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Enrico Suso, Un mistico

31 ottobre 2009

Enrico Suso, Libretto delle verità

Suso

Enrico Suso

Finché l’uomo non comprende due contraria,
cioè due cose contrarie congiuntamente in una,
in verità, senza alcun dubbio,
non è molto facile parlare con lui di tali cose
(cioè del molteplice che è nell’Uno, eppure resta molteplice),
perché quando comprende ciò,
allora soltanto ha percorso la metà
del cammino della vita che io intendo.

Nel circolo della conoscenza, che sono riuscito a tracciare dopo un camino nella natura e nella cultura durato cinquant’anni, la coincidenza degli opposti si trova al di là del Ponte che attraversa l’Abisso, sull’altra riva. Essa è anche il punto dove finisce la Notte e l’esile chiarore dell’Alba comincia ad apparire (là c’è anche la “Porta che divide i sentieri del Giorno e della Notte” vista e raccontata da Parmenide, quella che è riuscito a superare con il favore della dea che la sorvegliava, e a entrare nel Giorno; e non poteva essere altrimenti, perché uno solo è il giro della vita e muta soltanto il nostro modo di vedere e di sapere).
Enrico Suso però non ha seguito la via della conoscenza, ma quella mistica, perché è un mistico tedesco del quattordicesimo secolo o in tale contesto viene prevalentemente collocato; perciò ha proceduto per la seconda. In essa l’Abisso ha anche altri nomi: caligine, nube della non conoscenza, notte oscura, dotta ignoranza, notte dell’anima.
Con quale nome e aspetto si è presentato a Suso non lo so, ma leggendo le sue opere si potrà ricavare. Che sia giunto da lì però è indubbio, perché c’è sempre quella prova da sostenere e cammino da percorrere prima di arrivare alla coincidenza degli opposti. Lo attestano anche altri esempi di mistici il cui percorso invece lo conosco un po’ di più. Dalla notte oscura è arrivato Giovanni della croce, dalla nube della non conoscenza Riccardo di San Vittore e Pseudo Dionigi, dalla notte dell’anima Angela da Foligno, “nella caligine di una nube” Mosè ha incontrato Dio. Dunque, è sempre alla fine dell’oscurità e inizio della luce che la coincidenza avviene.
Che cosa avviene?
Due cose contrarie si congiungono in una, dice il secondo verso del pensiero poetico di Enrico Suso e si comprende che il molteplice è nell’Uno, eppure resta molteplice (Non diversamente da Enrico Suso, Angelo Silesio, contemporaneo di Suso, così ha espresso la stessa esperienza: “Non ottiene l’uomo perfetta beatitudine/ Se l’unità non ha inghiottito l’alterità”).
Ecco l’importante: comprendere. Non si afferma che le cose non sono nell’Uno perché lì sempre si trovano e non potrebbero esistere altrimenti, ma che si arriva a comprendere quest’essenziale verità quando si supera l’Abisso; e comprenderla significa aderire ad essa, perciò non-essere ed essere nello stesso tempo, recitare la propria parte e amare Dio, come dice un’indicazione che ho visto sulla via della conoscenza, dopo l’uscita dal labirinto (Così diceva quell’indicazione: “Io mi trovo a sapere delle Cose,/ delle loro forme, limitazioni, tempi, colorazioni, come accade e perché, / che cosa cade perché resti la Cosa./ E si sa quando Cosa s’aggiunge a ciò che in fondo giace./ Ecco che Cosa mi dà pace: essere e non – essere,/ essere già stato e aver dimenticato,/ essere un tutto e vedermi breve,/ recitare la mia parte e amare Iddio”).
Oltre che coincidenza degli opposti, l’unione del singolo con il tutto si chiama anche estasi, il cui significato originario è entrare in Dio – èkstasi.

Altre esperienze nella mistica, simili a quella di Suso, suonano così.
Ha detto Caterina da Genova: “Ma l’amor puro e netto non può dire voler da Dio alcuna cosa (per buona che esser possa) la quale abbia nome di partecipazione; perché vuole esso Dio, tutto, puro, netto, e grande, siccome è: e quando gliene mancasse un minimo puntino, non si potrebbe contentare, anzi gli parria esser nell’inferno. E perciò dico ch’io non voglio amor creato, cioè amore che gustar si possa, né intendere, né dilettare: non voglio, dico, amore che passi per mezzo dell’intelletto, della memoria, della volontà; perché l’amor puro passa tutte queste cose, e le trascende, dicendo: Io non mi quieterò fino a tanto che io sia serrato e rinchiuso in quel divino petto, dove si perdono tutte le forme create, e così perdute restano poi divine: né altramente si può quietare il puro, vero, e netto amore. Onde ho deliberato, mentre ch’io viverò dir sempre al Mondo: Di fuori fa di me tutto quello che vuoi; ma nell’intrinseco lasciami stare: perché non posso, né voglio, né vorrei poter voler occuparlo se non in esso Dio, il quale se l’ha preso, e serratosegli dentro talmente, che non vuole aprire ad alcuno. Per l’alienazione in che mi truovo delle cose corporali, non le posso sopportare. Per lo che parmi di non esser più di questo mondo, non potendo come gli altri far l’opere del mondo: anzi ogni operazione che vedo fare dagli altri, mi dà noia, perché non opero com’essi né com’ero usata. Sentomi tutta alienata dalle cose terrene, e massime dalle mie proprie; che sol’in vederle con gli occhi, non le posso più sopportare: e dico ad ogni cosa, lasciatemi stare; perché non posso più aver cura né memoria di voi, come se per me non foste. Non posso lavorare, né andare, né stare, né ancor parlare: ma vedomi una cosa inutile, e superflua al mondo: Molti sono che si meravigliano, e per non intendere la causa si scandalizzano: e veramente, se non fosse che Dio mi provvede, alcuna volta dal mondo io sarei tenuta pazza; e questo è perché quasi sempre fuor di me stessa vivo”.

Ha detto Angela da Foligno: “Poi vidi Dio in una tenebra, e per questo in una tenebra, perché egli è un bene più grande di quanto si possa pensare o capire, al quale nulla che possa essere pensato o capito riesce ad accostarsi. E poiché quel bene è nella tenebra, esso è tanto più certo e superiore a tutte le cose tanto più lo si contempla nella tenebra ed è oltremodo nascosto. E in seguito io vedo nella tenebra che esso è superiore a tutti i possibili altri beni e che ogni altra cosa al suo cospetto si fa opaca e che tutto quello che si può pensare è inferiore a questo bene”.

Ha detto Janne-Maire Bouvier: “Al principio della nuova vita, vidi chiaramente che l’anima era unita al suo Dio, senza mezzi né cose in mezzo; ma ancora non era del tutto perduta. In lui si perdeva ogni giorno, come si vede di un fiume, che si perde nell’oceano, versarsi nel mare e poi sciogliersi in esso, ma in modo che il fiume si distingue dal mare ancora per un po’, finché alla fine, ma solo per gradi, si muta nel mare stesso, che rendendolo partecipe a poco a poco delle sue qualità, lo converte a tal punto in sé da far si che da ultimo non ci sia più nient’altro che un unico mare”.

Ha detto Anna Kaharina Emmerch: “Da alcuni giorni oscillo di continuo tra visione sensibile e visione soprannaturale. Mi devo fare molto coraggio, perché, nel bel mezzo di un discorso con gli altri, vedo contemporaneamente davanti a me altre cose e altre immagini, e poi ascolto le mie parole, nonché quelle del mio interlocutore, come se provenissero da un recipiente cavo, tetro e grossolano. Io mi sento come se fossi ubriaca e stessi per crollare. Le parole che rivolgo alle persone che parlano con me escono pacatamente dalle mie labbra e sono spesso più vivaci del solito, senza che io sappia quello che ho detto, benché mi esprima con estrema coerenza. Devo mantenermi in questo doppio stato, ma non ci riesco se non con fatica. Vedo ciò che mi sta di fronte con gli occhi spenti, come uno che dorma e che stia cominciando a sognare. La seconda visione mi trascina a sé con violenza ed è più nitida della visione naturale; ma non avviene per il tramite degli occhi”.

Ha detto Ramakrishna: “A volte facevo in modo d’andare nella stanza dei domestici e di quelli che spazzavano il pavimento per poterlo lavare con le mie mani, e intanto pregavo: “Madre! Annienta in me ogni idea ch’io sia grande e brahmano, e che essi siano inferiori e paria, perché che altro sono loro, se non tu, sotto molteplici forme?” E ancora: La conoscenza di Dio può essere paragonata ad un uomo, l’amore di Dio ad una donna. La conoscenza accede soltanto alle sfere esterne di Dio, mentre nessuno può entrare nei profondi misteri divini se non come amante, perché per lui, come per la donna, si aprono le stanze più segrete”.

Ha detto Simeone il nuovo teologo: “Dimoro in te come il profumo nella rosa. Dimoro in te come il nitore nel giglio. Io, nobile frutto, sono sbocciato da te”.

Ha detto un grande mistico sufi: “Io e il mio amato siamo una cosa sola”.

Su un gradino più alto i cristiani collocano Gesù che ha detto: “Io e il Padre siamo una cosa sola”, e per aver pronunciato queste parole è stato crocefisso.

Ora la parola alla filosofia dal punto dove è giunta da poco, quello sull’altra sponda dell’Abisso.
Dunque, a loro modo, i mistici hanno superato l’Abisso e sono giunti al punto dove gli opposti coincidono. Poi ad esso è arrivata anche la filosofia.
Ventiquattro secoli ha impiegato per toccare la sponda di qua dell’immensa voragine, quella che corrisponde alla linea di Mezzanotte (vedi anche le precedenti Coincidenze: n. 5, n. 6, n. 8, n. 12), poi ci sono voluti cinquant’anni a me per arrivare dall’altra parte. Non è un vanto questo mio ma ciò che ha voluto il Destino. L’ho detto in altre occasioni e lo ripeto, poi si commenti quanto si vuole e come si vuole. Ciò che qui conta è che alle altre vie esistenti ora si aggiunge quella della filosofia al completo. Che ci fosse anche prima, ben si sa, perché ha tutti quegli anni di vita e certe previsioni e tentativi c’erano già: uno dei più importanti quello di Nicolò Cusano. E c’era soprattutto la sapienza dalla quale la filosofia è nata e a cui è tornata, perciò si è trattato fondamentalmente di un ritorno a casa, dopo un immane giro per sapere dov’è la casa, per scoprire e fissare le sue coordinate per sempre.
Partenza, percorso e arrivo sono segnati nel libretto intitolato La via dei Miti e dei Misteri…, perciò chi vuol coglierla tutta intera deve volgersi ad esso. Qui invece vorrei soffermarmi sugli aspetti filosofici apparsi già lungo il cammino e che una volta affrontati e superati l’hanno aperto fino alla meta. Essi sono il superamento della logica platonica e aristotelica in auge da quel lontano passato e la previsione e anticipazione della coincidenza degli opposti.

Per arrivare alla comprensione della coincidenza degli opposti, vale a dire di “due cose contrarie congiuntamente in una”, si doveva abbattere il granitico piedistallo su cui il “principio di non contraddizione” si elevava, privandolo così del suo valore apodittico e della sua validità universale. Non eliminarlo, cosa impossibile d’altronde, perché esso è certamente valido nel mondo delle metà distinte e separate, vale a dire in questo dove noi siamo ancora prevalentemente immersi. Dice quel principio che “Nessuno, e non solo chi è sano di mente, ma nemmeno chi è pazzo ha il coraggio di dire sul serio a se stesso, e con l’intenzione di persuadersene, che il bove è il cavallo, o che il due è uno”. Così l’ha formulato Platone nel Teeteto e Aristotele l’ha confermato e rinvigorito con queste parole: “Non è possibile che lo stesso uomo pensi che una stessa cosa sia e non sia” (Aristotele, Libro IV della metafisica). E non contento gli ha concesso la più alta onorificenza, dove c’è scritto: “è il più saldo di tutti”.
Da allora logica e ragione, vale a dire il braccio e la mente, sono andate a braccetto e nessuno ha più osato attaccarle, fuorché i mistici. Che hanno detto in coro e ripetuto che la Luce è anche Tenebra e la Tenebra è anche Luce; che le due stanno assieme indissolubilmente. Certo, essi non si riferiscono alle cose del mondo come normalmente appaiono, ma come si mostrano dopo, dove il principio di non contraddizione non ha più il potere assoluto. Se non vale più così tanto e non dappertutto, allora non c’è il bove e il cavallo sempre così distinti e separati come prima apparivano, non c’è l’uno e il due, e poi il tre, il quattro, il cinque, e poi la terra, la luna, le stelle, le rose, gli uomini: c’è il tutto in una volta. Perché hanno varcato l’ultima soglia della rappresentazione umana come viene ancora vissuta, scritta e raccontata, e si sono avventurati aldilà. In Occidente sono ancora eccezioni, ma poi si è giunti al Tramonto e anche dal piedistallo della filosofia si è cominciato a vedere che dal Giorno che finisce comincia la Notte, come venticinque secoli prima da essa era sorto il Giorno, e che i due si danno origine fra loro.

L’attacco al principio di non contraddizione è stato condotto da molti. Da Nicolò Cusano che in difesa della sua dottrina contro le critiche ad essa rivolte ha detto: “La coincidenza degli opposti vale per l’intelletto ma non per la comune razionalità discorsiva, che resta ancorata all’aristotelico principio di non contraddizione”. Da Hegel, che considerava il mistico l’unità concreta di quelle determinazioni che per l’intelligenza finita valgono solo nella loro separatezza e contrapposizione. Da Kant che ha sancito i limiti di una ragione che sembrava onnipotente ma che in realtà ha confini precisi, liberando così le altre facoltà della mente da quella prigione, anche se dorata. Da Schophenauer, il primo cui suonò evidente che la raggiunta consapevolezza dei limiti della ragione ha spianato la via al gran “salto oltre la ragione”: al ponte si potrebbe dire ora. Poi da Nietzsche, Leopardi, Freud, Jung, Dewey, Wittgenstein, Heidegger, Dostoevskij, e dalle correnti più avanzate della fisica e della matematica (“A partire dagli inizi del secolo scorso questo principio è andato incontro alle critiche più radicali, da Leopardi a Nietzsche a Freud, Dewey, Wittgenstein, Heidegger; da Dostoevskij a certe diffuse interpretazioni della dialettica hegeliana e del marxismo, alle ricerche sulla mentalità primitiva, sul mito, sull’arte; da certe interpretazioni della fisica quantistica e del principio di indeterminazione all’intuizionismo matematico e alle logiche non aristoteliche, e alle loro applicazioni non solo all’ambito delle scienze naturali, ma anche a quello delle scienze sociali”, Emanuele Severino, Pensieri sul cristianesimo). Dopo di ciò, anche l’ultimo tratto, il più arduo e misterioso, poteva essere superato. Ma io allora non conoscevo l’opera dei miei predecessori. L’ho appresa molto più tardi, ad avventura conclusa. Ciò significa che, come ha scritto Hegel, la civetta di Minerva – la sapienza – “arriva sempre al tramonto, quando tutto è avvenuto, e ad essa resta solo il compito di capire com’è avvenuto e che senso ha”.

Superata la barriera costituita dal principio di non contraddizione, la via s’è aperta per la continuazione verso la coincidenza degli opposti.
La prima esperienza di essa in campo filosofico è stata vissuta, mi sembra, da Nicolò da Cusa, chiamato anche il Cusano. Così l’ha raccontata lui stesso. “Mi trovavo per mare di ritorno dalla Grecia, e fu allora che, per dono divino (il più alto, credo, che abbia ricevuto da Dio), sono stato guidato fino ad afferrare le verità più incomprensibili in modo incomprensibile nella dotta ignoranza, mediante il superamento della conoscenza umana delle verità incorruttibili. Cosicché in Dio medesimo che è la verità, questa dottrina è stata sviluppata nei tre libri presenti che possono essere accorciati o allungati partendo dal medesimo principio” (Nicolò Cusano, La dotta ignoranza, Città Nuova 1991, pag. 199).
La dotta ignoranza è, appunto, conoscenza dal confine fra il noto e l’ignoto, fra il visibile e l’invisibile. Ignoranza perché da quel limite che appare impenetrabile, non è dato di sapere cosa c’è oltre. Però dotta, perché si arriva fino al limite del noto, vale a dire di questo mondo duplice e molteplice, che per i più costituisce tutta la conoscenza possibile. Quel confine il filosofo l’ha chiamato anche il muro del paradiso e Dio è dall’altra parte.
In questa prima esperienza di Nicolò da Cusa la via filosofica è ancora intrecciata e confusa con quella religiosa e la comprensione di essa è apparsa anche al suo autore più un dono di Dio che un risultato del pensiero. Inoltre perché il Cusano era un sacerdote e perché egli si richiama continuamente alle fonti dei mistici medievali, specialmente, agli scritti Eckhart e dello Pseudo Dionigi, sembra che la sua dottrina rinnovi solo pensieri che appartengono a quel patrimonio. Ma la collocazione dominante è l’altra, e la dottrina della dotta ignoranza diventerà sempre più patrimonio della conoscenza umana e si allungherà, dopo l’abbattimento delle barriere razionali, fino ad oltre l’Abisso.
Oltre la porta del Paradiso raggiunta dal Cusano.

Ora la seconda parte del percorso di Suso.
Dopo aver detto che non è facile parlare del “molteplice che è nell’Uno, eppure resta molteplice” “finché l’uomo non comprende due contraria”, Enrico Suso così continua: solo dopo che ha compreso ciò egli si trova a metà del cammino che io intendo. Ma non è invece l’arrivo? Così, infatti, ho anch’io spesso affermato: la coincidenza è la fine che incontra il suo inizio.
Fine del ciclo però, ritorno a casa. Ma poi Ulisse non è ripartito per l’avventura celeste (vedi undicesima coincidenza)? Ed io non ho detto che c’è la Porta di cui si possiedono le chiavi? E si può continuare nella consapevolezza ciò che qui si compie in tanta parte al buio, ma dalla Porta aperta si può anche passare sulla “via maestra” diretti all’Essere, dove “il molteplice e nell’Uno, eppure resta molteplice”. Ecco cos’altro c’è da svolgere, allora: aspetti che ho già trattati nel libro L’antica via dei Miti e dei Misteri
Perciò Suso non pone fine al suo dire a coincidenza raggiunta, ma – egli dice – a questo punto siamo soltanto a metà del cammino. Perché davanti c’è ancora per lui la via del Paradiso e Dio; per la filosofia, la strada maestra e l’Essere, quella seguita da Parmenide quando è giunto davanti alla Porta e dopo che s’è aperta (vedi il suo poemetto Sulla Natura, frammento 1).

P.S.
Come abbiamo già visto in altre occasioni, la base di partenza di tutte le coincidenze cui si arriva percorrendo le vie sopra indicate – la mistica e la filosofica ma, com’è già apparso nelle pagine precedenti, ci sono anche quelle del mito, dei misteri, della poesia -, è la natura con i suoi metodi.
Come natura, il nostro inizio, che condividiamo con tutti i viventi che abitano la terra, il mare, e il cielo, è la coincidenza di uno spermatozoo con la cellula femminile. E’ avvenuta nel grembo materno, dopo un’immensa avventura del seme maschile che va dal momento della sua emissione fino alla penetrazione e fusione. Perché uno solo arrivasse e fosse accolto, sono partiti in duecento milioni. Gli altri si sono perduti lungo vie labirintiche e impervie, o sono stati ingoiati dai leucociti, travolti dai flussi liquidi, imprigionati fino alla fine della loro effimera esistenza dalle ciglia vibratili delle mucose, sprofondati in solchi e voragini. Infine l’arrivo di uno solo, dell’eroe o del più fortunato, la coincidenza, l’inizio di una vita e il suo sviluppo fino all’uscita nella luce del sole. Per l’uomo anche in quella della mente. Ciò, dunque, a livello microscopico e in quanto siamo anche natura, anzi ancora prevalentemente così, è la prima coincidenza che ci riguarda da vicino, che avviene nel nascosto e nel segreto e che soltanto da pochi decenni siamo riusciti a vedere, seguire e decifrare guardandola da fuori e dall’alto.
A livello macroscopico, le due cose contrarie che si congiungono in una sono invece l’uomo e a donna; e questa seconda coincidenza sta a fondamento non solo della natura che continua a questo livello, ma anche di qualcosa di nuovo che si chiama cultura. E nella cultura i libri sacri e profani, con i nomi, le date, le storie dei grandi amori. Così prosegue nell’aperto del sole e della mente, seguendo le vie del mito, dei misteri, della religione, della poesia, ciò che è cominciato nel nascosto e nel segreto.
Infine quest’ultima strada, la più nuova: quella della conoscenza chiara e distinta.

Giacomo Leopardi, Canto notturno di un pastore errante dell’Asia

11 ottobre 2009

Giacomo Leopardi,
Canto notturno di un pastore errante dell’Asia
Versi 1-38

Che fai tu, luna, in ciel? Dimmi, che fai,
Silenziosa luna?
Sorgi la sera, e vai,
contemplando i deserti; indi ti posi.
Ancor non sei tu paga
Di riandare i sempiterni calli?
Ancor non prendi a schivo, ancor sei vaga
Di mirar queste valli?
Somiglia alla tua vita
La vita del pastore.
Sorge in sul primo albore
Move la greggia oltre pel campo, e vede
Greggi, fontane ed erbe;
Poi stanco si riposa in su la sera:
Altro mai non ispera.
Dimmi, o luna: a che vale
Al pastor la sua vita,
La vostra vita a voi? Dimmi: ove tende
Questo vagar mio breve,
Il tuo corso immortale?

Vecchierel bianco, infermo,
Mezzo vestito e scalzo,
Con gravissimo fascio in su le spalle,
Per montagna e per valle,
Per sassi acuti, ed alta rena, e fratte,
Al vento, alla tempesta, e quando avvampa
L’ora, e quando poi gela,
Corre via, corre, anela,
Varca torrenti e stagni,
Cade, risorge, e più e più s’affretta,
Senza posa o ristoro,
Lacero, sanguinoso; infin che arriva
Colà dove la via
E dove il tanto affaticar fu volto:
Abisso orrido, immenso,
Ov’ei precipitando, il tutto oblia.
Vergine luna, tale
È la vita mortale.

Caspar Friedrich, Luna nascente sul mare (1821)

Caspar Friedrich, Luna nascente sul mare (1821)

Nei primi otto versi c’è il cammino della luna nel cielo, continuo e immutabile, di cui si sa ormai tutto: dove comincia ogni fase, dove finisce, come si ripete. Ed è un continuo riandare, sempre uguale: l’eterno ritorno dello stesso che Nietzsche, come ho già avuto modo di dire in una precedente coincidenza, considerava il peso più grande (vedi la decima coincidenza, Montale, Casa sul mare) e noia e tedio insopportabili. Leopardi invece dice: “ancor non sei tu paga” di questo riandare, di questo contemplare i deserti, “ancor non prendi a schivo, ancor sei vaga/ di mirar queste valli”? Ed è la stessa cosa detta con altre parole: Nietzsche in modo più drammatico. Il supplizio di Sisifo, la condanna di Tantalo.
Questo ritornare ogni volta all’inizio però la rende “immortale”. Comincia, gira, ritorna al punto di partenza, ripete, e così per sempre. Una condizione privilegiata, perciò, quella della luna, rispetto alla vita dell’uomo: perché quest’ultima è peritura, l’altra no.
A questo punto sappiamo cosa vuol dire immortalità: lo insegna il poeta, o c’è una definizione di essa chiara e distinta. Vuol dire compiere il giro completo e poi “riandare”, per i sempiterni calli.
Di fronte ad esso la “vita del pastore” che si sveglia all’alba e prima era nel sonno: ma cos’è il sonno? Egli non lo sa, perciò il suo giro s’è interrotto per lui nella notte. Arriva, in ogni modo, da regioni sconosciute e misteriose e perciò non sa da dove. “Poi stanco si riposa in su la sera”, ritorna nel sonno e non sa dove va. Ecco la differenza con il moto della luna, che invece “sorge alla sera”, si muove nella notte, ma è presente anche nel giorno. Non ha mai staccato dal suo moto, non ha mai interrotto la sua vigile presenza. Essa perciò conosce da dove viene e dove va.
Inoltre le interruzioni notturne del pastore sono segnali d’avvertimento dell’ultima che ci aspetta perché, come dicevano gli antichi, sonno e morte sono fratelli e alla fine si passa dall’uno all’altra. Essa, infatti, appare nella seconda strofa, dove anziché gioventù e sonno c’è vecchiaia e morte.
C’è tutta l’indigenza della vita, la sua precarietà, la sua tragica conclusione nei versi che seguono. In particolare:
C’è la vecchiaia e l’infermità.
La povertà, perché il vecchierel è “mezzo vestito e scalzo”.
La necessità di provvedere al fabbisogno per vivere: la legna per scaldarsi in questo caso.
Ci sono le avversità del tempo: venti, tempesta, caldo torrido, gelo.
Poi la faticosa e perigliosa corsa, varcando torrenti e stagni, cadendo, rialzandosi lacero e sanguinoso.
Per andare dove? Verso l’Abisso e alla fine precipitare in quel buco orrido immenso.Qui la morte ha nome abisso, come anch’io spesso l’ho chiamata.
Povero uomo! Mi pare che dai tempi di Buddha nessuno ha messo a nudo la sua vera condizione come ha fatto Leopardi con questi versi. O forse anche altri, ma lasciando un po’ di spazio all’illusione, alla speranza.

Si dirà: ma la vita umana è anche bella, c’è anche il paese di Bengodi sulle sue terre, tante cose sono attraenti e desiderabili. Ed io rispondo: è come il Luna Park, dove si portano i bambini, ed essi si divertono e non vorrebbero più uscire. Ma poi finisce il giorno, calano le ombre, arriva l’oscurità, chiudono le giostre. E comincia la solitudine, la tristezza, il pianto, il grido.
Per Leopardi la chiusura è definitiva: quello era l’ultimo spettacolo. Riuscito male, fra l’altro, specialmente per il vecchierello.
Buddha, invece, ha meditato sulla dolorosa condizione umana, che termina sempre con la morte, e ha trovato e percorso una via d’uscita che parte dal samsâra o ruota del divenire e porta al Nirvana – da nirva che significa spegnere. Poi l’ha insegnata.
Nirvana
perciò vuol dire spegnimento, ma anche contemporanea Illuminazione: spegnimento del mondo che si lascia, perciò, come si annebbiano e oscurano immediatamente le cose se si alzano gli occhi verso il sole e poi si ritorna ad osservarle, e Luce illuminante per chi ormai è entrato e la guarda apertamente e la sostiene. Perciò anche Nirvana e Illuminazione sono la stessa cosa: la Patria luminosa dove i sapienti sono entrati. Il tragitto per arrivare al Nirvana Buddha l’ha chiamato “Sentiero”.
Esso è soprattutto una via filosofica, anche se è improntata più sulla sapienza che sulla filosofia. Non c’è stata in Oriente la deviazione operata da Socrate e Platone fin dall’inizio. O Buddha, contemporaneo di Parmenide, non ha avuto discepoli o seguaci che hanno deviato dalla via maestra, contravvenendo ai suoi insegnamenti (vedi dodicesima coincidenza, Eliot, The rock). Oppure qualcosa di simile è avvenuto, ma solo alcuni secoli dopo la morte del maestro, all’inizio dell’era cristiana. Alla scuola da lui fondata, chiamata Piccolo veicolo (hinayana), che insegnava la conquista della verità per se stessi, simile perciò alla Via della Verità di Parmenide, si è affiancato il Grande veicolo (mahayana), un sentiero aperto a molti, ed esso assomiglia allora alla via della filosofia iniziata da Socrate e Platone. Perché questo potesse avvenire, l’illuminato (Bodhisattva) evitava di spegnersi nel nirvana e rimaneva per aiutare tutte le esistenze nella ricerca della verità e della liberazione.
Ma questa è un’altra storia che sarà da raccontare, perché è essenziale per la comprensione di ciò che ha separato l’Oriente dall’Occidente per tanti secoli e quel che ora li sta avvicinando.

Ora le note filosofiche.
La prima
: il corso immortale della luna in cielo e quello mortale dell’uomo sulla terra. Certamente non è la luna che sa, che confronta la sua esistenza con quella umana. Essa è un corpo inanimato, non ha coscienza: la sua coscienza è l’uomo, solo lui sa che è immortale. O, in ogni caso, è l’uomo che vede e parla.
E cosa vede? Il vagare breve di sé, perché sa quando comincia e come finisce, e il moto circolare continuo dell’altra. L’abbiamo già visto questo moto, nella poesia Casa sul mare di Montale, dove al posto della rotante luna ci sono “i giri di ruota della pompa” (vedi decima coincidenza Montale, Casa sul mare), o in quella di Novella Cantarutti che inizia così: “Rotolo indietro…”, e tutto ciò che sta dietro, dice la filosofia, è natura naturata e si muove in tondo ­– astri, vita vegetale, animale, umana.
Il confronto perciò è sempre fra il movimento lineare e quello circolare: di chi arriva sulla scena per compiere un tratto di cammino e poi com’è apparso così sparisce, e chi invece svolta, ritorna dove ha cominciato e riprende lo stesso corso.
Ora una domanda: se è solo l’uomo, sempre l’uomo, che vede e parla, non è solo lui, sempre lui, che dà la patente d’immortale alla luna e di mortale a sé? Certamente, ma sulla base dell’esperienza diranno tutti quanti, un’esperienza comune continuamente ripetuta e convalidata. Ciò che, insomma, è evidenza e scienza assieme, se si tiene presente che i risultati di quest’ultima non avvengono per caso, o, anche se ciò accade qualche volta, si possono però ripetere quando si vuole, e solo per questo possono appartenere alla scienza e fregiarsi dei suoi titoli.

Se, dunque, la durata della vita è diversa per la luna e l’uomo, ecco allora la seconda nota, che ha qui la forma di domanda: non può essere la luna immortale perché di essa vediamo tutto il cammino, e noi mortali perché il nostro c’è noto solo in piccola parte? Infatti, per ogni uomo ci sono continue interruzioni misteriose e prefissate anche durante il tratto diurno – quelle del sonno; e c’è poi la fermata e la caduta nel profondo da cui non si risale, o – come dice il poeta – dove tutto si dimentica. Ed è quest’ultima soprattutto che ci fa dire di noi stessi: siamo mortali.
Il primo che l’ha affermato è stato Alcmeone, citato da Aristotele, e quel suo dire suona così: “Gli uomini sono perituri perché non possono congiungere la loro fine al loro principio”.
Conoscenza perciò difettosa e limitata la nostra?
È quello che sto cercando di dimostrare in un impegno che si è già preso, qualunque sia il risultato, tanta parte del mio tempo e mi sta occupando ancora con queste Coincidenze. Esse vogliono essere anche una comunicazione presentata in modo nuovo e con un fondamento indiscutibile: la poesia. In modo che se qualcuno vuole intervenire per dichiararle inattendibili, si trovi a fare i conti anche con lei. Non con i singoli poeti, perché qualcuno potrebbe sentirsi messo a nudo e preferire la veste magica di prima, ma con la poesia, che dovrà adeguarsi perciò anch’essa alla nuova condizione. Dovrà penetrare di più nella parte oscura, quella d’altronde da cui sono giunti gli input fino ad oggi, per cui la provenienza non cambia, e svilupparsi di più nel regno della luce mettendo nuovi fiori e frutti.

La terza nota. Leopardi parla della luna da fuori della luna e come altro da essa, mentre parla dell’uomo dall’uomo. Dal suo interno, voglio dire.
Si obietterà che, come la luna, stanno fuori anche il pastore e il vecchierello. Ma non è la stessa cosa. Essi sono uomini, non sono altra cosa dal poeta, e ciò che vale per loro vale anche per lui. Tutti e tre sono mortali, tutti e tre seguono la stessa strada altalenante fra la luce e l’oscurità e nella zona buia sono trasportati e non hanno occhi per vedere. Poi c’è l’Abisso dove tutti vanno a finire.
A questo punto, ecco che appare la possibilità per l’uomo di saperne di più di sé. Se delle cose del cielo come la luna conosciamo tutte le sue fasi e il suo eterno riandare perché le vediamo da fuori e come altro da noi stessi, allora anche per vedere l’intero nostro cammino dobbiamo uscire. Da noi stessi a questo punto. È ciò che ho chiamato anche uscita dal mondo o dal labirinto.
Dopo c’è l’Abisso, ma arrivando sulla sua sponda ad occhi aperti e anticipando il tempo del suo ineluttabile accadere, già si comincia ad accorgersi di tutto il cammino e a far progetti. Com’è accaduto a Heidegger e Jünger dopo che sono giunti sulla linea di Mezzanotte (vedi quinta coincidenza, Aurobindo).
Uscir dal mondo o dal labirinto, perciò, è il primo importante risultato. Di esso ho già parlato in alcune precedenti coincidenze (vedi coincidenze prima, seconda, terza, nona e undicesima).

Quarta nota. Chi è che si innalza e guarda da fuori?
A questo punto, per vedere tutto il cammino, anche il semicerchio notturno, non è più sufficiente l’Io, ci vuole il Sé, l’ultima conquista dell’Occidente nel campo del soggetto.
Quello che nella poesia d’Aurobindo ha nome arcangelo (vedi quinta coincidenza, Aurobindo). Oppure quell’essere “un quarto uomo,/ tre quarti verbo” di Robertson (vedi nona coincidenza, Robertson, Andrà a ovest). O quello che vuole passare “di là dal tempo” di Montale (vedi decima coincidenza, Montale, Casa al mare).
Visto dai padri fondatori della psicanalisi, il Sé non è solo la parte in luce ma anche tratto d’Oceano vicino alla terra emersa. Quest’ultima è l’autocoscienza, l’altra è simile al bassofondo che gli olandesi hanno strappato al Mare del nord, imbrigliandolo con le loro dighe: a quell’opera Freud ha paragonato il lavoro della psicanalisi nella parte a notte dell’uomo e dell’umanità (vedi settima coincidenza, Kavafis, Candele). Della stessa cosa, vale a dire del Sé, Jung ha detto che è coincidenza di conscio e inconscio (vedi settima coincidenza, Kavafis, Candele).

P.S.
Lungo la via della conoscenza, prima di arrivare all’uscita dal mondo o dal labirinto, ho visto anch’io segnali che indicavano quella tappa. Ne riporto due che mi hanno particolarmente colpito, e un eguale effetto potrebbero produrlo in chi li legge.
Il primo: “C’è un altro che non vedo che comanda,/ come io comando a quelli che stanno sotto./ E mi comanda di assumere il comando/ perché egli è stato innalzato”.
Il secondo: “Se già osservo il vegetale e l’animale che stanno sotto/ allora potrò vedere anche l’umano/ se mi hanno detto di salire ancora”.
Questa è invece la conclusione che s’impone: Io sono uscito da me per dire di me stesso: c’è il giro completo della vita che tu puoi vedere e ripetere se vuoi. Ma ora dipende da te e non perché costretto.

Meriggiare pallido e assorto…

3 aprile 2009

Eugenio Montale, Meriggiare pallido e assorto…

Meriggiare pallido e assorto
presso un rovente muro d’orto.
ascoltare tra i pruni e gli sterpi
schiocchi di merli, frusci di serpi.

Nelle crepe del suolo o su la vecia
spiar le file di rosse formiche
ch’ora si rompono ed ora s’intrecciano
a sommo di minuscole biche.

Osservare tra frondi il palpitare
lontano di scaglie di mare
mentre si levano tremuli scricchi
di cicale dai calvi picchi.

E andando nel sole che abbaglia
sentire con triste meraviglia
com’è tutta la vita e il suo travaglio
in questo seguitare una muraglia
che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia

Eugenio MOntale

Eugenio Montale

Ricordo bene quei “cocci aguzzi di bottiglia” fissati con la malta di cemento in cima ai muri che chiudevano giardini e orti. E negli orti, alberi e filari di frutta: le ciliegie primaverili, le albicocche, le pesche, le pere, le mele, l’uva…

Era soprattutto dopo la fine dell’anno scolastico, nelle lunghe giornate di giugno e degli altri mesi estivi, che iniziavano gli assalti di noi, ragazzini del tempo di guerra o appena usciti da essa, a quei luoghi di delizie, spinti dalla fame ma anche dall’avventura. Ricordo la canzoncina che si cantava prima delle razzie e dopo il bottino e le scorpacciate, che io stesso avevo composto: “Noi siam gli eroi dell’uva/ dei pomi e delle more/ con gusto li rubiamo/ e con gusto li mangiamo”.

Ma gli orti, difesi dai muri con in cima i cocci di bottiglia, non sono mai riuscito a violarli. Scalzi, seminudi come si era allora, scavalcarli era impossibile. Abbiamo tentato di togliere quei vetri rompendoli, ma il rumore faceva accorrere i proprietari armati di bastoni, forconi, qualche volta con la doppietta, e in quanto ai risultati di quei tentativi, si riusciva soltanto a sminuzzarli rendendoli più pericolosi, non ad eliminarli. Così alla fine si ripiegava su paradisi meno protetti.

È sulla scia del ricordo e dell’insuperabile muro e della sua riscoperta nel campo della poesia, che ora m’accingo a tradurre la poesia di Montale, anche perché mi sono accorto leggendola che quell’ostacolo, in seguito, dopo molti anni di cammino sulla via della conoscenza, sono riuscito a ritrovarlo e superarlo. È accaduto quando è diventato metafora del confine che inesorabilmente chiude la vita nella non comprensione di sé stessa. Perché, diversamente, come natura, la vita viene e va, appare e scompare.
Ora la traduzione.

Se mi fosse riuscito, quand’ero ragazzino, di superare il muro dell’orto come quello che Montale descrive, con i cocci aguzzi di bottiglia sulla cima ed entrare, quale sgradita sorpresa sarebbe stata! Non ci sono gli alberi carichi di frutta là dentro, i filari nereggianti e biancheggianti di copiosi grappoli d’uva, le aiole di verdure e fiori, la fresca ombra sotto piante secolari dalle lussureggianti fronde, la fontana, il pozzo, le statue di giovani donne nude. Nulla di tutto ciò. Cosa, allora?
Lo dice la poesia: “un rovente muro d’orto” in un “meriggiare” che sembra non finire mai, come sempre accade nelle interminabili giornate estive. E sotto quei dardi infuocati una striminzita vegetazione composta di “pruni”, “sterpi”, “calvi picchi”, vale a dire arbusti sofferenti per l’arsura senza foglie sulle cime; poi animali stanziali di nicchia, la cui presenza è avvertita dai rumori che fanno: “schiocchi di merli, frusci di serpi”, “scricchi di cicale”; infine formiche che in un monotono travaglio quotidiano raccolgono ed accumulano il cibo per sopravvivere d’inverno. In file queste ultime, che “ora si rompono ed ora s’intrecciano” in un via vai continuo. Depositano provvisoriamente le briciole in “minuscole biche” prima di trasportarlo nelle loro tane e poi infaticabilmente ritornano al lavoro.
Questo è l’orto di Montale. Non luogo di delizie, non paradiso terrestre perciò, come quello che abbiamo vagheggiato da ragazzi, ma quasi un deserto. Simile piuttosto a quello dove Adamo ed Eva sono stati gettati a condurre un’esistenza desolata e dolorosa dopo che hanno mangiato il frutto dell’albero della conoscenza del bene e del male. Lui a lavorare la terra con fatica e sudore, lei a partorire con dolore e a rischio della vita,
A questo punto perciò l’orto acquista il grado di minuscolo stralcio del mondo, luogo di castigo, di dolori e pene dove ancora tutti ci troviamo. Lo stesso di quand’ero ragazzino e il muro anche allora non sono mai riuscito a superarlo.

Che le cose stiano così, vale a dire che quell’orto sia cifra e campione dell’intero mondo, appare in modo chiaro e distinto nell’ultima strofa della poesia. Esso diventa infatti “tutta la vita e il suo travaglio”, perciò anche tutto il mondo, perché – dice la filosofia –, non c’è l’uomo senza il mondo e viceversa. Inoltre quella recinzione si trasforma in una “muraglia” insuperabile, perché ha in cima i “cocci aguzzi di bottiglia”.
È una “triste meraviglia” per il poeta questo estendersi dell’indigenza e della precarietà da presenza nell’orto, forse casuale o in ogni caso temporanea, a tutta la condizione umana, e la poesia l’esprime. Senza filtri questa volta: senza voler attingere neppure un po’ alla bellezza, alla speranza, all’illusione, perché i versi sono aspri, secchi, duri, senza nessuna polpa. O la poesia qui è crudele.
Ho trovato anch’io lungo la via della conoscenza che ho percorso segnali di questo tipo. Ce n’è uno che dice: “La poesia è crudele/ in questo tempo./ Lascia le antiche note/ canta la fine”. Oppure questo: “Il mio campo era il pensiero/ dove spiccavo idee,/ come si sciolgono le allodole nel volo./ Ma ora c’è un canto solo che mi preme:/ il canto del finito e un solo varco”.
Però, per fortuna, c’è anche la parola poetica o che giunge da altre fonti, che dice che il maggiore ostacolo – la muraglia nel caso di Montale –, si può superare. Quella che racconta com’è stato possibile farlo. Ci sono i segnali della “porta” che la indicano e conducono ad essa e anche quelli che dicono che si può aprire e che si è aperta.
Segnali di tal genere li abbiamo incontrati anche nelle poesie dei poeti che sono stati tradotti in queste pagine prima di Montale, in Grazia Sacchi, Novella Cantarutti, Whitman, Novalis, Aurobindo.
Ed ora Montale, la sua nuda poesia: con le parole scarne, crude, essenziali, come pietre di fonte disseccata, che attende acqua però. Dal Cielo.

Ora, come siamo usi, una breve disamina sul muro dell’esistenza, che in altri casi è stato visto come oceano, o notte tenebrosa e misteriosa, o abisso, e che rimanda a ciò che viene dopo, perché esso è sempre un confine con altro, con un aldilà.
Cosa c’è al di là?
In Grazia il sogno d’amore che muta in pensiero, o lo vorrebbe, perché diventi “per sempre”.
In Novella Cantarutti c’è lo struggente desiderio del ritorno alla fonte della maternità, e c’è indicazione per raggiungerla.
Whitman è in viaggio da millenni per tornare in patria, in modo consapevole, non in quello oscuro e misterioso come sempre accade.
Nel poemetto di Novalis il muro è la morte che si trasforma in notte stellata e aldilà c’è Sophie, la fidanzata prematuramente scomparsa, che egli ritrova per sempre, perché non ci sarà più perdita e distacco.
Nella poesia di Aurobindo c’è la porta nel muro, ed egli dice che bisogna battere continuamente, infaticabilmente, perché essa si apra. Oltre la porta l’arcangelo, che nasce dall’uomo.
Per me ragazzo, come ho già detto, al di là del muro dell’orto, “vero”, “reale”, come qui si dice, c’era qualcosa di simile all’età dell’oro, dove si poteva vivere “come dei, senza affanni nel cuore,/ lungi e al riparo da pene e miseria”, perché ” il suo frutto dava la fertile terra/ senza lavoro, ricco e abbondante”. Allora era simile il nostro stato alla vita degli uomini di quell’età felice, ma vissuta in piena incoscienza perché di tutto si occupavano i divini e noi eravamo il loro gregge.
Montale invece non si pronuncia sull’aldilà; afferma soltanto che la muraglia è invalicabile e che ci troviamo inesorabilmente di qua. Ma, come accade sempre, l’inconscio non invia segnali inutili e vani, vale a dire denunciare la penuria non vuol dire accettarla.

Per ultimo, qualche spunto che su questo tema del confine e dell’aldilà ci giunge dalla filosofia. Perché è stato seguendo la via della conoscenza, quella che è iniziata con il peccato di disobbedienza contro la divinità, che perciò ci ha cacciati dal paradiso, che ora ci troviamo di nuovo davanti al muro e alla porta.
Si è trovato in questa posizione Nicolò Cusano che ha chiamato quella barriera “muro del paradiso”. E da esso ha visto l’una e l’altra parte: di qua le cose divise a metà e contrapposte, di là la coincidenza degli opposti. Coppie di contrari sono – egli dice – essere e non essere, vita e morte, bello e brutto, buono e cattivo, e tutti gli altri poli che legano le nostre facoltà alla speranza e al timore, e muovono i nostri organi ad azioni di difesa e di conquista. Dopo la porta – invece – tutto ciò è superato e vinto. Ma Nicolò Cusano non è riuscito a valicarla perché la facoltà che si chiama ragione, la più preziosa e indiscussa che l’uomo possiede, ha potuto aiutarlo solo fino a quel punto.
Per Nietzsche la barriera è l’uomo stesso ma in lui c’è anche la possibilità di superarla e in parte c’è riuscito. L’umanità – ha affermato – è un ponte che conduce al Superuomo.
Per Heidegger l’attraversamento del pelago tenebroso, quello che comincia dopo la linea di mezzanotte, avverrà nel sonno. Un lungo sonno che finirà con un improvviso risveglio.
Per Jünger la Mezzanotte è “un’ora di morte” – perché lì, come già per Paolo di Tarso, l’uomo vecchio finisce –, “ma anche un’ora di nascita”. E da eroe di guerra quale è stato, non si ferma davanti al nulla, va avanti e gli porge il petto. Perché in esso c’è “come un tempo nella Tebaide, il centro d’ogni deserto e rovina. Lì ognuno, di qualunque condizione e rango, conduce da solo e in prima persona la sua lotta, e con la sua vittoria il mondo cambia. Se egli ha la meglio, il niente si ritirerà in se stesso, abbandonando sulla riva i tesori che le sue onde avevano sommerso. Essi compenseranno i sacrifici”.
Per Jung chi supera il confine realizza il Selbst (Sé), vale a dire la personalità integrale, somma e unità di conscio e inconscio; quel che si chiama anche coincidenza degli opposti.

In quanto a me, quando alla fine della via della conoscenza mi sono trovato davanti alla porta, dopo l’immane odissea che ha avuto come prova finale l’attraversamento dell’abisso, e ho guardato, quella prima volta come da un pertugio, ecco cosa mi è apparso: ” C’è un altro regno della luce fuori di Porta,/ non diverso ma più lucente dello stellato/ e più vivente di un prato a primavera”.

Il cerchio e la riga

1 marzo 2009

Novella Cantarutti, Senza titolo

Novella Cantarutti

Novella Cantarutti

Rotolo indietro
Nelle braccia che mi hanno sorretto
Come incavi di alberi grandi,
da madre in ava,
indietro
nel tempo senza storia
fino alla cuna d’acqua.
Avanti invece
sono soltanto righe
di muro, di ferro, d’asfalto
senza appoggio.

Può la poesia dire cose che altrimenti non arrivano alla parola, che altri linguaggi – quelli della prosa, per esempio, o della filosofia o della scienza – non sanno sollevare fino alla percezione? Sembra proprio di sì, e di tal natura è la breve poesia di Novella Cantarutti, che non ha titolo, ma che io chiamerei Il cerchio e la riga.
Non tutta la poesia però ha queste caratteristiche. Non le filastrocche, o quella delle sagre e delle cerimonie che suona familiare alle orecchie della maggior parte, e neppure la poesia che occupa posti importanti nella scala delle altezze perché canta sentimenti profondi, imprese mitiche, avvenimenti eccezionali.

Io anzi ne conosco poca di anticipatrice di mondi nuovi o di nuovi aspetti del medesimo. Quella di Hölderlin e Novalis, per esempio. Il primo ha visto e seguito gli Dèi in fuga nella notte santa, fino a smarrirsi; il secondo ha affrontato e indagato il regno della notte e morte per ritrovare la fidanzata Sophie, “dove quel petalo era volato” in giovanissima età. Oppure la poesia dei presocratici, da cui il pensiero filosofico è nato. Sapienza che ha preceduto il sapere razionale quel loro dire in versi.

Collocata la poesia di Novella nel posto che le spetta, vale a dire nel tempo e luogo che è il crinale fra passato e futuro in questo caso, provo ora a sviluppare quel che essa dice in modo molto breve ed enigmatico. Me lo consente, io credo, una lunga pratica in questo campo e poi quel mio accanirmi, durato una vita, su quelle righe diritte che stanno davanti, soprattutto su quella della vita. Quella che comincia, si sviluppa per un breve tratto o arco, e poi finisce e dopo non si sa. Con questa io ho combattuto fino a ridurla a un cerchio anch’essa. È la linea che ha un verso solo su cui, come si vedrà, la poesia s’appunta, forse per additare come la sibilla delfica che essa è il problema del nostro tempo, che ora dobbiamo risolvere per salvarci.

La poesia comincia, dunque, nel punto dove, come scia di nave che avanza, il passato si scioglie e scompare e dopo c’è il futuro. Ma “Rotolo indietro”, dice il primo verso, e pare che ci sia in esso anche una nota di rifiuto ad andare avanti. Chi può rotolare è cerchio o cosa rotonda ed è tale tutto ciò che in noi è natura: vale a dire il corpo e tante sue manifestazioni; e rotola, recita la poesia, in altre rotondità. Nelle braccia della madre, e da madre in ava sempre più indietro. Più indietro di ciò che è apparso come Storia più di venticinque secoli fa, prima di Erodoto, di Tucidide. Quanto prima?
Dove diceva Pitagora, che ricordava molte delle sue precedenti esistenze, e in una di esse anche il suo nome di allora: Euforbo, milite nella guerra di Troia e ucciso in battaglia sotto le mura di quella città da Menelao, re di Sparta.
Dove diceva Buddha, che la notte precedente l’illuminazione ha richiamato alla memoria “migliaia di vite come rivivendole e le ha collegate fra loro”.
Dove ha detto Ermete Trismegisto, nato tre volte in Egitto dove si è dedicato alla conoscenza, finché nell’ultima vita terrena si è illuminato, ha ricordato le sue precedenti esistenze, ha ricuperato il suo vero nome, e poi è salito al mondo superiore dov’è l’origine.
Fin dove Empedocle ricordava d’esser stato: “Un tempo io fui già fanciullo e fanciulla, arbusto, uccello e muto pesce che salta fuori del mare”.
O ancora più in giù? Forse si, “nel tempo senza storia”, afferma la poesia. Forse essa attinge anche alla profondità più grande, alla “cuna d’acqua” che è il grembo della madre, dell’ava, ma anche il fondo primordiale dove la vita sulla terra è cominciata quattro miliardi d’anni fa. Perché, come il sonno, il sogno, l’inconscio da cui arriva, non ha limiti di tempo e di spazio la poesia. Inoltre c’è somiglianza fra una “cuna” e l’altra, fra il primordiale grembo del mare e quello della donna. Il secondo è una specialità del primo.

Ed ora l’altra parte che chiamiamo futuro, quella delle “righe”, che ci appare come davanti e che stiamo conducendo fra pianti e canti. Non più il tondo ma il dritto. Ma cos’è questo dritto che viene dopo se dietro di noi tutto rotola; anche il sole, la terra, la luna, le stagioni, e tutto appare tondo e circolare? Cos’è quel dritto innaturale? Lo dice la poesia cos’è: “Righe/ di muro, di ferro, d’asfalto/ senza appoggio”. Cioè tecnica. E se grattiamo un po’ su quelle dure scorze, ecco che appare quel che sta prima di esse: la conoscenza umana, quella scientifica che ha dato numeri, ordine, misure. Poi, se s’insiste e si va più a fondo, appare la filosofia, appare la sapienza da cui la filosofia è nata e infine l’autore di questo mondo di conoscenza e tecnica. Si chiama Io. Ciò che s’è staccato in tanta parte dalla natura e mira ad aumentare la distanza; quello che è libero, si dice, che si conduce da sé. l’Io penso di Cartesio, ma anche quello di Kant, e poi l’Io assoluto di Fichte, Schelling, Hegel, che per loro è anche Dio.
Ma è pure la nostra povertà più grande; ce ne siamo accorti soprattutto nel secolo appena trascorso, funestato da due guerre mondiali e da campi di sterminio. Un Io che ci fa intendere la morte e ce la pone sempre davanti, ma non arriva a darci la vita oltre i limiti concessi dalla natura; un Io che ci apre all’immortalità ma essa è come un miraggio nel deserto.
Le “righe”, dunque, sono le opere dell’uomo, le conoscenze che le hanno prodotte, la concezione lineare del tempo che le accompagna, dritta come un fuso, ma “senza appoggio”. Nessun sostegno per loro come invece l’hanno i corpi celesti che circolano, ritornano al punto da dove sono partiti, coincide la fine con l’inizio e mai non cadono.
La riga è la conoscenza che abbiamo di noi stessi, che è limitata al tempo della vita, alla parte diurna di essa. Può andare anche oltre, anche a ciò che hanno escogitato gli altri in pensieri ed opere e al cammino comune compiuto in un luogo e tempo determinati. Per esempio quello degli italiani nella loro patria o assieme ad altri popoli in Occidente. Ma sempre riga rimane.

La conclusione la poesia non la dice, ma l’addita. Perché deriva dalle altre due. Se il futuro è “riga”, basta piegarla. Affinché, come dice il TAO, “allontanarsi significhi tornare”; simile a quel che ha detto Hegel: “L’andare innanzi è un tornare indietro, al fondamento, all’originario e al vero, dal quale ciò con cui si è cominciato dipende ed è, di fatto, prodotto”. Perché, come ha detto Goethe, “Più si conosce e più si sa/ tanto più si riconosce che tutto in circolo ruoterà”.
Dietro, infatti, solo così sono le righe: piegate, arcuate, a tornanti. Il cielo è concavo, i corpi celesti sono tondi, la donna è curve e circonferenze innumerevoli. E la stessa cosa sarà davanti.

Piegare la riga, torcerla, finché non ritorna dove è cominciata, questa è la soluzione del problema: cosa più facile da dire, però, che da fare. Io ci ho messo cinquant’anni per riuscirci e ho dovuto superare prove immani: uscire la Labirinto, attraversare l’Abisso, scoprire il segreto della Porta per poterla aprire, e attraversare quella soglia, e mi ha aiutato il Cielo. Ma non sarei ugualmente riuscito nel mio intento se non c’era la filosofia, tutta quanta, dalla sua Aurora avvenuta venticinque secoli fa nell’antica Grecia Fino al Tramonto del secolo scorso e alla Notte e Mezzanotte degli ultimi decenni. Fino a tal punto mi ha accompagnato la filosofia, e le ultime orme che ho seguito sono state quelle di Schopenhauer, Nietzsche, Heidegger, Freud, Jung, Jünger. Poi per il superamento dell’ultima parte, dalla Mezzanotte in poi, dove provando a scendere per poi risalire non si trova il fondo, ho fatto tutto da solo usando lo stratagemma che mi ha dato la filosofia, ponendo la traccia di quel Ponte sospeso sull’Abisso che potrebbe diventare un capolavoro della conoscenza umana.
In tal modo la riga si è incurvata, è diventata un arco e un cerchio, e “in una circonferenza fine e principio stanno assieme, sono lo stesso”.
Ma questa è una lunga storia ed io mi fermo. Dico soltanto che anche la via della conoscenza che appariva diritta, ora non lo è più. Ma questa è ancora cosa segreta e nascosta, quasi nessuno ancora la sa.

Coincidenze. Poesia e filosofia

17 febbraio 2009

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Di personaggi divini e mortali che hanno affrontato il regno della morte, sono entrati in esso e qualcuno è anche riuscito ad uscirne vivo, ce ne sono stati molti.
Ne nomino alcuni.
Nelle religioni mesopotamiche del III millennio a.C. si narra che Ishtar, dea della stella Venere e dell’amore, ma anche della guerra, perciò colei che reggeva la vita e la morte, discese agli Inferi, per riportare alla luce il diletto sposo Tammuz. Non gli riuscì, ma la sua prigionia nella “Terra senza ritorno” provocò la scomparsa della riproduzione umana e animale dalla superficie della Terra. Questa calamità fu di dimensioni cosmiche per cui i Grandi Dèi dovettero intervenire per liberare Ishtar e il suo compagno. Ci riuscirono con uno stratagemma, sostituendo la dea con una copia che rimase negli Inferi al suo posto.
Nella religione della Grecia antica, fra i divini c’è Demetra, la dea delle messi, che è scesa negli inferi per riprendersi la figlia Persefone, rapita e là portata da Ades, fratello di Zeus.
In quella dell’Occidente c’è Gesù, che è morto in croce, è disceso nell’inferno e dopo tre giorni è resuscitato. Poi è salito in Cielo.
Nella preistoria e nel mito, c’è Gilgamesh, che dopo la morte dell’amico è partito per ritrovarlo. È arrivato fino alla “acque di morte” ma non è riuscito a superarle, perciò la prima impresa di tal genere tentata da un mortale è fallita.
C’è Orfeo, il meraviglioso cantore e suonatore di lira, che è sceso nell’Ade per riportare alla luce la diletta sposa Euridice. È riuscito a rivederla e ad arrivare con lei fin sulla porta d’uscita, ma ad un passo da essa, perché si è voltato a guardarla contravvenendo al patto con le Parche che l’avevano proibito, l’ha perduta per sempre.
C’è Ercole, sceso negli Inferi per compiere la più difficile delle sue dodici fatiche: catturare Cerbero, il cane trifauce. Lo ha vinto, incatenato, e lo ha portato fuori da quel profondo a dimostrazione dell’impresa. È stato uno dei pochi che è riuscito ad uscire.
C’è Ulisse, che è entrato nell’Ade per trovare l’indovino Tiresia ed avere da lui indicazioni per tornare ad Itaca. Le ha avute ed è riuscito ad uscire e ritornare in patria.
C’è Enea che è disceso nell’Averno attraverso lo spaventoso fiume dei morti, ha parlato con l’ombra del padre Anchise che gli ha rivelato il destino di Roma che egli stava per fondare, e “in qual modo avrebbe potuto evitare e sopportare qualsiasi fardello”. Poi, attraverso la porta d’avorio ha fatto ritorno ai compiti che lo attendevano nel mondo.
Nella Poesia, personaggi che hanno compiuto il gran viaggio sono stati Dante, Novalis e molti altri.
Dante è entrato nell’Inferno, l’ha visitato ed è uscito da esso preparato per il Cielo.
Novalis nei suoi Inni alla notte canta la sua avventura nel regno tenebroso e come è giunto a ritrovare per sempre Sophie, la giovanissima fidanzata prematuramente scomparsa.
Nel misticismo, l’abisso ha nome “notte oscura”, o “nube della non conoscenza”, o “notte dell’anima”. Come notte oscura l’ha affrontato e superato Giovanni della Croce. Come notte dell’anima Angela da Foligno. Come nube della non conoscenza Riccardo di San Vittore, Pseudo Dionigi, Mosé.
Nella favola c’è Pinocchio, inghiottito dalla balena, e quel ventre è un altro nome e aspetto del regno tenebroso da cui è riuscito a fuggire. È entrato burattino ed è uscito trasformato in bambino: ecco la metamorfosi.
Non diversamente da Pinocchio, gli uomini che hanno compiuto quell’impresa sono diventati eroi, semidèi, poeti, mistici, santi.
Infine, fra gli innumerevoli visitatori del regno dei morti ci sono coloro che ricordano vite precedenti in quella che stanno vivendo. Se sono ritornati, significa che hanno attraversato in qualche modo l’abisso, ma in modo segreto e nascosto, ignoto a loro stessi, mentre ora è chiaro e distinto. Ora c’è un ponte che collega le due sponde e quindi le esistenze fra di loro: ecco la novità. Nomino soltanto alcuni dei più celebri: Virgilio, Cicerone, Plotino, Schopenhauer, Jung, Gandhi, Huxley, Gibran.

In questi nostri tempi di declino e caduta dell’Occidente, con conseguente immersione nelle tenebre, un viaggio simile a quelli di cui ho fatto cenno è toccato a me.
In un campo diverso però, in quello del pensiero filosofico, che non è stato mai percorso prima per intero, anche se c’erano indicazioni della fine specialmente nella sua storia più recente. Ma un percorso così, di tipo nuovo e mai fatto prima d’ora, non è facile che sia capito e creduto: infatti, anche se ho comunicato l’avventura e la scoperta, pochi finora hanno chiesto informazioni circa il metodo adottato e l’hanno tentata a loro volta. Si pensa e si crede perlopiù, mi pare, che sia opera di fantasia, o qualcosa di personale e privato che può interessare soltanto a chi è toccata, una specie di sogno ad occhi aperti che gli altri non colgono, o cui non interessa.
M’è venuta allora recentemente l’idea di abbinare l’intero cammino circolare che ho compiuto alle tante intuizioni ed esperienze di esso, espresse con le parole di poesia, che sono apparse lungo i secoli e millenni, in Occidente ma anche altrove, anzi in tutto il mondo abitato. Ricorrendo alle fonti, questa volta, vale a dire alle parole emerse in quel modo, e scoprendo la loro coincidenza con i pensieri chiari e distinti della filosofia. Mi son detto: se i versi dei poeti sono stati lampi nelle tenebre, se molti hanno creduto ad essi, o comunque, come Paolo sulla via di Damasco, ne sono stati colpiti, e li hanno adottati e seguiti, un po’ di attenzione la riserveranno anche a me, che ho cercato di raccogliere tutti quei lampi in una luce sola, che forse per millenni non tramonterà.

Finora le coincidenze le ho ottenute prendendo come testi a fronte le poesie, ma, se lo vorrà il Destino, se ci saranno risultati dopo questa prova, la stessa cosa potrà continuare con le voci del mito e con quelle dei mistici. Perfino con le leggi e teorie della scienza in certi casi, se sarà necessario o se capiterà l’occasione.

Ma perché comunicare, o cercare di farlo, un cammino così difficile, impegnativo, misterioso, dal momento che la maggior parte degli abitanti di questo mondo arriva qui come in vacanza e a programmare vacanze, o questa sarebbe la scelta dei più se potessero? In altre parole, perché dovrebbero rinunciare a gioie, denaro, amicizie, amori, viaggi sulla terra, o anche al dolce far niente, per seguire un cammino difficile, faticoso, avventuroso, misterioso?
C’è un perché che non lascia dubbi, che non può essere contestato o ritenuto illusorio o superficiale. Perché il cammino cui invito è quello della vita; lo stesso su cui tutti, volenti o nolenti, ci troviamo e in ogni caso per esso siamo costretti ad andare e termina sempre sul ciglio dell’abisso dove inevitabilmente e indistintamente si precipita. Verso quel vuoto immane la stragrande maggioranza è come se fosse condotta per mano e poi gettata, o attirata, come i topi della favola dal suono del pifferaio, e lasciata là cadere.
Dunque, non si tratta di cambiare strada, perché essa è una sola. Si tratta solo di percorrerla in modo diverso, per cui sarà utile confrontarlo con quello normale e comune. Poi ciascuno sceglierà, ma la scelta dipenderà anche dalla sua indole e dalle sue risorse. Si dice oggi dal suo dna.

Primo modo: quello che normalmente e pressoché generalmente viene seguito. Si va ad occhi aperti solo a tratti, quelli che chiamiamo veglie, cui seguono altri tratti a palpebre chiuse, dove si procede come portati. Ma non ci sono solo questi buchi e limiti nella consapevolezza. Il nostro andare saltellante fra luce e oscurità è ciò che accade finché siamo più o meno svegli nella vita, vale a dire dalla nascita alla morte. Ma poi è peggio, anzi immensamente, ferocemente peggio. Dopo si precipita nella tenebra più fonda e nel mistero più fitto. E si piange, ci si dispera: per le persone care che ci lasciano e scompaiono, per noi stessi quando siamo vicini alla fine.
Dunque la prima via, che è poi quella della natura, non richiede volontà e impegno. Si è gettati, si è tolti, si è portati, tutto sembra accadere per caso. O comunque l’impegno è limitato: dura il tempo di una vita. Ed è la più facile perché c’è il treno che chiamiamo specie che ci carica, trasporta e scarica, condensati in seme o sviluppati in pianta, e questo girotondo, dicono gli scienziati, iniziato milioni di anni fa continua senza posa e interruzioni.

E la seconda via? È la stessa, come ho già detto, ma con un altro aspetto. Una specie di sopraelevata che segue il tracciato antico e non è più in mano al caso. Semmai in parte al Destino, perché c’è un patto. E non si è più gettati e tolti, ma si arriva e si parte. Inoltre ci sono ormai indicazioni su tutta la via, anche dal ciglio dell’abisso in poi, fino all’altra sponda. E c’è un ponte che collega le due rive, esile per ora, non molto di più di una corda molle che ho lasciato andare alle mie spalle quando sono passato la prima volta. Ma poi, come ha annotato in quell’occasione, “ci penseranno i tecnici a costruire il ponte. Io credo che si troverà il modo di tirarlo e rafforzarlo e già vedo con l’immaginazione le torri che sorgeranno al posto dei rudimentali ancoraggi che ho costruito io, più alte di quelle del ponte di Brooklyn, più vicine al cielo di quelle che sono state progettate per l’attraversamento dello stretto di Messina; e il solido nastro, che sostituirà l’attuale corda dove si può passare uno alla volta, si stenderà dall’una all’altra sponda e sarà il più lungo, degno di tanto vuoto. Io credo che su di esso passeranno gli uomini di una nuova civiltà.”

Ecco posti a confronto i due aspetti della strada: quello normale e comune e il nuovo, dopo i segnali e le illuminazioni. Non dovrebbero esserci dubbi sulla scelta, però il secondo è costruito sopra il primo, a notevole altezza. È la via della conoscenza, e bisogna arrivare fin lassù se si vuole prenderla e seguirla. Questo è il trauma dell’inizio di ogni cosa.
Tuttavia, quando una strada è indicata e tracciata, come sempre accade per quelle sulla terra, alla fine si arriva ad imboccarla e percorrerla, anche da chi non sa quando è stata costruita e non conosce il nome dell’autore.