nella Galleria oscura”, che sono “il principio che produce e che conserva, dal quale si origina tutto ciò che ha vita e forma sulla superficie della terra. Ciò che cessa di vivere ritorna ad esse come natura spirituale, ed esse lo custodiscono fino a che trovi l’occasione di entrare in una nuova esistenza. […] Eterna metamorfosi dell’esistenza terrestre, del nascere e del crescere, del trasformarsi e del distruggersi…” (J.P. Eckermann, Gespräche mit Goethe, cit. pag. 385).
Fra l’arrivo inconsapevole e quello consapevole, dunque, c’è differenza grande: anch’essa è indicata nel titolo e si tratta di vedere in che consiste. Anzi è ciò che il titolo espressamente vuole che si sviluppi. Che finalmente si dica in modo chiaro e tondo a cosa è servita nella mia avventura – che è giunta alla consapevolezza dopo tanti precedenti tentativi nel Mito, nelle religioni, nei Misteri, nelle fiabe –, la fatica di uscire dal Labirinto alle prime luci dell’Alba, arrivare al Tramonto, continuare nel Buio fino alla Mezzanotte, attraversare l’Abisso per arrivare ad una nuova sponda della Luce, o rivedere la stessa in modo nuovo. Ciò che è già stato scritto, insomma, nel libro L’antica via dei Miti e dei Misteri – percorsa ora con in mano la lampada della conoscenza filosofica. Una Luce che così trovata e riscoperta è la fonte dei “vantaggi” di cui parla il titolo. Ecco, allora, che si arriva ad essi, ai loro nomi e alle idee chiare e distinte che li esprimono. 

Arrivo consapevole si ha quando, partiti da un inizio determinato ad esso si ritorna, dopo aver fatto esperienza di tutta la via. Nel mio caso, partito da un’immagine della chiesetta sperduta, apparsa come in sogno tanti anni prima, l’ho trovata come si suole dire in carne ed ossa, dopo un immane giro sulla terra e nel pensiero. Oppure, partito dall’inizio della civiltà occidentale – da Parmenide che ha aperto lo spazio dove l’Occidente si sarebbe riversato e da Erodoto che ha cominciato a raccontare quel viaggio –, sono arrivato alla sua fine che è la linea di Mezzanotte, raggiunta alcuni decenni fa da Heidegger e Jünger.

Assomigliano perciò gli arrivi consapevoli a quelli dei viaggi di qui, quando si ritorna in una città già vista, in luoghi già visitati, da parenti o persone amiche, di cui si conoscono gli indirizzi.  Perciò il percorso che unisce un’esistenza passata alla presente è simile a quello che collega un luogo della terra a un altro luogo, o a se stesso in un ritorno dopo un giro completo, per cui si può dire con Eraclito che “sulla circonferenza il principio e la fine sono insieme raccolti, sono lo stesso” (Eraclito, frammento 103 D.K.). Anche in questo caso la via è tracciata sulla terra, ma per andare per essa è necessario conoscerla. E prima ancora aver gambe e piedi per camminare, occhi per vedere, cultura per leggere piante e mappe e per cogliere i segnali e capirli. Insomma, anche per la via che collega le esistenze, per poter andare ci devono essere prima gli esistenti, le vie della natura tracciate nella terra e nei corpi, le luci che illuminano e riscaldano, come quella del sole a primavera che chiama piante e fiori ad apparire, come la luna che presiede alle nascite degli animali e degli uomini.
Oltre che visione di tutta la via, cosa accade ancora quando si raggiunge la fine ed essa è anche il punto da cui l’avventura è cominciata? Avviene la: coincidenza degli opposti. Coincidenza di Fine e Inizio, la prima e più evidente. Poi tutte le altre e fra esse quella uomo – donna. Essa appare la più vicina, perché ci sono suoi aspetti e prove anche qui, vale a dire in questo mondo di metà divise e contrapposte. Accade nell’innamoramento, quando una metà incontra l’altra metà e da segni misteriosi si riconoscono, come se fossero già state unite. Narra, infatti, il Mito che erano una cosa sola prima che Zeus li dividesse con la spada (In un Mito, citato da Platone, l’uomo e la donna erano all’inizio un solo corpo, di forma circolare, – e non due distinti e separati come sono oggi, che se si sentono uno solo soltanto nell’amore e per davvero lo sono un po’ solo quando si penetrano – capace quell’unica carne d’auto generarsi, e così potevano sfidare impunemente il tempo e la morte. Ma apparvero troppo potenti quei due così uniti al timoroso Zeus. Per tale motivo, prima che s’accorgessero della loro potenza e fossero presi dall’idea di scalare l’Olimpo, come avevano fatto i Giganti, egli li tagliò in due con la spada. Da quel lontano passato non solo l’uomo ha perso la Notte e la donna il Giorno, rimanendo l’uno e l’altra, così soli e staccati, una debole e inservibile metà, ma ognuna delle due parti separate con la forza cerca l’altra e ha pace solo se la trova. Ecco il perché della continua inquietudine e agitazione. Pressoché impossibile, però, il ritrovamento e ricongiungimento fra tanta lacerazione e dispersione; e poi, anche quando la ricerca sembra avere un approdo, non c’è mai la certezza che sia la metà originale quella che appare, perché tante si assomigliano, perché sembra soltanto che sia quella perduta. Poi la stragrande maggioranza s’accorge invece che non è così. Allora interviene mutuo bisogno, mutua stima, mutua comprensione e rimangono lo stesso assieme finché dura la vita; ma i più si dividono finché non incontrano un altro o un’altra. Soltanto molto raramente sono la metà che cercano: per lo più la nuova unione è un’altra illusione, un nuovo aspetto dell’inganno). Affermano le religioni che lo diventeranno ancora alla fine dei tempi, quando verrà il Regno dei cieli (In un frammento da un testo apocrifo, chiamato Il vangelo degli Egizi, conservato da Clemente Alessandrino è affermato che il Redentore, interrogato su quando sarebbe venuto il Suo regno, ha risposto: “Quando quei due [maschio e femmina] saranno uno solo, nell’esterno come nell’interno, e il maschio con la femmina non sarà né maschio né femmina”).
Dove il cammino finisce, naturalmente lì anche incomincia e si può riprendere il giro in modo consapevole questa volta. Oppure si può uscire perché in quel punto c’è anche “la Porta che divide i sentieri della Notte e del Giorno”, già nota a Parmenide che così l’ha chiamata, e ad altri.

Arrivo inconsapevole è, di converso, quello che lungo la via della natura e della Storia tocca ancora all’uomo. È quello d’ognuno che arriva alla luce del sole e della ragione ma senza saper come, seguendo le antiche strade che sono state costruite dalla specie d’appartenenza: in poche parole, ogni nascita. Anche il tratto fra nascita e morte è fatto di luci e ombre: veglia e sonno, conscio e inconscio. Luci ed ombre dalla nascita alla morte e tenebra prima e dopo: perciò le parole che contraddistinguono questa parte del percorso: non si sa da dove si viene e dove si va né chi è davvero colui che procede in tal modo. Da ciò inoltre la forma che quel tratto di via ha preso per i più: quella di un segmento o arco che comincia da un punto indeterminato e termina in un altro altrettanto sperduto e solo. Naturalmente, tutto questo ora è visto in un confronto, ed appare così in modo chiaro e distinto la differenza esistente tra il giro completo e una piccola parte di esso. Del primo si può dire: si sa da dove comincia, cos’è e dove conduce; e di chi lo percorre: nell’ambito del suo giro egli è un intero, sussistente in sé, immutabile e immobile nel suo centro. Sono arrivi inconsapevoli anche quelli della metempsicosi e reincarnazione, perché anche se si ricorda di essere già stati, però non si conosce la strada che ha portato di nuovo a rivedere le stelle. C’è in questo caso un aumento di visione e perciò di luce, ma essa non è sufficiente ad illuminare tutto il giro. La metempsicosi come appare finora assomiglia piuttosto ad un faro nella notte che s’appunta, attraversando le tenebre, su rive lontane della vita, aldilà dell’Abisso.

Il cerchio e la riga

1 marzo 2009

Novella Cantarutti, Senza titolo

Novella Cantarutti

Novella Cantarutti

Rotolo indietro
Nelle braccia che mi hanno sorretto
Come incavi di alberi grandi,
da madre in ava,
indietro
nel tempo senza storia
fino alla cuna d’acqua.
Avanti invece
sono soltanto righe
di muro, di ferro, d’asfalto
senza appoggio.

Può la poesia dire cose che altrimenti non arrivano alla parola, che altri linguaggi – quelli della prosa, per esempio, o della filosofia o della scienza – non sanno sollevare fino alla percezione? Sembra proprio di sì, e di tal natura è la breve poesia di Novella Cantarutti, che non ha titolo, ma che io chiamerei Il cerchio e la riga.
Non tutta la poesia però ha queste caratteristiche. Non le filastrocche, o quella delle sagre e delle cerimonie che suona familiare alle orecchie della maggior parte, e neppure la poesia che occupa posti importanti nella scala delle altezze perché canta sentimenti profondi, imprese mitiche, avvenimenti eccezionali.

Io anzi ne conosco poca di anticipatrice di mondi nuovi o di nuovi aspetti del medesimo. Quella di Hölderlin e Novalis, per esempio. Il primo ha visto e seguito gli Dèi in fuga nella notte santa, fino a smarrirsi; il secondo ha affrontato e indagato il regno della notte e morte per ritrovare la fidanzata Sophie, “dove quel petalo era volato” in giovanissima età. Oppure la poesia dei presocratici, da cui il pensiero filosofico è nato. Sapienza che ha preceduto il sapere razionale quel loro dire in versi.

Collocata la poesia di Novella nel posto che le spetta, vale a dire nel tempo e luogo che è il crinale fra passato e futuro in questo caso, provo ora a sviluppare quel che essa dice in modo molto breve ed enigmatico. Me lo consente, io credo, una lunga pratica in questo campo e poi quel mio accanirmi, durato una vita, su quelle righe diritte che stanno davanti, soprattutto su quella della vita. Quella che comincia, si sviluppa per un breve tratto o arco, e poi finisce e dopo non si sa. Con questa io ho combattuto fino a ridurla a un cerchio anch’essa. È la linea che ha un verso solo su cui, come si vedrà, la poesia s’appunta, forse per additare come la sibilla delfica che essa è il problema del nostro tempo, che ora dobbiamo risolvere per salvarci.

La poesia comincia, dunque, nel punto dove, come scia di nave che avanza, il passato si scioglie e scompare e dopo c’è il futuro. Ma “Rotolo indietro”, dice il primo verso, e pare che ci sia in esso anche una nota di rifiuto ad andare avanti. Chi può rotolare è cerchio o cosa rotonda ed è tale tutto ciò che in noi è natura: vale a dire il corpo e tante sue manifestazioni; e rotola, recita la poesia, in altre rotondità. Nelle braccia della madre, e da madre in ava sempre più indietro. Più indietro di ciò che è apparso come Storia più di venticinque secoli fa, prima di Erodoto, di Tucidide. Quanto prima?
Dove diceva Pitagora, che ricordava molte delle sue precedenti esistenze, e in una di esse anche il suo nome di allora: Euforbo, milite nella guerra di Troia e ucciso in battaglia sotto le mura di quella città da Menelao, re di Sparta.
Dove diceva Buddha, che la notte precedente l’illuminazione ha richiamato alla memoria “migliaia di vite come rivivendole e le ha collegate fra loro”.
Dove ha detto Ermete Trismegisto, nato tre volte in Egitto dove si è dedicato alla conoscenza, finché nell’ultima vita terrena si è illuminato, ha ricordato le sue precedenti esistenze, ha ricuperato il suo vero nome, e poi è salito al mondo superiore dov’è l’origine.
Fin dove Empedocle ricordava d’esser stato: “Un tempo io fui già fanciullo e fanciulla, arbusto, uccello e muto pesce che salta fuori del mare”.
O ancora più in giù? Forse si, “nel tempo senza storia”, afferma la poesia. Forse essa attinge anche alla profondità più grande, alla “cuna d’acqua” che è il grembo della madre, dell’ava, ma anche il fondo primordiale dove la vita sulla terra è cominciata quattro miliardi d’anni fa. Perché, come il sonno, il sogno, l’inconscio da cui arriva, non ha limiti di tempo e di spazio la poesia. Inoltre c’è somiglianza fra una “cuna” e l’altra, fra il primordiale grembo del mare e quello della donna. Il secondo è una specialità del primo.

Ed ora l’altra parte che chiamiamo futuro, quella delle “righe”, che ci appare come davanti e che stiamo conducendo fra pianti e canti. Non più il tondo ma il dritto. Ma cos’è questo dritto che viene dopo se dietro di noi tutto rotola; anche il sole, la terra, la luna, le stagioni, e tutto appare tondo e circolare? Cos’è quel dritto innaturale? Lo dice la poesia cos’è: “Righe/ di muro, di ferro, d’asfalto/ senza appoggio”. Cioè tecnica. E se grattiamo un po’ su quelle dure scorze, ecco che appare quel che sta prima di esse: la conoscenza umana, quella scientifica che ha dato numeri, ordine, misure. Poi, se s’insiste e si va più a fondo, appare la filosofia, appare la sapienza da cui la filosofia è nata e infine l’autore di questo mondo di conoscenza e tecnica. Si chiama Io. Ciò che s’è staccato in tanta parte dalla natura e mira ad aumentare la distanza; quello che è libero, si dice, che si conduce da sé. l’Io penso di Cartesio, ma anche quello di Kant, e poi l’Io assoluto di Fichte, Schelling, Hegel, che per loro è anche Dio.
Ma è pure la nostra povertà più grande; ce ne siamo accorti soprattutto nel secolo appena trascorso, funestato da due guerre mondiali e da campi di sterminio. Un Io che ci fa intendere la morte e ce la pone sempre davanti, ma non arriva a darci la vita oltre i limiti concessi dalla natura; un Io che ci apre all’immortalità ma essa è come un miraggio nel deserto.
Le “righe”, dunque, sono le opere dell’uomo, le conoscenze che le hanno prodotte, la concezione lineare del tempo che le accompagna, dritta come un fuso, ma “senza appoggio”. Nessun sostegno per loro come invece l’hanno i corpi celesti che circolano, ritornano al punto da dove sono partiti, coincide la fine con l’inizio e mai non cadono.
La riga è la conoscenza che abbiamo di noi stessi, che è limitata al tempo della vita, alla parte diurna di essa. Può andare anche oltre, anche a ciò che hanno escogitato gli altri in pensieri ed opere e al cammino comune compiuto in un luogo e tempo determinati. Per esempio quello degli italiani nella loro patria o assieme ad altri popoli in Occidente. Ma sempre riga rimane.

La conclusione la poesia non la dice, ma l’addita. Perché deriva dalle altre due. Se il futuro è “riga”, basta piegarla. Affinché, come dice il TAO, “allontanarsi significhi tornare”; simile a quel che ha detto Hegel: “L’andare innanzi è un tornare indietro, al fondamento, all’originario e al vero, dal quale ciò con cui si è cominciato dipende ed è, di fatto, prodotto”. Perché, come ha detto Goethe, “Più si conosce e più si sa/ tanto più si riconosce che tutto in circolo ruoterà”.
Dietro, infatti, solo così sono le righe: piegate, arcuate, a tornanti. Il cielo è concavo, i corpi celesti sono tondi, la donna è curve e circonferenze innumerevoli. E la stessa cosa sarà davanti.

Piegare la riga, torcerla, finché non ritorna dove è cominciata, questa è la soluzione del problema: cosa più facile da dire, però, che da fare. Io ci ho messo cinquant’anni per riuscirci e ho dovuto superare prove immani: uscire la Labirinto, attraversare l’Abisso, scoprire il segreto della Porta per poterla aprire, e attraversare quella soglia, e mi ha aiutato il Cielo. Ma non sarei ugualmente riuscito nel mio intento se non c’era la filosofia, tutta quanta, dalla sua Aurora avvenuta venticinque secoli fa nell’antica Grecia Fino al Tramonto del secolo scorso e alla Notte e Mezzanotte degli ultimi decenni. Fino a tal punto mi ha accompagnato la filosofia, e le ultime orme che ho seguito sono state quelle di Schopenhauer, Nietzsche, Heidegger, Freud, Jung, Jünger. Poi per il superamento dell’ultima parte, dalla Mezzanotte in poi, dove provando a scendere per poi risalire non si trova il fondo, ho fatto tutto da solo usando lo stratagemma che mi ha dato la filosofia, ponendo la traccia di quel Ponte sospeso sull’Abisso che potrebbe diventare un capolavoro della conoscenza umana.
In tal modo la riga si è incurvata, è diventata un arco e un cerchio, e “in una circonferenza fine e principio stanno assieme, sono lo stesso”.
Ma questa è una lunga storia ed io mi fermo. Dico soltanto che anche la via della conoscenza che appariva diritta, ora non lo è più. Ma questa è ancora cosa segreta e nascosta, quasi nessuno ancora la sa.