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Giacomo Leopardi, Canto notturno di un pastore errante dell’Asia

11 ottobre 2009

Giacomo Leopardi,
Canto notturno di un pastore errante dell’Asia
Versi 1-38

Che fai tu, luna, in ciel? Dimmi, che fai,
Silenziosa luna?
Sorgi la sera, e vai,
contemplando i deserti; indi ti posi.
Ancor non sei tu paga
Di riandare i sempiterni calli?
Ancor non prendi a schivo, ancor sei vaga
Di mirar queste valli?
Somiglia alla tua vita
La vita del pastore.
Sorge in sul primo albore
Move la greggia oltre pel campo, e vede
Greggi, fontane ed erbe;
Poi stanco si riposa in su la sera:
Altro mai non ispera.
Dimmi, o luna: a che vale
Al pastor la sua vita,
La vostra vita a voi? Dimmi: ove tende
Questo vagar mio breve,
Il tuo corso immortale?

Vecchierel bianco, infermo,
Mezzo vestito e scalzo,
Con gravissimo fascio in su le spalle,
Per montagna e per valle,
Per sassi acuti, ed alta rena, e fratte,
Al vento, alla tempesta, e quando avvampa
L’ora, e quando poi gela,
Corre via, corre, anela,
Varca torrenti e stagni,
Cade, risorge, e più e più s’affretta,
Senza posa o ristoro,
Lacero, sanguinoso; infin che arriva
Colà dove la via
E dove il tanto affaticar fu volto:
Abisso orrido, immenso,
Ov’ei precipitando, il tutto oblia.
Vergine luna, tale
È la vita mortale.

Caspar Friedrich, Luna nascente sul mare (1821)

Caspar Friedrich, Luna nascente sul mare (1821)

Nei primi otto versi c’è il cammino della luna nel cielo, continuo e immutabile, di cui si sa ormai tutto: dove comincia ogni fase, dove finisce, come si ripete. Ed è un continuo riandare, sempre uguale: l’eterno ritorno dello stesso che Nietzsche, come ho già avuto modo di dire in una precedente coincidenza, considerava il peso più grande (vedi la decima coincidenza, Montale, Casa sul mare) e noia e tedio insopportabili. Leopardi invece dice: “ancor non sei tu paga” di questo riandare, di questo contemplare i deserti, “ancor non prendi a schivo, ancor sei vaga/ di mirar queste valli”? Ed è la stessa cosa detta con altre parole: Nietzsche in modo più drammatico. Il supplizio di Sisifo, la condanna di Tantalo.
Questo ritornare ogni volta all’inizio però la rende “immortale”. Comincia, gira, ritorna al punto di partenza, ripete, e così per sempre. Una condizione privilegiata, perciò, quella della luna, rispetto alla vita dell’uomo: perché quest’ultima è peritura, l’altra no.
A questo punto sappiamo cosa vuol dire immortalità: lo insegna il poeta, o c’è una definizione di essa chiara e distinta. Vuol dire compiere il giro completo e poi “riandare”, per i sempiterni calli.
Di fronte ad esso la “vita del pastore” che si sveglia all’alba e prima era nel sonno: ma cos’è il sonno? Egli non lo sa, perciò il suo giro s’è interrotto per lui nella notte. Arriva, in ogni modo, da regioni sconosciute e misteriose e perciò non sa da dove. “Poi stanco si riposa in su la sera”, ritorna nel sonno e non sa dove va. Ecco la differenza con il moto della luna, che invece “sorge alla sera”, si muove nella notte, ma è presente anche nel giorno. Non ha mai staccato dal suo moto, non ha mai interrotto la sua vigile presenza. Essa perciò conosce da dove viene e dove va.
Inoltre le interruzioni notturne del pastore sono segnali d’avvertimento dell’ultima che ci aspetta perché, come dicevano gli antichi, sonno e morte sono fratelli e alla fine si passa dall’uno all’altra. Essa, infatti, appare nella seconda strofa, dove anziché gioventù e sonno c’è vecchiaia e morte.
C’è tutta l’indigenza della vita, la sua precarietà, la sua tragica conclusione nei versi che seguono. In particolare:
C’è la vecchiaia e l’infermità.
La povertà, perché il vecchierel è “mezzo vestito e scalzo”.
La necessità di provvedere al fabbisogno per vivere: la legna per scaldarsi in questo caso.
Ci sono le avversità del tempo: venti, tempesta, caldo torrido, gelo.
Poi la faticosa e perigliosa corsa, varcando torrenti e stagni, cadendo, rialzandosi lacero e sanguinoso.
Per andare dove? Verso l’Abisso e alla fine precipitare in quel buco orrido immenso.Qui la morte ha nome abisso, come anch’io spesso l’ho chiamata.
Povero uomo! Mi pare che dai tempi di Buddha nessuno ha messo a nudo la sua vera condizione come ha fatto Leopardi con questi versi. O forse anche altri, ma lasciando un po’ di spazio all’illusione, alla speranza.

Si dirà: ma la vita umana è anche bella, c’è anche il paese di Bengodi sulle sue terre, tante cose sono attraenti e desiderabili. Ed io rispondo: è come il Luna Park, dove si portano i bambini, ed essi si divertono e non vorrebbero più uscire. Ma poi finisce il giorno, calano le ombre, arriva l’oscurità, chiudono le giostre. E comincia la solitudine, la tristezza, il pianto, il grido.
Per Leopardi la chiusura è definitiva: quello era l’ultimo spettacolo. Riuscito male, fra l’altro, specialmente per il vecchierello.
Buddha, invece, ha meditato sulla dolorosa condizione umana, che termina sempre con la morte, e ha trovato e percorso una via d’uscita che parte dal samsâra o ruota del divenire e porta al Nirvana – da nirva che significa spegnere. Poi l’ha insegnata.
Nirvana
perciò vuol dire spegnimento, ma anche contemporanea Illuminazione: spegnimento del mondo che si lascia, perciò, come si annebbiano e oscurano immediatamente le cose se si alzano gli occhi verso il sole e poi si ritorna ad osservarle, e Luce illuminante per chi ormai è entrato e la guarda apertamente e la sostiene. Perciò anche Nirvana e Illuminazione sono la stessa cosa: la Patria luminosa dove i sapienti sono entrati. Il tragitto per arrivare al Nirvana Buddha l’ha chiamato “Sentiero”.
Esso è soprattutto una via filosofica, anche se è improntata più sulla sapienza che sulla filosofia. Non c’è stata in Oriente la deviazione operata da Socrate e Platone fin dall’inizio. O Buddha, contemporaneo di Parmenide, non ha avuto discepoli o seguaci che hanno deviato dalla via maestra, contravvenendo ai suoi insegnamenti (vedi dodicesima coincidenza, Eliot, The rock). Oppure qualcosa di simile è avvenuto, ma solo alcuni secoli dopo la morte del maestro, all’inizio dell’era cristiana. Alla scuola da lui fondata, chiamata Piccolo veicolo (hinayana), che insegnava la conquista della verità per se stessi, simile perciò alla Via della Verità di Parmenide, si è affiancato il Grande veicolo (mahayana), un sentiero aperto a molti, ed esso assomiglia allora alla via della filosofia iniziata da Socrate e Platone. Perché questo potesse avvenire, l’illuminato (Bodhisattva) evitava di spegnersi nel nirvana e rimaneva per aiutare tutte le esistenze nella ricerca della verità e della liberazione.
Ma questa è un’altra storia che sarà da raccontare, perché è essenziale per la comprensione di ciò che ha separato l’Oriente dall’Occidente per tanti secoli e quel che ora li sta avvicinando.

Ora le note filosofiche.
La prima
: il corso immortale della luna in cielo e quello mortale dell’uomo sulla terra. Certamente non è la luna che sa, che confronta la sua esistenza con quella umana. Essa è un corpo inanimato, non ha coscienza: la sua coscienza è l’uomo, solo lui sa che è immortale. O, in ogni caso, è l’uomo che vede e parla.
E cosa vede? Il vagare breve di sé, perché sa quando comincia e come finisce, e il moto circolare continuo dell’altra. L’abbiamo già visto questo moto, nella poesia Casa sul mare di Montale, dove al posto della rotante luna ci sono “i giri di ruota della pompa” (vedi decima coincidenza Montale, Casa sul mare), o in quella di Novella Cantarutti che inizia così: “Rotolo indietro…”, e tutto ciò che sta dietro, dice la filosofia, è natura naturata e si muove in tondo ­– astri, vita vegetale, animale, umana.
Il confronto perciò è sempre fra il movimento lineare e quello circolare: di chi arriva sulla scena per compiere un tratto di cammino e poi com’è apparso così sparisce, e chi invece svolta, ritorna dove ha cominciato e riprende lo stesso corso.
Ora una domanda: se è solo l’uomo, sempre l’uomo, che vede e parla, non è solo lui, sempre lui, che dà la patente d’immortale alla luna e di mortale a sé? Certamente, ma sulla base dell’esperienza diranno tutti quanti, un’esperienza comune continuamente ripetuta e convalidata. Ciò che, insomma, è evidenza e scienza assieme, se si tiene presente che i risultati di quest’ultima non avvengono per caso, o, anche se ciò accade qualche volta, si possono però ripetere quando si vuole, e solo per questo possono appartenere alla scienza e fregiarsi dei suoi titoli.

Se, dunque, la durata della vita è diversa per la luna e l’uomo, ecco allora la seconda nota, che ha qui la forma di domanda: non può essere la luna immortale perché di essa vediamo tutto il cammino, e noi mortali perché il nostro c’è noto solo in piccola parte? Infatti, per ogni uomo ci sono continue interruzioni misteriose e prefissate anche durante il tratto diurno – quelle del sonno; e c’è poi la fermata e la caduta nel profondo da cui non si risale, o – come dice il poeta – dove tutto si dimentica. Ed è quest’ultima soprattutto che ci fa dire di noi stessi: siamo mortali.
Il primo che l’ha affermato è stato Alcmeone, citato da Aristotele, e quel suo dire suona così: “Gli uomini sono perituri perché non possono congiungere la loro fine al loro principio”.
Conoscenza perciò difettosa e limitata la nostra?
È quello che sto cercando di dimostrare in un impegno che si è già preso, qualunque sia il risultato, tanta parte del mio tempo e mi sta occupando ancora con queste Coincidenze. Esse vogliono essere anche una comunicazione presentata in modo nuovo e con un fondamento indiscutibile: la poesia. In modo che se qualcuno vuole intervenire per dichiararle inattendibili, si trovi a fare i conti anche con lei. Non con i singoli poeti, perché qualcuno potrebbe sentirsi messo a nudo e preferire la veste magica di prima, ma con la poesia, che dovrà adeguarsi perciò anch’essa alla nuova condizione. Dovrà penetrare di più nella parte oscura, quella d’altronde da cui sono giunti gli input fino ad oggi, per cui la provenienza non cambia, e svilupparsi di più nel regno della luce mettendo nuovi fiori e frutti.

La terza nota. Leopardi parla della luna da fuori della luna e come altro da essa, mentre parla dell’uomo dall’uomo. Dal suo interno, voglio dire.
Si obietterà che, come la luna, stanno fuori anche il pastore e il vecchierello. Ma non è la stessa cosa. Essi sono uomini, non sono altra cosa dal poeta, e ciò che vale per loro vale anche per lui. Tutti e tre sono mortali, tutti e tre seguono la stessa strada altalenante fra la luce e l’oscurità e nella zona buia sono trasportati e non hanno occhi per vedere. Poi c’è l’Abisso dove tutti vanno a finire.
A questo punto, ecco che appare la possibilità per l’uomo di saperne di più di sé. Se delle cose del cielo come la luna conosciamo tutte le sue fasi e il suo eterno riandare perché le vediamo da fuori e come altro da noi stessi, allora anche per vedere l’intero nostro cammino dobbiamo uscire. Da noi stessi a questo punto. È ciò che ho chiamato anche uscita dal mondo o dal labirinto.
Dopo c’è l’Abisso, ma arrivando sulla sua sponda ad occhi aperti e anticipando il tempo del suo ineluttabile accadere, già si comincia ad accorgersi di tutto il cammino e a far progetti. Com’è accaduto a Heidegger e Jünger dopo che sono giunti sulla linea di Mezzanotte (vedi quinta coincidenza, Aurobindo).
Uscir dal mondo o dal labirinto, perciò, è il primo importante risultato. Di esso ho già parlato in alcune precedenti coincidenze (vedi coincidenze prima, seconda, terza, nona e undicesima).

Quarta nota. Chi è che si innalza e guarda da fuori?
A questo punto, per vedere tutto il cammino, anche il semicerchio notturno, non è più sufficiente l’Io, ci vuole il Sé, l’ultima conquista dell’Occidente nel campo del soggetto.
Quello che nella poesia d’Aurobindo ha nome arcangelo (vedi quinta coincidenza, Aurobindo). Oppure quell’essere “un quarto uomo,/ tre quarti verbo” di Robertson (vedi nona coincidenza, Robertson, Andrà a ovest). O quello che vuole passare “di là dal tempo” di Montale (vedi decima coincidenza, Montale, Casa al mare).
Visto dai padri fondatori della psicanalisi, il Sé non è solo la parte in luce ma anche tratto d’Oceano vicino alla terra emersa. Quest’ultima è l’autocoscienza, l’altra è simile al bassofondo che gli olandesi hanno strappato al Mare del nord, imbrigliandolo con le loro dighe: a quell’opera Freud ha paragonato il lavoro della psicanalisi nella parte a notte dell’uomo e dell’umanità (vedi settima coincidenza, Kavafis, Candele). Della stessa cosa, vale a dire del Sé, Jung ha detto che è coincidenza di conscio e inconscio (vedi settima coincidenza, Kavafis, Candele).

P.S.
Lungo la via della conoscenza, prima di arrivare all’uscita dal mondo o dal labirinto, ho visto anch’io segnali che indicavano quella tappa. Ne riporto due che mi hanno particolarmente colpito, e un eguale effetto potrebbero produrlo in chi li legge.
Il primo: “C’è un altro che non vedo che comanda,/ come io comando a quelli che stanno sotto./ E mi comanda di assumere il comando/ perché egli è stato innalzato”.
Il secondo: “Se già osservo il vegetale e l’animale che stanno sotto/ allora potrò vedere anche l’umano/ se mi hanno detto di salire ancora”.
Questa è invece la conclusione che s’impone: Io sono uscito da me per dire di me stesso: c’è il giro completo della vita che tu puoi vedere e ripetere se vuoi. Ma ora dipende da te e non perché costretto.

Coincidenze. Poesia e filosofia

17 febbraio 2009

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Di personaggi divini e mortali che hanno affrontato il regno della morte, sono entrati in esso e qualcuno è anche riuscito ad uscirne vivo, ce ne sono stati molti.
Ne nomino alcuni.
Nelle religioni mesopotamiche del III millennio a.C. si narra che Ishtar, dea della stella Venere e dell’amore, ma anche della guerra, perciò colei che reggeva la vita e la morte, discese agli Inferi, per riportare alla luce il diletto sposo Tammuz. Non gli riuscì, ma la sua prigionia nella “Terra senza ritorno” provocò la scomparsa della riproduzione umana e animale dalla superficie della Terra. Questa calamità fu di dimensioni cosmiche per cui i Grandi Dèi dovettero intervenire per liberare Ishtar e il suo compagno. Ci riuscirono con uno stratagemma, sostituendo la dea con una copia che rimase negli Inferi al suo posto.
Nella religione della Grecia antica, fra i divini c’è Demetra, la dea delle messi, che è scesa negli inferi per riprendersi la figlia Persefone, rapita e là portata da Ades, fratello di Zeus.
In quella dell’Occidente c’è Gesù, che è morto in croce, è disceso nell’inferno e dopo tre giorni è resuscitato. Poi è salito in Cielo.
Nella preistoria e nel mito, c’è Gilgamesh, che dopo la morte dell’amico è partito per ritrovarlo. È arrivato fino alla “acque di morte” ma non è riuscito a superarle, perciò la prima impresa di tal genere tentata da un mortale è fallita.
C’è Orfeo, il meraviglioso cantore e suonatore di lira, che è sceso nell’Ade per riportare alla luce la diletta sposa Euridice. È riuscito a rivederla e ad arrivare con lei fin sulla porta d’uscita, ma ad un passo da essa, perché si è voltato a guardarla contravvenendo al patto con le Parche che l’avevano proibito, l’ha perduta per sempre.
C’è Ercole, sceso negli Inferi per compiere la più difficile delle sue dodici fatiche: catturare Cerbero, il cane trifauce. Lo ha vinto, incatenato, e lo ha portato fuori da quel profondo a dimostrazione dell’impresa. È stato uno dei pochi che è riuscito ad uscire.
C’è Ulisse, che è entrato nell’Ade per trovare l’indovino Tiresia ed avere da lui indicazioni per tornare ad Itaca. Le ha avute ed è riuscito ad uscire e ritornare in patria.
C’è Enea che è disceso nell’Averno attraverso lo spaventoso fiume dei morti, ha parlato con l’ombra del padre Anchise che gli ha rivelato il destino di Roma che egli stava per fondare, e “in qual modo avrebbe potuto evitare e sopportare qualsiasi fardello”. Poi, attraverso la porta d’avorio ha fatto ritorno ai compiti che lo attendevano nel mondo.
Nella Poesia, personaggi che hanno compiuto il gran viaggio sono stati Dante, Novalis e molti altri.
Dante è entrato nell’Inferno, l’ha visitato ed è uscito da esso preparato per il Cielo.
Novalis nei suoi Inni alla notte canta la sua avventura nel regno tenebroso e come è giunto a ritrovare per sempre Sophie, la giovanissima fidanzata prematuramente scomparsa.
Nel misticismo, l’abisso ha nome “notte oscura”, o “nube della non conoscenza”, o “notte dell’anima”. Come notte oscura l’ha affrontato e superato Giovanni della Croce. Come notte dell’anima Angela da Foligno. Come nube della non conoscenza Riccardo di San Vittore, Pseudo Dionigi, Mosé.
Nella favola c’è Pinocchio, inghiottito dalla balena, e quel ventre è un altro nome e aspetto del regno tenebroso da cui è riuscito a fuggire. È entrato burattino ed è uscito trasformato in bambino: ecco la metamorfosi.
Non diversamente da Pinocchio, gli uomini che hanno compiuto quell’impresa sono diventati eroi, semidèi, poeti, mistici, santi.
Infine, fra gli innumerevoli visitatori del regno dei morti ci sono coloro che ricordano vite precedenti in quella che stanno vivendo. Se sono ritornati, significa che hanno attraversato in qualche modo l’abisso, ma in modo segreto e nascosto, ignoto a loro stessi, mentre ora è chiaro e distinto. Ora c’è un ponte che collega le due sponde e quindi le esistenze fra di loro: ecco la novità. Nomino soltanto alcuni dei più celebri: Virgilio, Cicerone, Plotino, Schopenhauer, Jung, Gandhi, Huxley, Gibran.

In questi nostri tempi di declino e caduta dell’Occidente, con conseguente immersione nelle tenebre, un viaggio simile a quelli di cui ho fatto cenno è toccato a me.
In un campo diverso però, in quello del pensiero filosofico, che non è stato mai percorso prima per intero, anche se c’erano indicazioni della fine specialmente nella sua storia più recente. Ma un percorso così, di tipo nuovo e mai fatto prima d’ora, non è facile che sia capito e creduto: infatti, anche se ho comunicato l’avventura e la scoperta, pochi finora hanno chiesto informazioni circa il metodo adottato e l’hanno tentata a loro volta. Si pensa e si crede perlopiù, mi pare, che sia opera di fantasia, o qualcosa di personale e privato che può interessare soltanto a chi è toccata, una specie di sogno ad occhi aperti che gli altri non colgono, o cui non interessa.
M’è venuta allora recentemente l’idea di abbinare l’intero cammino circolare che ho compiuto alle tante intuizioni ed esperienze di esso, espresse con le parole di poesia, che sono apparse lungo i secoli e millenni, in Occidente ma anche altrove, anzi in tutto il mondo abitato. Ricorrendo alle fonti, questa volta, vale a dire alle parole emerse in quel modo, e scoprendo la loro coincidenza con i pensieri chiari e distinti della filosofia. Mi son detto: se i versi dei poeti sono stati lampi nelle tenebre, se molti hanno creduto ad essi, o comunque, come Paolo sulla via di Damasco, ne sono stati colpiti, e li hanno adottati e seguiti, un po’ di attenzione la riserveranno anche a me, che ho cercato di raccogliere tutti quei lampi in una luce sola, che forse per millenni non tramonterà.

Finora le coincidenze le ho ottenute prendendo come testi a fronte le poesie, ma, se lo vorrà il Destino, se ci saranno risultati dopo questa prova, la stessa cosa potrà continuare con le voci del mito e con quelle dei mistici. Perfino con le leggi e teorie della scienza in certi casi, se sarà necessario o se capiterà l’occasione.

Ma perché comunicare, o cercare di farlo, un cammino così difficile, impegnativo, misterioso, dal momento che la maggior parte degli abitanti di questo mondo arriva qui come in vacanza e a programmare vacanze, o questa sarebbe la scelta dei più se potessero? In altre parole, perché dovrebbero rinunciare a gioie, denaro, amicizie, amori, viaggi sulla terra, o anche al dolce far niente, per seguire un cammino difficile, faticoso, avventuroso, misterioso?
C’è un perché che non lascia dubbi, che non può essere contestato o ritenuto illusorio o superficiale. Perché il cammino cui invito è quello della vita; lo stesso su cui tutti, volenti o nolenti, ci troviamo e in ogni caso per esso siamo costretti ad andare e termina sempre sul ciglio dell’abisso dove inevitabilmente e indistintamente si precipita. Verso quel vuoto immane la stragrande maggioranza è come se fosse condotta per mano e poi gettata, o attirata, come i topi della favola dal suono del pifferaio, e lasciata là cadere.
Dunque, non si tratta di cambiare strada, perché essa è una sola. Si tratta solo di percorrerla in modo diverso, per cui sarà utile confrontarlo con quello normale e comune. Poi ciascuno sceglierà, ma la scelta dipenderà anche dalla sua indole e dalle sue risorse. Si dice oggi dal suo dna.

Primo modo: quello che normalmente e pressoché generalmente viene seguito. Si va ad occhi aperti solo a tratti, quelli che chiamiamo veglie, cui seguono altri tratti a palpebre chiuse, dove si procede come portati. Ma non ci sono solo questi buchi e limiti nella consapevolezza. Il nostro andare saltellante fra luce e oscurità è ciò che accade finché siamo più o meno svegli nella vita, vale a dire dalla nascita alla morte. Ma poi è peggio, anzi immensamente, ferocemente peggio. Dopo si precipita nella tenebra più fonda e nel mistero più fitto. E si piange, ci si dispera: per le persone care che ci lasciano e scompaiono, per noi stessi quando siamo vicini alla fine.
Dunque la prima via, che è poi quella della natura, non richiede volontà e impegno. Si è gettati, si è tolti, si è portati, tutto sembra accadere per caso. O comunque l’impegno è limitato: dura il tempo di una vita. Ed è la più facile perché c’è il treno che chiamiamo specie che ci carica, trasporta e scarica, condensati in seme o sviluppati in pianta, e questo girotondo, dicono gli scienziati, iniziato milioni di anni fa continua senza posa e interruzioni.

E la seconda via? È la stessa, come ho già detto, ma con un altro aspetto. Una specie di sopraelevata che segue il tracciato antico e non è più in mano al caso. Semmai in parte al Destino, perché c’è un patto. E non si è più gettati e tolti, ma si arriva e si parte. Inoltre ci sono ormai indicazioni su tutta la via, anche dal ciglio dell’abisso in poi, fino all’altra sponda. E c’è un ponte che collega le due rive, esile per ora, non molto di più di una corda molle che ho lasciato andare alle mie spalle quando sono passato la prima volta. Ma poi, come ha annotato in quell’occasione, “ci penseranno i tecnici a costruire il ponte. Io credo che si troverà il modo di tirarlo e rafforzarlo e già vedo con l’immaginazione le torri che sorgeranno al posto dei rudimentali ancoraggi che ho costruito io, più alte di quelle del ponte di Brooklyn, più vicine al cielo di quelle che sono state progettate per l’attraversamento dello stretto di Messina; e il solido nastro, che sostituirà l’attuale corda dove si può passare uno alla volta, si stenderà dall’una all’altra sponda e sarà il più lungo, degno di tanto vuoto. Io credo che su di esso passeranno gli uomini di una nuova civiltà.”

Ecco posti a confronto i due aspetti della strada: quello normale e comune e il nuovo, dopo i segnali e le illuminazioni. Non dovrebbero esserci dubbi sulla scelta, però il secondo è costruito sopra il primo, a notevole altezza. È la via della conoscenza, e bisogna arrivare fin lassù se si vuole prenderla e seguirla. Questo è il trauma dell’inizio di ogni cosa.
Tuttavia, quando una strada è indicata e tracciata, come sempre accade per quelle sulla terra, alla fine si arriva ad imboccarla e percorrerla, anche da chi non sa quando è stata costruita e non conosce il nome dell’autore.