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Friedrich Nietzsche e l’uscita dal cerchio dell’eterno ritorno

6 marzo 2010

Indice completo

A. Eterno ritorno.
B. Origini storiche dell’eterno ritorno di Nietzsche.
C. Dove e quando l’eterno ritorno si è ripresentato a Nietzsche.
D. I sentimenti che ha manifestato, intensi, numerosi, mutevoli, quanto l’idea dell’eterno ritorno lo ha colto, ci dicono che esso non è stato soltanto il ripresentarsi casuale di una dottrina nei modi in cui è stata formulata nell’antichità, ma “davvero” un ritorno che è arrivato alla memoria e al sentimento in quel momento e in quel luogo.
E. Come dottrina dell’eterno ritorno ripescata dalla natura e dalla cultura, sarebbe stata altrimenti soltanto un’ennesima ripetizione di cicli chiusi ed immutabili, vale a dire nulla di nuovo, e Nietzsche stesso n’era conscio.
F. In questa veste, vale a dire nei modi della natura e della pura e semplice ripetizione eterna, i cicli erano avversati da molti e dallo stesso Nietzsche.
G. C’è da dire però che non era la prima volta che qualcosa di nuovo accadeva nell’eterno roteare che porta uomini alla ribalta, a loro insaputa, e nello stesso modo li toglie. Ci sono state uscite e risvegli anche prima del tentativo di Nietzsche, ma non era nota la via, non erano calcolati quei percorsi, e perciò apparivano eccezionali o casuali i ritorni.
H. Affidiamoci ora al racconto di Nietzsche esposto nel capitolo “la visione e l’enigma” del libro Così parlò Zarathustra. È il racconto dell’ultima parte del cammino nella notte, da cui arriva fino alla “Mezzanotte”, al “portone carraio”, alla “visione” del pastore che con un morso stacca la testa del serpente che gli si era infilato in bocca. E così “liberato” balza in piedi “circonfuso di luce”.
I. Fino a quel punto (prima che il nano gli saltasse giù dalle spalle dov’era accoccolato e prima dell’apparizione del portone carraio), il cammino è quello di sempre: un eterno e cieco riandare. Poi l’improvviso alleggerimento dal “peso più grande”, e la “visione”. E incomincia la parte mai recitata prima dell’ “eterno ritorno dello stesso”.
J. Alleggerimento e apparizione del portone carraio non sarebbero però bastati per uscire. Era necessario aprirlo e ciò avvenne  in una “visione” simile ad un sogno: la visione del “pastore” che si libera dal serpente che lo stava soffocando staccandogli la testa con un morso e balza in piedi “non più pastore, non più uomo”. È la nascita dell’oltreuomo.
K. Nietzsche racconta la “visione” ai suoi animali: il serpente e l’aquila, che impersonano i circoli eterni ed immutabili della natura. Ma essi, come già il nano, si rivoltano contro e lo minacciano.
L. Alcune interpretazioni insufficienti o fallaci, dell’eterno ritorno di Nietzsche.
M. Perciò ecco cosa l’eterno ritorno di Nietzsche non è.
N. Uno sguardo su ciò che invece è.
P.S.

Henri Matisse, La danza (1909)

Prima Parte

A
Eterno ritorno

Ritorno: tornare di nuovo nel luogo in cui si è già stati o da cui si era partiti.
Perciò esso implica che lo si riconosca quando all’improvviso riappare. Altrimenti non c’è ritorno, ma si è “gettati” a nostra insaputa in un posto sconosciuto, mai visto prima; ciò che capita normalmente e comunemente quando si nasce. Poi, durante il soggiorno obbligato, qualche dubbio sorge davanti a certi luoghi, aspetti, persone, perché a volte si esclama sorpresi e meravigliati: questo l’ho già visto, non è un’immagine nuova, quella persona l’ho già conosciuta. Cosa comune, persino ovvia, quando ciò succede nel corso di una vita, anche se il fatto si ripete dopo lungo tempo, ma nell’eterno ritorno in gioco non c’è più soltanto un’esistenza con i suoi limiti, perché ad una sola non spetta l’eternità.
L’eterno ritorno allora è molto di più di una comune e limitata ripetizione, come i compleanni, gli anniversari o altre feste periodiche. Va ben oltre i casi che accadono in una vita quando si vogliono rivedere luoghi, cose, persone: non si torna un’altra volta o poche volte, ma da sempre e per sempre.
Così il ritorno di Nietzsche, vale a dire eterno.

B
Origini storiche dell’eterno ritorno di Nietzsche

Dobbiamo andare molto indietro nel tempo per trovare l’origine dell’eterno ritorno di Nietzsche, perché non è uno nuovo ma quello di sempre. Nuovo è ora il modo di vederlo: con gli occhi della filosofia. Anche con queste sembianze esso ha tanti anni: è cominciato nel quinto secolo a. C. Un po’ prima che la filosofia apparisse perciò, se, come ormai è noto a tutti, si considera Socrate il primo filosofo.
Coloro che hanno ideato e poi dato il via a questo giro sono stati i sapienti che hanno preceduto di pochi decenni i filosofi: Parmenide ed Eraclito soprattutto, come Nietzsche stesso ha riconosciuto. “La dottrina dell’eterno ritorno − egli ha detto − cioè del movimento circolare, assoluto e ripetuto all’infinito di tutte le cose – questa dottrina di Zarathustra potrebbe in fondo essere già stata insegnata anche da Eraclito. Perlomeno ne reca tracce la Stoa, che ha ereditato da Eraclito quasi tutte le sue concezioni fondamentali” (Nietzsche, Ecce Homo, Newton & Compton, 1978, pag. 61). Ed è proprio così: là sta l’inizio del circolo filosofico e poi la filosofia si è mossa seguendo quelle indicazioni che segnavano una direzione e una meta.
Una breve parentesi: Nietzsche ha posto Eraclito come precursore del suo eterno ritorno. Io, che non riesco a separare i due, gli ho messo accanto Parmenide. Perché, se lui non parla di giro eterno? Ma è lui che ha cominciato proprio quello della filosofia e ha percorso di esso la prima parte e il resto l’ha indicato. Questo ci dice il suo poemetto Sulla natura. Chiusa la parentesi, perché chi ci segue su queste pagine, queste cose le sa già e per gli altri sono un invito a cercarle o a chiederle.
La prima metà dell’immenso cerchio, quella diurna, ha richiesto ventitré secoli di cammino, da Socrate fino a Hegel, e dopo è cominciato il tratto nella Notte. È stato Schopenhauer il primo di questa nuova fase e Nietzsche che viene dopo di lui si trovava perciò sulla metà tenebrosa quando ha scritto Così parlò Zarathustra, presso una pietra miliare di essa, la Mezzanotte, che segna la fine del cammino, il confine dove fine e inizio coincidono.
Senza quella vicinanza, non ci sarebbe stato l’improvviso e prorompente sorgere del sentimento dell’eterno ritorno, io credo; la quale, se per Nietzsche ha avuto l’aspetto di maligno e solitario sentiero della notte, che ha dovuto percorrere prima di giungere fino al confine e al “portone carraio”, per l’Occidente è fine della Storia, Tramonto e Notte di una civiltà. L’eterno ritorno nei modi della filosofia appare nel suo sviluppo e in tutte le sue implicazioni solo in quel momento, ed esso coincide con quello dell’antica partenza, anzi è lo stesso. Arrivando, Nietzsche ha chiuso e il cerchio intero è apparso. Poi c’è il pensiero dell’oltreuomo.
Ciò significa anche che Nietzsche ha trascorso la sua vita nella posizione dove Fine, Principio, Uscita sono lo stesso: in quella zona o presso ad essa. Un punto ignoto alla filosofia prima di lui ma noto nella dimensione della sapienza. Ben noto a Parmenide che quel giro, come ho detto prima, l’ha iniziato.

C
Dove e quando l’eterno ritorno si è ripresentato a Nietzsche

Il sentimento di quest’eterno ritorno di seconda specie, vale a dire con prospettive che quelli del mito, dei misteri, delle religioni, non avevano, è giunto a Nietzsche durante una passeggiata sui monti dell’Engadina, davanti ad un enorme masso erratico. Così ha raccontato quel momento. “Quel giorno andavo attraverso i boschi, costeggiando il lago di Silvaplana; mi fermai presso un poderoso e torreggiante blocco piramidale non lontano da Sulei. Quel pensiero mi venne allora” (Ivi, pag. 74).
Fu un ispirazione nel senso che egli ha poi così spiegato: “C’è qualcuno, che alla fine del XIX secolo abbia un’idea chiara di ciò che i poeti delle epoche forti chiamavano ispirazione? Se non è così voglio descriverla io. – Per quanto minimo sia il residuo di superstizione che si conserva in sé, non si riesce, in realtà, ad evitare la convinzione di essere semplici incarnazioni, semplici strumenti di voci altrui, semplici medium di forze superiori. Il concetto di rivelazione, nel senso che all’improvviso, con indicibile sicurezza e finezza, un qualcosa si fa visibile, udibile, un qualcosa che sconvolge e travolge, fin nel profondo, questo concetto descrive semplicemente il dato di fatto. Si ode, non si cerca; si prende, non si chiede chi offre; come una folgore si accende un pensiero, per necessità, in una forma priva di tentennamenti, − io non ho mai avuto scelta. Un entusiasmo la cui mostruosa tensione si scioglie in un fiume di lacrime nel quale il passo si fa involontariamente ora precipitoso, ora lento; un totale esser-fuori-di-sé con la coscienza più chiara di un numero infinito di brividi sottili e d’irrigazioni fino alla punta dei piedi; una profondità di gioia nella quale il colmo del dolore e delle tenebre non agisce come contrasto, ma come voluto, come provocato, come un colore necessario all’interno di una sovrabbondanza di luce; un istinto di rapporti ritmici che si distende in ampi spazi di forme – la durata, il bisogno di un ritmo ampio e teso è quasi la misura della violenza dell’ispirazione, una sorta di elemento equilibratore rispetto alla sua pressione e tensione… Tutto avviene in modo assolutamente involontario, ma come in una tempesta di sentimenti di libertà, di indeterminatezza, di potenza, di divinità… L’involontarietà dell’immagine, della metafora è il dato più notevole; non ci si rende conto di che cosa sia un’immagine, che cosa una metafora, tutto si offre come la più prossima, la più giusta, la più semplice espressione. Sembra veramente, per ricordare le parole di Zarathustra, che le cose stesse si avvicinino e si offrano alla metafora. “Qui tutte le cose giungono carezzevoli al tuo discorso e ti blandiscono: poiché vogliono galoppare sulle tue spalle. Qui, ad ogni metafora, tu galoppi verso una verità. Qui tutte le parole dell’essere e gli scrigni delle parole si spalancano per te; qui ogni essere vuole diventare parola, ogni divenire vuol imparare a parlare da te. Questa è la mia esperienza dell’ispirazione; non dubito che bisogna ripercorrere secoli all’indietro per trovare qualcuno che possa dirmi ‘è anche la mia’” (Ivi, pag. 76-77).
Almeno venticinque secoli all’indietro, fino ad Eraclito, Parmenide e gli altri presocratici, dunque.
Poi, lo stato d’animo di quella rivelazione l’ha esposto anche in una lettera inviata all’amico Peter Gast: “Sul mio orizzonte salgono pensieri quali ancora io non conobbi mai, (aveva avuto fulminea e allucinante l’idea madre dello Zarathustra, la concezione dell’eterno ritorno. Il fatto si trovò annotato su un foglietto: “Al principio dell’agosto 1881, a Sils-Maria, a 6000 piedi sopra il livello del mare, e ancora molto più alto su tutte le cose umane”) ma di ciò per adesso non voglio che nulla trapeli; voglio tenere me stesso in una quiete inalterabile. Bisogna che io viva ancora qualche anno. Oh amico, talora mi passa per la testa che io vivo una vita pericolosissima, e che appartengo a quella specie di macchine che possono esplodere! L’intensità dei miei sentimenti mi fa rabbrividire e ridere – già un paio di volte non potei lasciare la camera per la ridicola ragione che i miei occhi erano tutti arrossati – e perché? Tutte e due le volte, la vigilia, durante i miei vagabondaggi, avevo troppo pianto, e non già lacrime sentimentali, ma lacrime di giubilo; e piangendo cantavo, dicevo follie, pieno della nuova visione che si è manifestata a me prima che a tutti gli altri mortali” (Lettera a Peter Gast da Sils-Maria del 14 agosto 1881. Vedi Epistolario, a cura di Barbara Allason, Einaudi).
Dopo la “rivelazione” è cominciata la stesura di Così parlò Zarathustra.

D
I sentimenti che ha manifestato, intensi, numerosi, mutevoli, quanto l’idea dell’eterno ritorno lo ha colto, ci dicono che esso non è stato soltanto il ripresentarsi casuale di una dottrina nei modi in cui gli antichi l’hanno formulata, ma invece “davvero” un ritorno che è arrivato alla memoria e al sentimento in quel momento e in quel luogo

Anche in seguito, nell’esporla a Lou Salomé, che del filosofo è stata compagna d’interminabili scambi d’idee e confidenze, quella che lui amò senza misura ma senza speranza, c’erano sofferenza, passione, viva commozione, entusiasmo, che non andavano d’accordo con il puro e semplice ripresentarsi di un’antica dottrina. Così lei riferisce uno di quei momenti: “Non potrò mai dimenticare le ore in cui me lo confidò per la prima volta come un segreto, come qualcosa di fronte alla cui dimostrazione e conferma egli provava un orrore indicibile: ne parlava soltanto con voce sommessa e con tutti i segni del più profondo sgomento. E Nietzsche, in effetti, soffriva così profondamente della vita che la certezza del suo eterno ritorno doveva avere per lui qualcosa di raccapricciante” (Lou Andreas-Salomé, Vita di Nietzsche, Editori Riuniti, pag. 27). Ma c’erano anche, come abbiamo visto, “lacrime di giubilo”, che anche Salomé ha visto e annotato. Pena e spavento, perciò, per un’esistenza ritornante senza senso e scopo; ma anche segreto gaudio per la fine del “peso più grande” e per la “visione” che si andavano delineando, vicino ormai com’era all’uscita dal cerchio.
Perché, prima del suo arrivo davanti al portone carraio, c’è stata una lunga oscillazione in Nietzsche fra l’eterno ritorno classico e quello che sarebbe diventato visibile di lì a poco.

E
Come dottrina dell’eterno ritorno ripescata dalla natura e dalla cultura, sarebbe stata altrimenti soltanto un’ennesima ripetizione di cicli chiusi ed immutabili, vale a dire nulla di nuovo, e Nietzsche stesso ne era conscio

Per prima cosa, l’eterno ritorno è nella natura, è la natura. Tutto ritorna: il sole dopo la notte, la primavera dopo l’inverno, la veglia dopo il sonno.
In un ritorno eterno delle cose, in periodi esattamente misurati, le costellazioni riappaiono sulla loro orbita, e un giorno – molto, molto tempo dopo – si ritroveranno tutte assieme al punto dal quale erano partite. La moderna astronomia ha stabilmente assegnato a questo ciclo la dimensione di venticinquemilaottocento anni. Dopo questo gran giro dei pianeti e delle stelle, i cieli ritorneranno al punto di partenza e tutto riprenderà nuovamente. Questo ciclo Platone l’ha chiamato Anno perfetto.
Poi, nella cultura, l’eterno ritorno è dottrina antichissima presente nelle religioni, nei miti, nei misteri, nella sapienza, nella poesia, nella filosofia del Giorno. Dappertutto, insomma.
Faceva parte delle dottrine segrete degli antichi Egizi.
L’Induismo e le altre religioni d’Oriente si basano su di essa, così pure i Misteri dell’antica Grecia, quelli d’Eleusi, di Dioniso, poi i Misteri romani del tempio, le dottrine cabalistiche segrete degli Ebrei, ed era presente anche nel Cristianesimo delle origini.
Nel Bhagavad Gita, l’incoraggiamento dato da Krishna ad Argiuna prima della battaglia suona così: “Come un uomo, gettando via indumenti usati, ne prende di nuovi, così l’abitatore del corpo, liberandosi dei corpi usati, entra in altri che sono nuovi. Le armi non l’offendono, né il fuoco lo brucia, né le acque lo bagnano, né il vento lo disseca. Intaccabile, incombustibile e non suscettibile di essere bagnato né disseccato; perpetuo, onnipervadente, stabile, inamovibile, antico, non manifesto, impensabile, immutabile: così è chiamato; perciò, conoscendolo come tale, tu non dovresti affliggerti”.
Anche la chiesa cattolica non ha mai condannato ufficialmente questa dottrina. Non l’approva, non ne parla, perché afferma che la vita terrena è unica come prova sulla terra, ma ci sono molti passi del Nuovo Testamento che la presentano e l’affermano. Per esempio dove Giovanni Battista è considerato come una reincarnazione di Elia, o come quando i discepoli chiedono a Gesù se il nato-cieco soffra per il peccato dei suoi genitori o per qualche suo peccato precedente. Essa era inoltre insegnata da eminenti Padri della Chiesa, e Ruffino (lettera ad Attanasio) dice che la credenza in essa era comune fra i primi Padri. Erigena e Bonaventura, la sostenevano anche nel Medioevo.
Lo Zhoar parla delle anime come soggette a trasmigrazione: “Tutte le anime sono soggette a evoluzione, ma gli uomini non conoscono le vie del Santissimo, − che sia benedetto! – essi sono ignoranti del modo in cui furono giudicati in tutti i tempi, sia prima di venire in questo mondo sia quando l’hanno lasciato” (Zohar II, foll 99. Citato nella Qabbalah di Myer, pag. 198).
È la teoria delle alternanze di Empedocle.
L’eterno ritorno dei Pitagorici.
Dopo la nascita della filosofia, Platone l’ha così espressa: “conoscere e ricordare”, la qual cosa implica che si sia già stati.
Riteneva inoltre che come l’Anno perfetto era la Storia universale, perché se i periodi planetari sono ciclici, non si può escludere che lo sia anche tale Storia – un’estensione che non si può escludere.
E con la Storia ritornano gli uomini e le cose. Ognuno sarà di nuovo sulla scena, ognuno farà e penserà e soffrirà nuovamente ciò che ha fatto, pensato e sofferto nella sua prima vita, migliaia e milioni di anni addietro. Edipo ucciderà ancora una volta suo padre e si unirà con sua madre. I grandi imperi torneranno a fiorire e decadere in eterno.
Dopo Platone, per una numerosa schiera di filosofi la metempsicosi, legata all’eterno ritorno, è diventata la più razionale teoria dell’immortalità personale. Ne cito alcuni: Plotino, Swedenborg, Böhme, Giordano Bruno, Campanella, Lucilio Vanini, Schopenhauer, Lessing, Hume, Hegel, Leibniz, Herder, Fichte, Kant, Schelling, Lessing, Cudsworth, Mazzini, Severino. Fra i pensatori inglesi, i Platonici di Cambridge, la difendevano con molta scienza e acume.
Ha detto David Hume: “Non immaginiamo la materia infinita come fece Epicuro; immaginiamola finita. Un numero finito di particelle non è suscettibile d’infinite trasposizioni; in una durata eterna, tutti gli ordini e posizioni possibili avverranno un numero infinito di volte. Questo mondo, con tutti i suoi particolari, perfino i più minuscoli, è stato elaborato e annichilato: infinitamente” (David Hume, Dialogues concerning natural religion, VIII).
Ha detto Lucilio Vanini: “Di nuovo Achille andrà a Troia, rinasceranno le cerimonie e le religioni, la storia umana si ripete; nulla c’è adesso che non sia stato; ciò che è stato sarò; ma tutto questo in generale; non (come determina Platone) in particolare”.
Come Platone anche Nietzsche, nel suo andirivieni fra l’eterno ritorno classico e quello che stava bussando alla sua porta: “Uomo, tutta la tua vita è una clessidra che viene girata e rigirata, il cui contenuto scorrerà un numero infinito di volte, separate dall’intervallo di un lungo minuto di tempo, fino a quando il corso ciclico dell’universo non raccolta tutte le condizioni dalle quali sei nato. Ritroverai allora ciascuno dei tuoi dolori e delle tue gioie, i tuoi amici e nemici, le tue speranze e i tuoi errori, il più piccolo filo d’erba e il più piccolo raggio di sole, e tutto l’insieme di tutte le cose. Questo anello, di cui sei solo un granellino, brillerà perpetuamente. E in ciascuno dei cicli successivi della storia umana vi è sempre un’ora in cui, per un uomo isolato, poi per molti, infine per tutti sorge il pensiero più potente di tutti, quello dell’Eterno Ritorno di ogni cosa: ogni volta suona allora per l’umanità l’ora del “mezzogiorno” (Nietzsche, La volontà di potenza, 323).
Per Emanuele Severino ogni ente (stella, fiore, animale, uomo…), ogni suo aspetto e ogni suo atto, sono eterni e nell’eterno ciclo dell’apparire e scomparire, se scompaiono riappariranno, se appaiono scompariranno, in un ininterrotto su e giù.
Poi i poeti e scrittori antichi e nuovi: Virgilio, Ovidio, Walter Scott, Goethe, Poe, Charles Dickens, Walt Whitman, Borges.
Queste però sono solo alcune punte degli iceberg. Sotto di esse le innumerevoli esperienze e i ricordi di tanti meno celebri e vicini di casa, perché quasi tutti hanno incontrato persone o cose che hanno risvegliato ricordi di un passato che non credevano esistesse e che esprimono con le parole: ho già vissuto questo momento, ho già visto questo luogo, ho già incontrato questa persona; soltanto che i ricordi che s’accendono nel sentimento durano poco o dopo tanto non sai più se son tuoi o strani segni che affiorano da abissi.
Cosa significa perciò eterno ritorno: significa che le morti non spezzano la catena della memoria, come non la spezzano i sonni della nostra vita presente.

[Continua]

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A Eterno ritorno.

Ritorno: tornare di nuovo nel luogo in cui si è già stati o da cui si era partiti.

Perciò esso implica che lo si riconosca quando all’improvviso riappare. Altrimenti non c’è ritorno, ma si è “gettati” a nostra insaputa in un posto sconosciuto, mai visto prima; ciò che capita normalmente e comunemente quando si nasce. Poi, durante il soggiorno obbligato, qualche dubbio sorge davanti a certi luoghi, aspetti, persone, perché a volte si esclama sorpresi e meravigliati: questo l’ho già visto, non è un’immagine nuova, quella persona l’ho già conosciuta. Cosa comune, persino ovvia, quando ciò succede nel corso di una vita, anche se il fatto si ripete dopo lungo tempo, ma nell’eterno ritorno in gioco non c’è più soltanto un’esistenza con i suoi limiti, perché ad una sola non spetta l’eternità.

L’eterno ritorno allora è molto di più di una comune e limitata ripetizione, come i compleanni, gli anniversari o altre feste periodiche. Va ben oltre i casi che accadono in una vita quando si vogliono rivedere luoghi, cose, persone: non si torna un’altra volta o poche volte, ma da sempre e per sempre.

Così il ritorno di Nietzsche, vale a dire eterno.

B Origini storiche dell’eterno ritorno di Nietzsche.

Dobbiamo andare molto indietro nel tempo per trovare l’origine dell’eterno ritorno di Nietzsche, perché non è uno nuovo ma quello di sempre. Nuovo è ora il modo di vederlo: con gli occhi della filosofia. Anche con queste sembianze esso ha tanti anni: è cominciato nel quinto secolo a. C. Un po’ prima che la filosofia apparisse perciò, se, come ormai è noto a tutti, si considera Socrate il primo filosofo.

Coloro che hanno ideato e poi dato il via a questo giro sono stati i sapienti che hanno preceduto di pochi decenni i filosofi: Parmenide ed Eraclito soprattutto, come Nietzsche stesso ha riconosciuto. “La dottrina dell’eterno ritorno − egli ha detto − cioè del movimento circolare, assoluto e ripetuto all’infinito di tutte le cose – questa dottrina di Zarathustra potrebbe in fondo essere già stata insegnata anche da Eraclito. Perlomeno ne reca tracce la Stoa, che ha ereditato da Eraclito quasi tutte le sue concezioni fondamentali” (Nietzsche, Ecce Homo, Newton & Compton, 1978, pag. 61). Ed è proprio così: là sta l’inizio del circolo filosofico e poi la filosofia si è mossa seguendo quelle indicazioni che segnavano una direzione e una meta.

Una breve parentesi: Nietzsche ha posto Eraclito come precursore del suo eterno ritorno. Io, che non riesco a separare i due, gli ho messo accanto Parmenide. Perché, se lui non parla di giro eterno? Ma è lui che ha cominciato proprio quello della filosofia e ha percorso di esso la prima parte e il resto l’ha indicato. Questo ci dice il suo poemetto Sulla natura. Chiusa la parentesi, perché chi ci segue su queste pagine, queste cose le sa già e per gli altri sono un invito a cercarle o a chiederle.

La prima metà dell’immenso cerchio, quella diurna, ha richiesto ventitré secoli di cammino, da Socrate fino a Hegel, e dopo è cominciato il tratto nella Notte. È stato Schopenhauer il primo di questa nuova fase e Nietzsche che viene dopo di lui si trovava perciò sulla metà tenebrosa quando ha scritto Così parlò Zarathustra, presso una pietra miliare di essa, la Mezzanotte, che segna la fine del cammino, il confine dove fine e inizio coincidono.

Senza quella vicinanza, non ci sarebbe stato l’improvviso e prorompente sorgere del sentimento dell’eterno ritorno, io credo; la quale, se per Nietzsche ha avuto l’aspetto di maligno e solitario sentiero della notte, che ha dovuto percorrere prima di giungere fino al confine e al “portone carraio”, per l’Occidente è fine della Storia, Tramonto e Notte di una civiltà. L’eterno ritorno nei modi della filosofia appare nel suo sviluppo e in tutte le sue implicazioni solo in quel momento, ed esso coincide con quello dell’antica partenza, anzi è lo stesso. Arrivando, Nietzsche ha chiuso e il cerchio intero è apparso. Poi c’è il pensiero dell’oltreuomo.

Ciò significa anche che Nietzsche ha trascorso la sua vita nella posizione dove Fine, Principio, Uscita, sono lo stesso: in quella zona o presso ad essa. Un punto ignoto alla filosofia prima di lui ma noto nella dimensione della sapienza. Ben noto a Parmenide che quel giro, come ho detto prima, l’ha iniziato.

C Dove e quando l’eterno ritorno si è ripresentato a Nietzsche.

Il sentimento di quest’eterno ritorno di seconda specie, vale a dire con prospettive che quelli del mito, dei misteri, delle religioni, non avevano, è giunto a Nietzsche durante una passeggiata sui monti dell’Engadina, davanti ad un enorme masso erratico. Così ha raccontato quel momento. “Quel giorno andavo attraverso i boschi, costeggiando il lago di Silvaplana; mi fermai presso un poderoso e torreggiante blocco piramidale non lontano da Sulei. Quel pensiero mi venne allora” (Ivi, pag. 74).

Fu un ispirazione nel senso che egli ha poi così spiegato: “C’è qualcuno, che alla fine del XIX secolo abbia un’idea chiara di ciò che i poeti delle epoche forti chiamavano ispirazione? Se non è così voglio descriverla io. – Per quanto minimo sia il residuo di superstizione che si conserva in sé, non si riesce, in realtà, ad evitare la convinzione di essere semplici incarnazioni, semplici strumenti di voci altrui, semplici medium di forze superiori. Il concetto di rivelazione, nel senso che all’improvviso, con indicibile sicurezza e finezza, un qualcosa si fa visibile, udibile, un qualcosa che sconvolge e travolge, fin nel profondo, questo concetto descrive semplicemente il dato di fatto. Si ode, non si cerca; si prende, non si chiede chi offre; come una folgore si accende un pensiero, per necessità, in una forma priva di tentennamenti, − io non ho mai avuto scelta. Un entusiasmo la cui mostruosa tensione si scioglie in un fiume di lacrime nel quale il passo si fa involontariamente ora precipitoso, ora lento; un totale esser-fuori-di-sé con la coscienza più chiara di un numero infinito di brividi sottili e d’irrigazioni fino alla punta dei piedi; una profondità di gioia nella quale il colmo del dolore e delle tenebre non agisce come contrasto, ma come voluto, come provocato, come un colore necessario all’interno di una sovrabbondanza di luce; un istinto di rapporti ritmici che si distende in ampi spazi di forme – la durata, il bisogno di un ritmo ampio e teso è quasi la misura della violenza dell’ispirazione, una sorta di elemento equilibratore rispetto alla sua pressione e tensione … Tutto avviene in modo assolutamente involontario, ma come in una tempesta di sentimenti di libertà, di indeterminatezza, di potenza, di divinità …L’involontarietà dell’immagine, della metafora è il dato più notevole; non ci si rende conto di che cosa sia un’immagine, che cosa una metafora, tutto si offre come la più prossima, la più giusta, la più semplice espressione. Sembra veramente, per ricordare le parole di Zarathustra, che le cose stesse si avvicinino e si offrano alla metafora. “Qui tutte le cose giungono carezzevoli al tuo discorso e ti blandiscono: poiché vogliono galoppare sulle tue spalle. Qui, ad ogni metafora, tu galoppi verso una verità. Qui tutte le parole dell’essere e gli scrigni delle parole si spalancano per te; qui ogni essere vuole diventare parola, ogni divenire vuol imparare a parlare da te. Questa è la mia esperienza dell’ispirazione; non dubito che bisogna ripercorrere secoli all’indietro per trovare qualcuno che possa dirmi ‘è anche la mia’” (Ivi, pag. 76-77).

Almeno venticinque secoli all’indietro, fino ad Eraclito, Parmenide e gli altri presocratici, dunque.

Poi, lo stato d’animo di quella rivelazione l’ha esposto anche in una lettera inviata all’amico Peter Gast: “Sul mio orizzonte salgono pensieri quali ancora io non conobbi mai, (aveva avuto fulminea e allucinante l’idea madre dello Zarathustra, la concezione dell’eterno ritorno. Il fatto si trovò annotato su un foglietto: “Al principio dell’agosto 1881, a Sils-Maria, a 6000 piedi sopra il livello del mare, e ancora molto più alto su tutte le cose umane”) ma di ciò per adesso non voglio che nulla trapeli; voglio tenere me stesso in una quiete inalterabile. Bisogna che io viva ancora qualche anno. Oh amico, talora mi passa per la testa che io vivo una vita pericolosissima, e che appartengo a quella specie di macchine che possono esplodere! L’intensità dei miei sentimenti mi fa rabbrividire e ridere – già un paio di volte non potei lasciare la camera per la ridicola ragione che i miei occhi erano tutti arrossati – e perché? Tutte e due le volte, la vigilia, durante i miei vagabondaggi, avevo troppo pianto, e non già lacrime sentimentali, ma lacrime di giubilo; e piangendo cantavo, dicevo follie, pieno della nuova visione che si è manifestata a me prima che a tutti gli altri mortali” (Lettera a Peter Gast da Sils-Maria del 14 agosto 1881. Vedi Epistolario, a cura di Barbara Allason, Einaudi).

Dopo la “rivelazione” è cominciata la stesura di Così parlò Zarathustra.

D I sentimenti che ha manifestato, intensi, numerosi, mutevoli, quanto l’idea dell’eterno ritorno lo ha colto, ci dicono che esso non è stato soltanto il ripresentarsi casuale di una dottrina nei modi in cui gli antichi l’hanno formulata, ma invece “davvero” un ritorno che è arrivato alla memoria e al sentimento in quel momento e in quel luogo.

Anche in seguito, nell’esporla a Lou Salomé, che del filosofo è stata compagna d’interminabili scambi d’idee e confidenze, quella che lui amò senza misura ma

senza speranza, c’erano sofferenza, passione, viva commozione, entusiasmo, che non andavano d’accordo con il puro e semplice ripresentarsi di un’antica dottrina. Così lei riferisce uno di quei momenti:

“Non potrò mai dimenticare le ore in cui me lo confidò per la prima volta come un segreto, come qualcosa di fronte alla cui dimostrazione e conferma egli provava un orrore indicibile: ne parlava soltanto con voce sommessa e con tutti i segni del più profondo sgomento. E Nietzsche, in effetti, soffriva così profondamente della vita che la certezza del suo eterno ritorno doveva avere per lui qualcosa di raccapricciante” (Lou Andreas-Salomé, Vita di Nietzsche, Editori Riuniti, pag. 27). Ma c’erano anche, come abbiamo visto, “lacrime di giubilo”, che anche Salomé ha visto e annotato. Pena e spavento, perciò, per un’esistenza ritornante senza senso e scopo; ma anche segreto gaudio per la fine del “peso più grande” e per la “visione” che si andavano delineando, vicino ormai com’era all’uscita dal cerchio.

Perché, prima del suo arrivo davanti al portone carraio, c’è stata una lunga oscillazione in Nietzsche fra l’eterno ritorno classico e quello che sarebbe diventato visibile di lì a poco.

E Come dottrina dell’eterno ritorno ripescata dalla natura e dalla cultura, sarebbe stata altrimenti soltanto un’ennesima ripetizione di cicli chiusi ed immutabili, vale a dire nulla di nuovo, e Nietzsche stesso ne era conscio.

Per prima cosa, l’eterno ritorno è nella natura, è la natura. Tutto ritorna: il sole dopo la notte, la primavera dopo l’inverno, la veglia dopo il sonno.

In un ritorno eterno delle cose, in periodi esattamente misurati, le costellazioni riappaiono sulla loro orbita, e un giorno – molto, molto tempo dopo – si ritroveranno tutte assieme al punto dal quale erano partite. La moderna astronomia ha stabilmente assegnato a questo ciclo la dimensione di venticinquemilaottocento anni. Dopo questo gran giro dei pianeti e delle stelle, i cieli ritorneranno al punto di partenza e tutto riprenderà nuovamente. Questo ciclo Platone l’ha chiamato Anno perfetto.

Poi, nella cultura, l’eterno ritorno è dottrina antichissima presente nelle religioni, nei miti, nei misteri, nella sapienza, nella poesia, nella filosofia del Giorno. Dappertutto, insomma.

Faceva parte delle dottrine segrete degli antichi Egizi.

L’Induismo e le altre religioni d’Oriente si basano su di essa, così pure i Misteri dell’antica Grecia, quelli d’Eleusi, di Dioniso, poi i Misteri romani del tempio, le dottrine cabalistiche segrete degli Ebrei, ed era presente anche nel Cristianesimo delle origini.

Nel Bhagavad Gita, l’incoraggiamento dato da Krishna ad Argiuna prima della battaglia suona così: “Come un uomo, gettando via indumenti usati, ne prende di nuovi, così l’abitatore del corpo, liberandosi dei corpi usati, entra in altri che sono nuovi. Le armi non l’offendono, né il fuoco lo brucia, né le acque lo bagnano, né il vento lo disseca. Intaccabile, incombustibile e non suscettibile di essere bagnato né disseccato; perpetuo, onnipervadente, stabile, inamovibile, antico, non manifesto, impensabile, immutabile: così è chiamato; perciò, conoscendolo come tale, tu non dovresti affliggerti”.

Anche la chiesa cattolica non ha mai condannato ufficialmente questa dottrina. Non l’approva, non ne parla, perché afferma che la vita terrena è unica come prova sulla terra, ma ci sono molti passi del Nuovo Testamento che la presentano e l’affermano. Per esempio dove Giovanni Battista è considerato come una reincarnazione di Elia, o come quando i discepoli chiedono a Gesù se il nato-cieco soffra per il peccato dei suoi genitori o per qualche suo peccato precedente. Essa era inoltre insegnata da eminenti Padri della Chiesa, e Ruffino (lettera ad Attanasio) dice che la credenza in essa era comune fra i primi Padri. Erigena e Bonaventura, la sostenevano anche nel Medioevo.

Lo Zhoar parla delle anime come soggette a trasmigrazione: “Tutte le anime sono soggette a evoluzione, ma gli uomini non conoscono le vie del Santissimo, − che sia benedetto! – essi sono ignoranti del modo in cui furono giudicati in tutti i tempi, sia prima di venire in questo mondo sia quando l’hanno lasciato” (Zohar II, foll 99. Citato nella Qabbalah di Myer, pag. 198).

È la teoria delle alternanze di Empedocle.

L’eterno ritorno dei Pitagorici.

Dopo la nascita della filosofia, Platone l’ha così espressa: “conoscere e ricordare”, la qual cosa implica che si sia già stati.

Riteneva inoltre che come l’Anno perfetto era la Storia universale, perché se i periodi planetari sono ciclici, non si può escludere che lo sia anche tale Storia – un’estensione che non si può escludere.

E con la Storia ritornano gli uomini e le cose. Ognuno sarà di nuovo sulla scena, ognuno farà e penserà e soffrirà nuovamente ciò che ha fatto, pensato e sofferto nella sua prima vita, migliaia e milioni di anni addietro. Edipo ucciderà ancora una volta sua padre e si unirà con sua madre. I grandi imperi torneranno a fiorire e decadere in eterno.

Dopo Platone, per una numerosa schiera di filosofi la metempsicosi, legata all’eterno ritorno, è diventata la più razionale teoria dell’immortalità personale. Ne cito alcuni: Plotino, Swedenborg, Böhme, Giordano Bruno, Campanella, Lucilio Vanini, Schopenhauer, Lessing, Hume, Hegel, Leibniz, Herder, Fichte, Kant, Schelling, Lessing, Cudsworth, Mazzini, Severino. Fra i pensatori inglesi, i Platonici di Cambridge, la difendevano con molta scienza e acume.

Ha detto David Hume: “Non immaginiamo la materia infinita come fece Epicuro; immaginiamola finita. Un numero finito di particelle non è suscettibile d’infinite trasposizioni; in una durata eterna, tutti gli ordini e posizioni possibili avverranno un numero infinito di volte. Questo mondo, con tutti i suoi particolari, perfino i più minuscoli, è stato elaborato e annichilato: infinitamente” (David Hume, Dialogues concerning natural religion, VIII).

Ha detto Lucilio Vanini: “Di nuovo Achille andrà a Troia, rinasceranno le cerimonie e le religioni, la storia umana si ripete; nulla c’è adesso che non sia stato; ciò che è stato sarò; ma tutto questo in generale; non (come determina Platone) in particolare”.

Come Platone anche Nietzsche, nel suo andirivieni fra l’eterno ritorno classico e quello che stava bussando alla sua porta: “Uomo, tutta la tua vita è una clessidra che viene girata e rigirata, il cui contenuto scorrerà un numero infinito di volte, separate dall’intervallo di un lungo minuto di tempo, fino a quando il corso ciclico dell’universo non raccolta tutte le condizioni dalle quali sei nato. Ritroverai allora ciascuno dei tuoi dolori e delle tue gioie, i tuoi amici e nemici, le tue speranze e i tuoi errori, il più piccolo filo d’erba e il più piccolo raggio di sole, e tutto l’insieme di tutte le cose. Questo anello, di cui sei solo un granellino, brillerà perpetuamente. E in ciascuno dei cicli successivi della storia umana vi è sempre un’ora in cui, per un uomo isolato, poi per molti, infine per tutti sorge il pensiero più potente di tutti, quello dell’Eterno Ritorno di ogni cosa: ogni volta suona allora per l’umanità l’ora del “mezzogiorno” (Nietzsche, La volontà di potenza, 323).

Per Emanuele Severino ogni ente (stella, fiore, animale, uomo…), ogni suo aspetto e ogni suo atto, sono eterni e nell’eterno ciclo dell’apparire e scomparire, se scompaiono riappariranno, se appaiono scompariranno, in un ininterrotto su e giù.

Poi i poeti e scrittori antichi e nuovi: Virgilio, Ovidio, Walter Scott, Goethe, Poe, Charles Dickens, Walt Whitman, Borges.

Queste però sono solo alcune punte degli iceberg. Sotto di esse le innumerevoli esperienze e i ricordi di tanti meno celebri e vicini di casa, perché quasi tutti hanno incontrato persone o cose che hanno risvegliato ricordi di un passato che non credevano esistesse e che esprimono con le parole: ho già vissuto questo momento, ho già visto questo luogo, ho già incontrato questa persona; soltanto che i ricordi che s’accendono nel sentimento durano poco o dopo tanto non sai più se son tuoi o strani segni che affiorano da abissi.

Cosa significa perciò eterno ritorno: significa che le morti non spezzano la catena della memoria, come non la spezzano i sonni della nostra vita presente.

Pascoli, il mare, il ponte

18 ottobre 2009

Giovanni Pascoli, Mare

M’affaccio alla finestra e vedo il mare:
vanno le stelle, tremolano l’onde.
Vedo stelle passare, onde passare:
un guizzo chiama, un palpito risponde.
Ecco sospira l’acqua, alita il vento:
sul mare è apparso un bel ponte d’argento.
Ponte gettato sui laghi sereni,
per chi dunque sei fatto e dove meni?

Emil Nolde, Crucifixion (1912)

Emil Nolde, Crucifixion (1912)


Una bella poesuola, mi son detto, quando l’ho letta la prima volta. Così carina e semplice che merita di essere ricordata e ripetuta, e in breve l’ho imparata a memoria. Da allora non è più uscita dalla mente, ma giaceva nel profondo, perché per molti anni non l’ho più vista e sentita. Infatti, ero tanto giovane allora, forse studente della scuola media o delle elementari. O forse non l’ho neppure letta a scuola ma in una delle mie peregrinazioni sui libri di poesia. Leggevo e quel che mi colpiva l’imparavo. Allora sembrava per gioco, oggi c’è qualcosa di più. Ora Mare entra nel novero delle Coincidenze.
Per via del ponte misterioso?
È quello che attira di più certamente e mi da modo di aprire sull’argomento ponte, che è una delle strutture più importanti della via della conoscenza. Senza il ponte, il cammino non poteva continuare, l’Abisso non sarebbe stato attraversato. Il viaggio si sarebbe fermato sulla linea di Mezzanotte, come, di fatto, è accaduto a tutti quelli che lungo la filosofia, seguendo i filosofi del Tramonto e della Notte da Schopenhauer in poi, sono arrivati fin lì, ma ancora non sanno che una struttura di tal genere ora esiste anche in tal campo. Si tratta solo di una corda che collega le due sponde, quella che portavo con me e che mi è riuscito a lasciar pendere alle mie spalle nel lavoro d’attraversamento dell’Abisso che ho compiuto.
È la prima volta, dunque, che un tal ponte viene qui gettato, ma esso esisteva già in altri campi. Ne ricordo alcuni.
Nelle religioni che fanno capo alla Bibbia, il ponte fra l’uomo e Dio lo ha posto Dio stesso. Il suo aspetto sensibile è l’arcobaleno: “Io porrò il mio arco nelle nubi, e sarà come segno dell’alleanza fra me e la terra”.
In molti rituali e nelle mitologie iniziatiche e funerarie sono numerose le immagini del ponte, che implicano l’idea di un passaggio pericoloso, a volte di una liana che oscilla sotto il passo.
Le leggende medievali parlano di ponti nascosti nell’acqua, o sottili e taglienti come il filo di una spada, che il cavaliere doveva attraversare per riuscire a compiere l’impresa cui era stato destinato.
Un ponte esiste anche in natura, e non poteva essere altrimenti se essa è l’origine di ciò che è venuto dopo, e dopo c’è tutta la cultura. Si chiama ponte di Varòlio dal nome del suo scopritore, è formato da circa trecento milioni di fibre nervose, ed è la via di collegamento dei due emisferi del cervello che hanno funzioni diverse, e in tal modo raggiungono la coincidenza (L’emisfero sinistro è molto più competente del destro nel linguaggio e nella logica; il destro ha una parte molto maggiore in abilità spaziali e nel pensiero “gestaltico”. Noi abbiamo linguaggio, arte, ispirazione, mantenuti separati dagli abissi enormi esistenti fra i due emisferi e collegati fra loro da un ponte dalla campata immensa. Se a questo punto si riflette sul fatto che gli uomini hanno maggiore attitudini per il linguaggio e la logica, e le donne per ciò che compete all’altra metà del cervello, allora si arriva a conseguenze imprevedibili. Una di esse è stata esposta da un filosofo donna, così riassunta: “L’alleanza fra l’uomo e la donna diviene allora un ponte fra la natura e la cultura, un ponte ancora da costruire.”, Luce Irigaray, Essere in due, Bollati Boringhieri).
Poi la prima comparsa del ponte anche nella filosofia; ma era giocoforza a quel punto, vale a dire dopo che la linea di Mezzanotte era stata raggiunta. Perché non c’era più cammino davanti, solo il vuoto e l’alternativa era la caduta in esso. Come, di fatto, sta avvenendo. Com’è sempre accaduto, per la verità, ma oggi l’Abisso è sotto gli occhi e si guarda rassegnati e vinti, e c’è chi si getta prima per non prolungare l’attesa disperata e l’agonia. Quella prima idea di ponte è opera di Nietzsche ed esso, per il filosofo dell’eterno ritorno, è l’umanità stessa che porta dell’uomo al superuomo.
Giunto davanti all’Abisso, a un ponte ha pensato anche Heidegger. Lui però di primo acchito l’ha escluso, perché ha pensato di riuscire a superarlo con un salto, ma per quella larghezza non sarebbero bastati gli stivali delle sette leghe”. Perciò era il Ponte che si doveva costruire. Egli ha detto: “Non c’è un ponte che conduca dalla scienza (il pensiero calcolante della ‘ragione’ occidentale) al pensiero (il pensiero che rinunciando ad ogni finalità ‘costruttiva’ si pone come risposta ad una chiamata, quella dell’essere). L’unico passaggio possibile è il salto. Il luogo dove questo salto ci conduce non è solo l’altro lato dell’abisso, ma una regione totalmente diversa” (Heidegger, Was heisst Denchen?, 61, II, 6). Poi ancora: “Il salto, a differenza del cammino (d’ogni cammino dell’Occidente, scientifico, filosofico, poetico…) porta il pensiero, senza ponti, cioè senza che vi sia un procedere continuo, in un altro ambito e in un’altra maniera di dire” (Heidegger, Weise des Sagens?, 63,95.). La diagnosi era esatta, le due sponde sono indicate in modo chiaro e distinto, ma un salto di tal genere poteva riuscire solo a qualcuno, com’eccezione.
Per ultimo il mio ponte, quello che collega la fine del millenario cammino filosofico nel mondo di qua con l’aldilà. Di come sono riuscito a idearlo, costruirlo e poi attraversare l’Abisso, ho detto nel libro L’antica via dei Miti e dei Misteri.

Perciò una struttura di collegamento assai recente il ponte in filosofia. Tuttavia la filosofia non ha mai rinunciato all’aldilà, anche se non c’era il ponte.
Com’è stato possibile, allora?
In altre parole, anche lungo la filosofia del giorno, quella che va da Socrate a Hegel, tale forma di conoscenza non si è mai fatta mancare l’altra parte. Ha parlato di essa, è sempre stata la sua meta, molti hanno abitato in ispirito quei luoghi, passando quindi dall’immanente al trascendente, o dalla fisica alla metafisica, o dal divenire all’essere. In definitiva da questa dimensione dove tutto è cambiamento e dalla vita si va inesorabilmente verso la morte finché non si arriva, a quella dell’essere, dove invece ogni cosa è per sempre.
Ma come ha potuto se, di fatto, con i piedi, è sempre stata di qua, vale a dire prima dell’Abisso?
Perché ha fatto uso degli altri ponti degli altri domini, quelli or ora descritti, arrivando aldilà non con una sua esperienza diretta ed esclusiva. Cioè i filosofi si sono fatti portare dall’altra parte sulle ali del mito, dei misteri, delle religioni, perché fino a Nietzsche , come ho già detto, con l’aldilà non c’è mai stata prima un’esperienza diretta. Alcuni esempi.
Socrate, dopo aver dimostrato l’immortalità dell’anima, per dirci dove essa va dopo la morte, ha messo da parte la ragione che non lo sapeva e si è rivolto al mito. Quello favoleggiato dai poeti, sacerdoti, mistici.
Secondo Platone, le sostanze immutabili (idee) risiedono “di là dal cielo”, vale a dire nell’Iperuranio, ma si tratta di un mito descritto nel Fedro ed è un mito anche la famosa caverna, dove gli uomini sono legati all’interno di essa e costretti a fissare il muro di fondo senza poter girare la testa; e vedono solo le ombre delle cose che passano davanti a foro d’ingresso; e credono vere, reali, le prime perché delle altre non sanno. Mito della caverna, infatti, è il titolo di quel racconto. Dichiaratamente, perciò, non c’è un cammino filosofico che collega, semmai, appunto, una visione da sogno.
L’aldilà di Aristotele è la “filosofia prima”, poi chiamata metafisica (Metafisica deriva dal posto che gli scritti aristotelici relativi avevano nella raccolta di Andronico da Rodi, precisamente dopo la fisica, che era la prima delle scienze particolari), ma c’è un vuoto incolmabile fra fisica e metafisica, lo stesso che Tommaso d’Aquino ha cercato di superare con le sue prove dell’esistenza di Dio.
Cartesio, per fondare il suo Cogito ergo sum, che non è mai riuscito a distinguerlo in modo chiaro e distinto dal sogno, ha chiamato in aiuto Dio. In altre parole la certezza di sé e del mondo l’ha fondata in Dio; e vale per Dio, seguendo la via della conoscenza e non quella della fede e del misticismo, l’impossibilità di collegarlo all’uomo.
Lo sapeva bene Kant, che ha posto limiti insuperabili alla conoscenza filosofica e ha chiamato “cosa in sé” ciò che, non per ragione ma per fede, poteva anche esserci (come frutto “di una intuizione non sensibile”, per esempio, cioè divina, mentre per noi il concetto rimane vuoto), ma non era dimostrabile; e cosa in sé era anche Dio. Ma alla fine ha dovuto gettare la spugna: c’era solo il vuoto di là della conoscenza umana della cosa; e a questa conclusione è giunto nell’ultima edizione della critica, dopo anni di riflessioni (Infine, “Non è afferrabile la possibilità di tali noumeni, e l’ambito che si estende al di fuori della sfera delle apparenze, è [per noi] vuoto; noi abbiamo cioè un intelletto che si estende di là delle apparenze, ma non abbiamo alcun’intuizione, anzi neppure il concetto di un’intuizione possibile, attraverso cui possono esserci dati al di fuori del campo della sensibilità degli oggetti, e l’intelletto possa venire usato in modo assertorio di là di tale sfera. Il concetto di un noumeno (cosa in sé) è quindi semplicemente un concetto-limite, destinato a circoscrivere la presunzione della sensibilità, e d’uso quindi soltanto negativo. Esso non è peraltro inventato ad arbitrio, ma è connesso alla limitazione della sensibilità, senza poter tuttavia porre nulla di positivo al di fuori di tale sfera”, Kant, Critica della ragion pura).
Continuando sulla via della conoscenza, infatti, i filosofi che sono venuti dopo Kant, precisamente Fichte, Schelling, Hegel, hanno negata la cosa in sé e l’Io è diventato anche Dio.
A conclusione di questa breve rassegna, lungo tutta la filosofia che va da Socrate a Hegel non c’era, dunque, nemmeno il progetto di un collegamento. Ed ora la domanda: com’è possibile che per ventiquattro secoli i filosofi si siano adagiati su questo qui pro quo, quello di passare aldilà su strutture altrui o di accontentarsi di intravedere da lontano e congetturare? E la risposta suona così: il legame c’era anche nel dna della filosofia, ma nascosto e segreto, abitava l’inconscio. Era quello espresso dalla sapienza prima che la filosofia fosse, quello che Socrate aveva sentito da Parmenide quando era assai giovane, ma non era riuscito a sollevarlo alla parola della filosofia.
L’unica vera esperienza a questo punto è stata quella di Parmenide, ma essa appartiene alla sapienza. Qual è la differenza? Che lui la strada l’ha percorsa davvero: quella che dalla “casa della notte” portava fino alla Porta. E la Porta s’è aperta davvero sotto i suoi occhi ed è passato. E il Giorno l’ha visto tutto in una volta, come quando dall’alba sulla terra appare anche il cielo del tramonto e l’orizzonte dove tutto di nuovo sparirà nel buio. Insomma c’è tutta la conoscenza e l’esperienza di un giro completo nell’avventura di Parmenide, e per lui si parla, infatti, di viaggio iniziatico, non solo d’opera di pensiero razionale. Ciò che ho già detto in altre occasioni e che qui ribadisco (vedi le Coincidenze 3, 5, 10, 12), per segnare ancora una volta il confine fra sapienza e filosofia, per dire a chiare e tonde lettere cosa le distingue. Sapienza è l’esperienza di tutto il giro della vita, di giorno-notte , veglia-sonno, conscio-inconscio, vita-morte; filosofia solo della metà.

Ritorno alla poesia Mare dopo l’excursus nella filosofia. Ma è venuta da sé la lunga camminata nel pensiero con passi da gigante, per cercare riferimenti e coincidenze, o meglio per portarli alla parola, perché gli uni e le altre hanno fatto capolino appena ho rivisto la poesia, e non l’ho letta anche se ho tenuto gli occhi chini sul foglio ma recitata a memoria. Ed ho subito pensato: Pascoli ha sollevato dall’inconscio quello che io ho tratto dall’intrico della cultura; lui l’ha manifestato con parole più belle, adatte al paesaggio che aveva sotto gli occhi e in modo più raccolto; io con pensieri più chiari e distinti. Vediamo ora come si combinano questi due modi di conoscere.
Il poeta s’affaccia alla finestra.
È sempre da un punto o luogo privilegiato che si guarda e nel momento propizio. Dalla finestra in questo caso ma anche dai “lidi della California” o dall’alto di “un colle” come Whitman (vedi Coincidenze 3 e 8). O dal presente, rivolti prima al passato e poi al futuro, come la Cantarutti e Kavafis (vedi le Coincidenze 2 e 7). O dalla spiaggia, guardando la “marina”, come Montale nella poesia Casa sul mare (vedi la Coincidenza 10).
Anche Pascoli dalla finestra vede il mare.
E sul mare “vanno le stelle, tremolano l’onde”.
Vede “stelle passare, onde passare:/ un guizzo chiama, un palpito risponde”.
Vede, in altre parole questo mondo che scorre. Quello che la filosofia chiama anche immanente, o fisico, o del divenire. Se poi si sa che il mare è uno degli aspetti sensibili dell’Abisso, si può capire subito dove vanno le cose: dove scompaiono e la vita muta in morte, come nel Canto notturno di un pastore errante dell’Asia. Ma questa volta c’è un ponte su quella sponda estrema.
Di esso, come ho detto più sopra, mi sono accorto anche la prima volta, da ragazzo. Ma allora mi sembrava una licenza poetica – così si diceva delle apparizioni strane e misteriose nella poesia. Sembrava un tocco extra che la rendeva più affascinante. D’altronde gli stessi poeti, a volte, indulgono su questa credenza popolare e in qualche caso l’alimentano. “È del poeta il fin la meraviglia”, ha detto uno di loro; ed ora eccola lì, nella veste di “un bel ponte d’argento” posto nel punto dove prima venivano meno l’uomo e il suo mondo, e si può non precipitare. Ed io per un mucchio d’anni mi sono invece cullato su quella ingenua interpretazione del ponte, finché il suo ripresentarsi non mi ha svegliato e scosso.
C’è l’eco di Eraclito nella poesia di Pascoli: “Tutto scorre”. Ma per il sapiente tutto va a confluire in una superiore unità, perché Il dio è giorno notte, inverno estate, guerra pace, sazietà fame, e muta come (il fuoco) quando si mescola ai profumi e prende il nome di ognuno di essi” (Eraclito, frammento 67). Ed ora c’è un Ponte che porta a quell’unione.
C’è l’eco d’Anassimandro, perché egli ha affermato che “principio degli esseri è Ápeiron (non-limitato, non-finito, non-particolare) […] da dove infatti gli esseri hanno la loro origine, ivi hanno anche la distruzione secondo necessità: poiché essi pagano l’uno all’altro la pena e l’espiazione dell’ingiustizia (la loro separazione) secondo l’ordine del tempo” (Anassimandro, frammento 1 D.K.).
Ma ora la giustizia è stata ripristinata: si va verso il non-particolare nella consapevolezza, ma passa solo chi sa e vuole.
Ecco perciò dove porta il Ponte: di là dell’Abisso dove c’è la coincidenza degli opposti.
Rimane l’ultimo verso che è una domanda: per chi dunque sei fatto e dove meni?
Dove porta il ponte già si sa, c’è la risposta: sull’altra riva e dall’altra parte, quella che ora ha per appellativo anche Ápeiron. Di essa, semmai, si vorrà saperne di più, e qualcosa ci dicono già le altre coincidenze.
Porta sulla riva dove l’amore è “per sempre”.
Dove “allontanarsi significa tornare”.
È il “ritorno in patria”.
È la dimensione di una nuova civiltà che nascerà dalle ceneri dell’Occidente, e l’abiteranno l’arcangelo di Aurobindo, il nuovo essere un quarto uomo tre quarti verbo di Robertson, chi passerà “di là dal tempo” di Montale. Poi tutti coloro che oseranno attraversare il Ponte e abbandonare la morta gora, dove l’Occidente è nato ma ora sta morendo.
A questo punto, anche la risposta alla domanda “per chi dunque sei fatto?” arriva da sola: è fatto per l’uomo nuovo.
Attenzione però: non si tratta di visioni vaghe e future come quelle dei maghi, perché il passaggio è già in atto.

P.S.
In genere c’è il ponte o la porta fra un dominio e l’altro, e si va dall’uno all’altro attraversando il ponte o aprendo e superando la porta. Perché a me, invece, sono toccati entrambi i passaggi? Mi sembra già di poter rispondere così: perché seguendo la via della conoscenza e attraversando il ponte, giunti al di là si può continuare, inanellando un altro giro, ma ad occhi aperti e mente sveglia questa volta, e sapendo da dove si arriva e dove si va. Oppure c’è la porta d’uscita e si lascia questa dimensione. Una possibilità quest’ultima su cui non mi sono ancora soffermato, non sufficientemente almeno, perché sono orientato verso la prima soluzione.
Forse per pigrizia, o perché, come dice il proverbio, è meglio “non lasciare la strada vecchia per la nuova”; ed io il vecchio giro lo conosco ormai a memoria.
Certamente un motivo è questo, ma c’è poi il luogo d’appuntamento perenne e l’attesa di chi deve arrivare. E tutto è già incanto, tutto è già presente e mai non muta.
In quanto al giro che mi piacerà ripetere, nel modo in cui si torna anche qui a rivedere luoghi di vacanze o altri aspetti se sono belli e cari, se a compierlo tutto questa volta ho impiegato cinquant’anni – perché c’era da trovare l’uscita dal labirinto, ideare e costruire il Ponte, attraversare l’Abisso, scoprire il segreto della Porta per aprirla –, la prossima ne basteranno cinque. Ma che dico! Forse nessun tempo, perché esso è tutto presente in un momento come il cerchio d’orizzonte della terra visto dall’alto di un colle. Ma mettiamo pure di compierlo a piedi, portandomi sulla circonferenza perciò, e allora confermo: cinque anni. Perché il tracciato nel labirinto lo conosco, non devo più districarmi fra i tratti di sentiero e i vicoli ciechi, né tirare la moneta per aria agli incroci, o aspettare che l’indicazione la mandi il Cielo, perché a volte c’è molto d’aspettare.

Il cerchio e la riga

1 marzo 2009

Novella Cantarutti, Senza titolo

Novella Cantarutti

Novella Cantarutti

Rotolo indietro
Nelle braccia che mi hanno sorretto
Come incavi di alberi grandi,
da madre in ava,
indietro
nel tempo senza storia
fino alla cuna d’acqua.
Avanti invece
sono soltanto righe
di muro, di ferro, d’asfalto
senza appoggio.

Può la poesia dire cose che altrimenti non arrivano alla parola, che altri linguaggi – quelli della prosa, per esempio, o della filosofia o della scienza – non sanno sollevare fino alla percezione? Sembra proprio di sì, e di tal natura è la breve poesia di Novella Cantarutti, che non ha titolo, ma che io chiamerei Il cerchio e la riga.
Non tutta la poesia però ha queste caratteristiche. Non le filastrocche, o quella delle sagre e delle cerimonie che suona familiare alle orecchie della maggior parte, e neppure la poesia che occupa posti importanti nella scala delle altezze perché canta sentimenti profondi, imprese mitiche, avvenimenti eccezionali.

Io anzi ne conosco poca di anticipatrice di mondi nuovi o di nuovi aspetti del medesimo. Quella di Hölderlin e Novalis, per esempio. Il primo ha visto e seguito gli Dèi in fuga nella notte santa, fino a smarrirsi; il secondo ha affrontato e indagato il regno della notte e morte per ritrovare la fidanzata Sophie, “dove quel petalo era volato” in giovanissima età. Oppure la poesia dei presocratici, da cui il pensiero filosofico è nato. Sapienza che ha preceduto il sapere razionale quel loro dire in versi.

Collocata la poesia di Novella nel posto che le spetta, vale a dire nel tempo e luogo che è il crinale fra passato e futuro in questo caso, provo ora a sviluppare quel che essa dice in modo molto breve ed enigmatico. Me lo consente, io credo, una lunga pratica in questo campo e poi quel mio accanirmi, durato una vita, su quelle righe diritte che stanno davanti, soprattutto su quella della vita. Quella che comincia, si sviluppa per un breve tratto o arco, e poi finisce e dopo non si sa. Con questa io ho combattuto fino a ridurla a un cerchio anch’essa. È la linea che ha un verso solo su cui, come si vedrà, la poesia s’appunta, forse per additare come la sibilla delfica che essa è il problema del nostro tempo, che ora dobbiamo risolvere per salvarci.

La poesia comincia, dunque, nel punto dove, come scia di nave che avanza, il passato si scioglie e scompare e dopo c’è il futuro. Ma “Rotolo indietro”, dice il primo verso, e pare che ci sia in esso anche una nota di rifiuto ad andare avanti. Chi può rotolare è cerchio o cosa rotonda ed è tale tutto ciò che in noi è natura: vale a dire il corpo e tante sue manifestazioni; e rotola, recita la poesia, in altre rotondità. Nelle braccia della madre, e da madre in ava sempre più indietro. Più indietro di ciò che è apparso come Storia più di venticinque secoli fa, prima di Erodoto, di Tucidide. Quanto prima?
Dove diceva Pitagora, che ricordava molte delle sue precedenti esistenze, e in una di esse anche il suo nome di allora: Euforbo, milite nella guerra di Troia e ucciso in battaglia sotto le mura di quella città da Menelao, re di Sparta.
Dove diceva Buddha, che la notte precedente l’illuminazione ha richiamato alla memoria “migliaia di vite come rivivendole e le ha collegate fra loro”.
Dove ha detto Ermete Trismegisto, nato tre volte in Egitto dove si è dedicato alla conoscenza, finché nell’ultima vita terrena si è illuminato, ha ricordato le sue precedenti esistenze, ha ricuperato il suo vero nome, e poi è salito al mondo superiore dov’è l’origine.
Fin dove Empedocle ricordava d’esser stato: “Un tempo io fui già fanciullo e fanciulla, arbusto, uccello e muto pesce che salta fuori del mare”.
O ancora più in giù? Forse si, “nel tempo senza storia”, afferma la poesia. Forse essa attinge anche alla profondità più grande, alla “cuna d’acqua” che è il grembo della madre, dell’ava, ma anche il fondo primordiale dove la vita sulla terra è cominciata quattro miliardi d’anni fa. Perché, come il sonno, il sogno, l’inconscio da cui arriva, non ha limiti di tempo e di spazio la poesia. Inoltre c’è somiglianza fra una “cuna” e l’altra, fra il primordiale grembo del mare e quello della donna. Il secondo è una specialità del primo.

Ed ora l’altra parte che chiamiamo futuro, quella delle “righe”, che ci appare come davanti e che stiamo conducendo fra pianti e canti. Non più il tondo ma il dritto. Ma cos’è questo dritto che viene dopo se dietro di noi tutto rotola; anche il sole, la terra, la luna, le stagioni, e tutto appare tondo e circolare? Cos’è quel dritto innaturale? Lo dice la poesia cos’è: “Righe/ di muro, di ferro, d’asfalto/ senza appoggio”. Cioè tecnica. E se grattiamo un po’ su quelle dure scorze, ecco che appare quel che sta prima di esse: la conoscenza umana, quella scientifica che ha dato numeri, ordine, misure. Poi, se s’insiste e si va più a fondo, appare la filosofia, appare la sapienza da cui la filosofia è nata e infine l’autore di questo mondo di conoscenza e tecnica. Si chiama Io. Ciò che s’è staccato in tanta parte dalla natura e mira ad aumentare la distanza; quello che è libero, si dice, che si conduce da sé. l’Io penso di Cartesio, ma anche quello di Kant, e poi l’Io assoluto di Fichte, Schelling, Hegel, che per loro è anche Dio.
Ma è pure la nostra povertà più grande; ce ne siamo accorti soprattutto nel secolo appena trascorso, funestato da due guerre mondiali e da campi di sterminio. Un Io che ci fa intendere la morte e ce la pone sempre davanti, ma non arriva a darci la vita oltre i limiti concessi dalla natura; un Io che ci apre all’immortalità ma essa è come un miraggio nel deserto.
Le “righe”, dunque, sono le opere dell’uomo, le conoscenze che le hanno prodotte, la concezione lineare del tempo che le accompagna, dritta come un fuso, ma “senza appoggio”. Nessun sostegno per loro come invece l’hanno i corpi celesti che circolano, ritornano al punto da dove sono partiti, coincide la fine con l’inizio e mai non cadono.
La riga è la conoscenza che abbiamo di noi stessi, che è limitata al tempo della vita, alla parte diurna di essa. Può andare anche oltre, anche a ciò che hanno escogitato gli altri in pensieri ed opere e al cammino comune compiuto in un luogo e tempo determinati. Per esempio quello degli italiani nella loro patria o assieme ad altri popoli in Occidente. Ma sempre riga rimane.

La conclusione la poesia non la dice, ma l’addita. Perché deriva dalle altre due. Se il futuro è “riga”, basta piegarla. Affinché, come dice il TAO, “allontanarsi significhi tornare”; simile a quel che ha detto Hegel: “L’andare innanzi è un tornare indietro, al fondamento, all’originario e al vero, dal quale ciò con cui si è cominciato dipende ed è, di fatto, prodotto”. Perché, come ha detto Goethe, “Più si conosce e più si sa/ tanto più si riconosce che tutto in circolo ruoterà”.
Dietro, infatti, solo così sono le righe: piegate, arcuate, a tornanti. Il cielo è concavo, i corpi celesti sono tondi, la donna è curve e circonferenze innumerevoli. E la stessa cosa sarà davanti.

Piegare la riga, torcerla, finché non ritorna dove è cominciata, questa è la soluzione del problema: cosa più facile da dire, però, che da fare. Io ci ho messo cinquant’anni per riuscirci e ho dovuto superare prove immani: uscire la Labirinto, attraversare l’Abisso, scoprire il segreto della Porta per poterla aprire, e attraversare quella soglia, e mi ha aiutato il Cielo. Ma non sarei ugualmente riuscito nel mio intento se non c’era la filosofia, tutta quanta, dalla sua Aurora avvenuta venticinque secoli fa nell’antica Grecia Fino al Tramonto del secolo scorso e alla Notte e Mezzanotte degli ultimi decenni. Fino a tal punto mi ha accompagnato la filosofia, e le ultime orme che ho seguito sono state quelle di Schopenhauer, Nietzsche, Heidegger, Freud, Jung, Jünger. Poi per il superamento dell’ultima parte, dalla Mezzanotte in poi, dove provando a scendere per poi risalire non si trova il fondo, ho fatto tutto da solo usando lo stratagemma che mi ha dato la filosofia, ponendo la traccia di quel Ponte sospeso sull’Abisso che potrebbe diventare un capolavoro della conoscenza umana.
In tal modo la riga si è incurvata, è diventata un arco e un cerchio, e “in una circonferenza fine e principio stanno assieme, sono lo stesso”.
Ma questa è una lunga storia ed io mi fermo. Dico soltanto che anche la via della conoscenza che appariva diritta, ora non lo è più. Ma questa è ancora cosa segreta e nascosta, quasi nessuno ancora la sa.

Per sempre

24 febbraio 2009

Grazia Sacchi, Per sempre

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Grazia Sacchi

X & SEMPRE
Ti amerò per sempre
Più che per sempre,
al di là del tempo
e dello spazio
e quando ti rivedrò,
tra cento, mille anni
riconoscerò,
nella folla anonima,
il tuo volto
tra infiniti altri.

Tu trasformerai
il sogno in pensiero
e come vento
strapperai le mie radici
per portarmi via.

Le anime,
sole e perdute,
in un istante di luce,
s’incontreranno
ancora
trovando l’unità,
tra cento, mille anni,
in qualunque età,
di nuovo
come ora.

Grazia nella sua poesia intitolata X & SEMPRE dice che l’amore è “per sempre”. In quest’affermazione non è sola ma in numerosa compagnia: quella di chi ama e di chi s’accende d’amore, la qual cosa capita a tutti almeno una volta nella vita; ed ogni amore dice di sé che è perenne, perché così lo vuole il sentimento.
L’ho detto anch’io all’inizio della mia avventura, quella riassunta nei libretti intitolati La chiesetta sperduta e L’antica via dei Miti e dei Misteri – percorsa ora con in mano la lampada della conoscenza filosofica, ed anzi è stato per trovare quel “per sempre” e per dimostrarlo che l’ho intrapresa.

Grazia poi ci dice cosa significa “per sempre”. Significa che durerà tutta una vita e poi riprenderà in un’altra: “tra cento, mille anni”, perché questi sono tempi che non appartengono ad una sola esistenza. Tra cento o mille anni continua Grazia “riconoscerò nella folla anonima, il tuo volto tra infiniti altri”.
E qui lo scenario si apre sulla metempsicosi, dottrina diffusa in tutte le civiltà e religioni, nella sapienza, filosofia, poesia.
Faceva parte delle dottrine segrete degli antichi Egizi, l’Induismo e le altre religioni d’Oriente si basano su di essa, così pure i Misteri dell’antica Grecia, quelli d’Eleusi, di Dioniso, poi i Misteri romani del tempio, le dottrine cabalistiche segrete degli Ebrei, ed era presente anche nel Cristianesimo delle origini.
Inoltre la metempsicosi è in primo piano nella sapienza orientale e occidentale Buddha la notte precedente l’Illuminazione, come ha scritto di lui il suo maggiore biografo Asvagosa, ha richiamato alla memoria “migliaia di vite, come rivivendole” e le ha collegate fra loro. Ermete Trismegisto, nato tre volte in Egitto, ogni volta si è dedicato alla conoscenza, finché nell’ultima vita terrena si è illuminato, si è ricordato delle precedenti esistenze, ha ricuperato il suo vero nome, e poi è salito al mondo superiore dov’è l’origine. Pitagora ricordava anche il suo precedente nome: Euforbo; era un milite nella guerra di Troia e ha perso la vita in battaglia sotto quelle mura, ucciso da Menelao.
Dopo la nascita della filosofia, Platone, amanuense di Socrate il primo filosofo, l’ha così espressa: “conoscere e ricordare”, la qual cosa implica che si sia già stati. Ha fatto seguito una numerosa schiera per i quali la metempsicosi è diventata la più razionale teoria dell’immortalità personale. Ne cito alcuni: Plotino, Böhme, Swedenborg, Giordano Bruno, Campanella, tanta parte della filosofia tedesca del secolo diciannovesimo, quella di Kant, Schelling, Hegel, Schopenhauer, Lessing, Cudsworth, Hume, Mazzini.
Poi i poeti e scrittori antichi e nuovi: Virgilio, Ovidio, Walter Scott, Goethe, Poe, Charles Dickens, Walt Whitman, Borges.
Queste però sono solo alcune punte degli iceberg. Sotto di esse le innumerevoli esperienze e i ricordi di tanti meno celebri e vicini di casa, perché quasi tutti hanno incontrato persone o cose che hanno risvegliato ricordi di un passato che non credevano esistesse e che esprimono con le parole: “Ho già vissuto questo momento, ho già visto questo luogo, ho già incontrato questa persona”; soltanto che i ricordi che s’accendono nel sentimento durano poco o dopo tanto non sai più se son tuoi o strani segni che affiorano da profondità abissali.
Ma dove c’incontreremo? Grazia non specifica: c’è tutta la vastità del sentimento nella poesia, ma anche l’indeterminatezza. Nel vasto e numeroso mondo perciò se non c’è indicazione precisa, ma in tal modo la ricerca diventa difficile, faticosa, problematica. Come sempre avviene d’altronde qui sulla terra dove uomo e donna sono metà distinte e separate che si cercano instancabilmente e spesso senza mai trovarsi davvero; e quando accade si afferma che è per caso o perché l’ha voluto il Destino, ma ancora non si sa che il “caso” è soltanto l’incerto e difettoso appellativo del Destino e che con il Destino si può venire a patti.

Perciò a me, che ho volutocome dice Grazia trasformare “il sogno in pensiero”, è apparso il luogo preciso, inconfondibile, come un faro in riva all’oceano tenebroso. Quel luogo è stato la chiesetta ideale, eterna, uguale a quella di sasso e di legno esistente in un paesino del Cadore, che era dispersa quando è apparsa ma che sono riuscito a trovare dopo cinquant’anni di ricerche. Naturalmente, questo è stato e sarà il luogo per me, un ricordo d’altre vite ormai fisso nell’immutabile e perenne: il centro della ruota che gira.
La trasformazione del sogno in pensiero, vale a dire del sentimento poetico in conoscenza chiara e distinta, è avvenuto nel modo che sempre si segue quando arriva il momento di passare dal progetto all’opera, dall’idea alla sua realizzazione. In questo caso costruendo un cammino fra la chiesetta terrena e quella celeste e superando gli ostacoli esistenti fra le due.
E siccome quella apparsa non era di questo mondo, ma assomigliava ad un’idea platonica la cui patria è l’Empireo, sono dovuto uscire dalla Terra e dal Cosmo per trovarla. Raggiunto quel confine dopo molti anni, non c’era la chiesetta al di là di esso, ma cominciava un Abisso. La sua esistenza in ogni modo non è stata una sorpresa, perché se quel luogo era il ricordo di una vita precedente, fra una vita e l’altra c’è sempre la morte essa è l’Abisso. Similmente tra veglia da veglia c’è il sonno, e Hypnos e Thanathos per gli antichi erano fratelli.
Perciò ho dovuto attraversare la morte per trovare in modo stabile e sicuro il collegamento con l’altra vita e con il ricordo della chiesetta in essa contenuto e conservato, come similmente si attraversa ogni notte il sonno qui sulla Terra per unire veglia a veglia, e ci sono riuscito costruendo un ponte. Il ponte sull’Abisso l’ho chiamato.
Dopo l’Abisso, al di là di una Porta di cui ho dovuto indovinare il segreto perché s’aprisse, c’era l’arrivo, e mi sono accorto che ero giunto nello stesso punto da cui sono partito cinquant’anni prima, vale a dire alla chiesetta. A quella che era sperduta, indubbiamente, ma anche a quella di sasso e legno del paesino del Cadore, perché le due non apparivano più separate come alla partenza, ora coincidevano. Le due erano una sola. Quella celeste e l’altra, la terrestre, erano la stessa cosa. L’oggetto e il ricordo di esso o idea erano lo stesso. Fine e principio stavano assieme.

Anche per Grazia c’è coincidenza. Fra lei e l’oggetto amato in questo caso, perché l’amore che prospetta di ritrovare dopo cento, mille anni, è lo stesso che ha ispirato la poesia, e il tempo che separa uno dall’altro diventa solo una lunga attesa in questo mondo di cose divise a metà e separate, che già per molti è solo apparenza. C’è qualcosa d’eterno, insomma, in noi che il corpo porta a spasso nel mondo delle cose sensibili. La vita finora sembra sia soltanto questo: una vacanza su un pianeta che si chiama Terra, con arrivi da profondità sconosciute e partenze per destinazioni ignote. Non c’è ancora una dimora dopo la vacanza che ci accolga in modo stabile e sicuro, o non ci sono coordinate esatte per trovarla.
Arrivata alla coincidenza sull’onda del sentimento anche Grazia, come normalmente accade, non è riuscita poi a mantenere quella posizione. Le crisi, i dubbi, le retrocessioni nel mondo delle cose sensibili, i distacchi, sono anche i segni sensibili dei limiti del sentimento e delle parole di poesia che l’esprimono.

Ecco, allora, che si capisce la necessità dell’ulteriore passo in avanti, il perché della trasformazione del sentimento in conoscenza, o come dice Proust in un equivalente intellettuale. Ecco perché io ho voluto trovare il luogo che la poesia m’aveva messo di fronte: la chiesetta sperduta. Perché non mi sono accontentato di sentire che ” le anime/ sole e perdute/ in un istante di luce/ s’incontreranno/ ancora/ trovando unità”, ma ho voluto sapere dove, come, quando. E ho tracciato il cammino, costruito il ponte, aperto la porta, varcata la soglia.

Infine i versi “…e come vento/ strapperai le mie radici/ per portarmi via”, i più sorprendenti; perché le radici sono proprio i sentimenti, quelli che hanno segno che consideriamo positivo, come amore, gioia, compassione, ecc., ma anche gli altri di segno opposto: odio, tristezza, crudeltà. Insomma anche lo sradicamento, con la trasformazione del sentimento in conoscenza è previsto nella poesia di Grazia, e da essi, infatti, io mi son staccato seguendo il cammino che portava fuori del labirinto. Ma non per rimanere senza amore, per esempio, ma per raggiungere il luogo dove esso è “per sempre”, o per arrivare alla coincidenza degli opposti, che è la stessa cosa, perché ero diretto al regno dell’unità e mi lasciavo alle spalle questo qui, frammentato e disperso, dove le parti solo eccezionalmente si uniscono per sempre.

A questo punto il lettore dovrà decidere se la poesia è fantasia, per cui diventerebbe sogno di un visionario anche lo sviluppo di quei versi fino al raggiungimento della conoscenza apodittica, oppure espressione di quel che c’è di più grande in noi e previsione di un mutamento.

Nel primo caso, povera poesia! Sarebbe ciò che il volgo dice spesso di essa e dell’autore: che è un’illusione, una vana consolazione, e il poeta un “pitocco”, un “perdigiorno”. Se invece è ciò che hanno sempre pensato le anime grandi e gentili: il modo primo e privilegiato di guardare in alto dov’è la nostra vera patria, allora anche l’ulteriore sviluppo verso la conoscenza chiara e distinta diventa la via maestra da seguire fino a ciò che è “per sempre”.